martedì 13 dicembre 2011

Psicopatologia della vita democratica

Psicodramma in un ufficio postale. Un ufficio postale è fatto quasi ad anfiteatro, è aperto quasi 12 ore su 24 a tutti quelli che passano come un porto di mare, la gente perlopiù è nervosa, ha fretta, è costretta all’attesa, magari non trova i moduli che vanno a ruba sugli scaffali, gli impiegati sono in front line per tutto l’orario di lavoro, sei o sette ore, con forti ondate di affluenza in certi periodi. Niente di strano dunque se spesso vi si svolgono psicodrammi divertenti o violenti, secondo i casi. L’altro giorno ho assistito coi miei occhi a questa scena: un handicappato di circa diciott’anni che ho già visto altre volte sta prendendo vari moduli di qua e di là per giocarci poi a casa. E’ un tipo espansivo e dice a voce alta a tutti che per esempio il bollettino delle tasse automobilistiche gli serve per prendere la patente, lui si è fatto questa convinzione, oppure che il modulo per le ricariche telefoniche gli serve a «farsi il telefonino» perché non ne ha uno tutto suo. Noi naturalmente immaginiamo a cosa è destinata questa persona: vede che tutti hanno la macchina e lui non potrà mai guidare, vede che tutti parlano sul proprio telefono portatile e lui non ne può avere uno proprio perché chissà chi chiamerebbe, tutti hanno un lavoro e lui non ce l’ha (chiede insistentemente girando fra gli impiegati: «Mi assumete? Mi fate assumere alla Posta?»), e naturalmente si possono immaginare anche le rinunce più terribili che lo attendono al di là di queste piccole rinunce: non uscirà con altri ragazzi della sua età, non andrà mai al cinema con loro, non uscirà con le ragazze, non avrà una ragazza eccetera. All’improvviso dalle postazioni degli operatori si stacca un’impiegata più decisa degli altri che gli dice di non prendere troppi moduli e, vedendo che lui resiste, gliene strappa letteralmente alcuni dalle mani, perché li sta consumando inutilmente, li sta sprecando. Interviene il padre del ragazzo che gli dice di stare bravo e lo accompagna fuori. La situazione non esplode in contumelie, resta sotto il controllo di un padre molto affettuoso che fa da mediatore intelligente e garbato. Tuttavia, uscito il ragazzo, io, che ho seguito tutta la scena, non posso fare a meno di dire all’impiegata che poteva anche lasciargli quei pochi fogli bianchi, una piccola cosa per lei ma molto significativa per quel ragazzo. La risposta è: «Si faccia gli affari suoi».
Altro teatrino di strada: una fermata della metropolitana. Un tale (ce n’è ancora qualcuno ogni tanto) si accende la sigaretta sotto il metrò in attesa che arrivi il treno. Ci vuole molto coraggio, lo so: bisogna prepararsi allo scontro eventualmente anche fisico, bisogna rompere le scatole a una persona evidentemente nervosa che avrà i suoi motivi per essere così nervosa, bisogna rinunciare a questi minuti che potrebbero essere di quiete, rompere la quiete pubblica, infrangere il quieto vivere... tuttavia il treno non arriva, è in leggero ritardo comincia a darmi fastidio questo dover respirare per forza il fumo di questo sconosciuto mentre siamo sotto terra in una situazione lievemente claustrofobica in ansia perché il treno non arriva. Il dado è tratto: gli dico di spegnere la sigaretta perché siamo sotto terra e c’è poco ossigeno. La risposta è: «Si faccia i fatti suoi».
Altro teatro: il proprio ufficio, situazione com’è noto, conflittuale per eccellenza. Un coacervo delle persone più diverse, che hanno ben poco in comune, in alcuni casi nulla, costrette tutto il giorno nel medesimo spazio a fare cose che in linea di massima non interessano oppure, se interessano, possono portare ai ferri corti per motivi di rivalità, antagonismo, schieramento a gruppi diversi, antipatia personale, incompatibilità eccetera. Si sa che in queste circostanze si cerca di pazientare il più possibile, come osserva Jankélévitch nel saggio sull’ironia intesa anche come comportamento quotidiano: in uno scenario sociale surdeterminato di conflitti com’è il nostro, in cui tutto si gioca in una cornice agonale, dai microrapporti quotidiani fra individui ai grandi rapporti della politica e dell’economia, l’ironista prende una distanza di sicurezza, cerca di non scoprirsi troppo, anzi si copre il più possibile, mettendosi fuori dalla portata dei colpi che da ogni parte possono arrivare. Ma, in seguito a un lungo accumulo di disagi e sofferenze, può capitare che qualcuno saltuariamente tenti di uscire dalla corazza d’indifferenza in cui bada bene di barricarsi il più possibile e cerchi di dire qualcosa. A me per esempio capita durante quest’ultima settimana e faccio lo sforzo di segnalare una cosa che non va. La risposta dell’ambiente è: «Fatti i fatti tuoi.»
Tre situazioni qualsiasi, della vita di tutti i giorni, in cui mi si costringe a collezionare questo piccolo slogan dell’italiano medio, ignorante, egoista, miope, meschino, menefreghista. Lo slogan del popolo che ha votato per tre volte il padrone delle televisioni alla Presidenza del Consiglio; del popolo della Lega, di coloro che vedono in una preghiera islamica all’aperto soltanto dei culi per aria, senza curiosità, senza stupore per un fenomeno culturale diverso, senza ammirazione, per esempio, del fatto che una preghiera possa essere recitata dovunque sotto la volta del cielo, poiché qualunque luogo, se Dio esiste, è sacro. Lo slogan di un popolo omertoso, tutto casa e lavoro, tutto casa e famiglia, tutto casa e chiesa, tutto casa e supermercato, soddisfatto dei suoi bei paraocchi, che gli consentono il tran tran quotidiano delegando ad altri tutti i problemi, tutte le questioni collettive, lo stesso pensare, riflettere sugli avvenimenti, come se non lo riguardassero.
Mentre mi viene in mente la canzone di Gaber «...democrazia è partecipazione...». Democrazia è farsi i fatti degli altri, dimostrando la capacità d’immedesimarsi anche negli altri, di condividere la loro sensibilità, le loro esperienze: degli handicappati come degli stranieri come dei miscredenti; anche se può sembrare inopportuno, antipatico, fastidioso. Poiché si è capito che i diritti dei disabili, degli stranieri, dei diversi sono anche i nostri; anche noi siamo per certi versi, in alcuni momenti, disabili, stranieri, diversi, o possiamo diventarlo. Democrazia è rompere le scatole, poiché se nessuno le rompesse mai, vorrebbe dire che siamo soltanto dei muli alla macina, delle pecore al pascolo, degli esecutori passivi, dei soldati, dei robot teleguidati.
Democrazia è rifiutare di essere il popolo degli indifferenti, il popolo dei fascisti secondo Moravia.

(11-2-09, Direfarebaciare)

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