Che
cos’hanno in comune testi tanto lontani nel tempo? L’elemento macroscopico è
che entrambi sono segnati dalla presenza di un diffuso maschilismo e
patriarcato duro a morire. Il racconto di De Stefani, presessantottino ma già
femminista, dipinge il quadro di una società patriarcale, contadina, in cui le
donne portano sulle spalle il peso dei parti, degli aborti clandestini, delle
gravidanze indesiderate, di amori più
o meno imposti come un destino cui non si può sfuggire, violentate o rudemente
sedotte per brevi avventure ancora molto giovani e sprovvedute, specie se di
classe inferiore. Il romanzo dell’esordiente Piccinni, in chiave più moderna, rimanda
a una gioventù postsessantottina ma ancora e sempre bruciata, che si macera
nell’immobilismo e nella saudade di un
Suditalia abbandonato a se stesso, rassegnato ai suoi mali inguaribili: è
ambientato a Taranto, dove si dà per scontato che nulla possa cambiare nella
situazione industriale e ambientale così come nella vita privata dei singoli,
mentre permangono antiche cerimonie religiose di celebrazione collettiva del
dolore. Alle ragazze anche più trasgressive, poco sottomesse a scuola e in
famiglia, che fumano e bevono birra coi loro coetanei fin da adolescenti, viene
riservato comunque un ruolo passivo: “Hai voluto fare parte di tre vite. Le hai
volute distruggere tutte e tre. Prima prendendo due donne e consumandole, poi
uccidendo me. Mi hai preso, anche se non ti ho voluto. Sei entrato nella mia
vita e, dall’interno, hai iniziato a scardinarmi. Hai dilaniato la mia vita e
mi hai fatto impazzire. Mi hai costretta a essere tua.” (pag 130).
sabato 29 giugno 2019
Diciottenni suicide
Nel
1963 Livia De Stefani dava voce all’angoscia di una servetta diciottenne
sedotta e abbandonata con le conseguenze del caso, cui la giovane fa fronte
maldestramente, nel panico, sopprimendo sul nascere il “frutto del peccato” e
avvicinandosi sempre più al suicidio nelle ore seguenti, narrate in Viaggio di una sconosciuta (Mondadori,
Milano 1963). Il lungo racconto, recentemente ristampato dalle edizioni Cliquot
(Roma 2018), è molto interessante per il flusso d’angoscia della protagonista
sullo sfondo di una Roma assolata e spietata; spietata a causa del quadro
sociale che lascia intravedere (ne parlo qui: https://voltandopagine.blogspot.com/search/label/livia%20de%20stefani ). A distanza di oltre quarant’anni Flavia
Piccinni col suo esordio Adesso tienimi
(Fandango 2007; Terrarossa, Bari 2019) accosta il tema analogo della seduzione
brutale di una ragazzina appena diciottenne o quasi, la quale, pur non avendo a
che fare con una gravidanza indesiderata, si trova a dover elaborare una dura
storia di amore malato, cui
inizialmente viene costretta da un suo insegnante, che a un certo punto
comincia a desiderare e che vede poi bruscamente interrotta dal suicidio di
lui, il quale non le lascia alcuna spiegazione (“Per me non avevi lasciato
niente, perché non ero niente.” Terrarossa ed., pag 161).
domenica 2 giugno 2019
L'esclusione esiste
Forse ho generato una certa antipatia e diffidenza intitolando questo sito-blog Lettere a nessuno (al femminile), con un calco evidente del titolo di un libro che suscitò discussioni. Quello era un libro; questo è un sito che finisce per contenere un po' di tutto, esposto a eventi, questioni di attualità, contaminazioni, incontri. Per la precisione sarebbe un blog, ma, per via dell'introversione dell'amministratrice, è vissuto quasi come un diario. Uno dei temi di fondo di questo diario pubblico resta l'esclusione, come anticipato appunto nel titolo preso in prestito.
Sappiamo che Antonio Moresco a un certo punto ha avuto fortuna e il suo isolamento dal mondo editoriale (che entra anche nella vicenda degli Esordi, non solamente nelle Lettere a nessuno) non è durato per sempre. Altri scriventi sono rimasti e continuano a restare ingiustamente nell'ombra. Colpa loro? Difficile dirlo.
Consideriamo gli scrittori Mariano Bargellini ed Ezio Sinigaglia, arrivati a un qualche riconoscimento dopo i sessant'anni.
Con Mus utopicus (Gallino, Milano 1999), La setta degli uccelli (Corbo, Ferrara 2010) e Giocare a mangiarsi (Effigie, Milano 2015) Bargellini (anno di nascita: 1936) ha elaborato una prosa densa (neobarocca, a suo dire) e trame fra l'onirico e il fantastico, restando uno scrittore di nicchia. Qualcuno potrebbe obiettare: ma il barocco è un vicolo cieco in questa società frenetica dominata da notizie-flash, slogan, tweet, small talk. E poi il fantastico ha una tradizione esile in Italia, dove in genere ha prevalso il realismo con le sue varianti (per motivi anche politico-sociali, a ben vedere: diffusa criminalità organizzata, scandali, politica corrotta, in cui la realtà sociale chiede da più parti di essere guardata in faccia e descritta senza reticenze; da qui il successo del giornalismo d'inchiesta e dei reportages narrativi tipo Gomorra).
Tuttavia Bargellini sostiene: "La mia scelta ha una lunga tradizione nel Novecento, pensate a Kafka o al Manganelli della Palude definitiva". E aggiunge: "Andate a leggere o rileggere Caos e bellezza di Omar Calabrese: capirete quanto può essere moderno il neobarocco".
Ezio Sinigaglia (anno di nascita: 1948), dopo un esordio intorno ai trent'anni passato inosservato con un corposo romanzo-saggio che s'interroga sulle principali innovazioni stilistiche del Novecento (Il pantarèi, SPS-Sapiens, Milano 1985), trascorre decenni di vita appartata dedicandosi alla stesura di testi rimasti nel cassetto, tranne un breve romanzo di stampo più tradizionale, pubblicato da una casa editrice che comincia a dargli visibilità (Eclissi, Nutrimenti, Roma 2016). Finalmente, con la ristampa di quel primo romanzo degli anni ottanta, ottiene molti apprezzamenti. Con questa nuova apparizione del Pantarèi nel 2019 (grazie alla coraggiosa casa editrice Terrarossa di Bari) è come appena nato nella società delle lettere.
Il suo caso è emblematico: più di trent'anni di sepoltura di un testo vivo e ricco che affronta un tema rimosso negli ultimi decenni, quello del confronto con la prosa più innovativa del Novecento. Nel cimentarsi con la sua opera d'esordio in un genere, quello del romanzo, considerato in crisi e da alcuni ormai dato per morto, il protagonista Stern, alter-ego dell'autore, attraversa e testa su di sé (su diverse parti della vicenda) gli stili che hanno rivoluzionato il modo di narrare dei secoli precedenti.
Scrive Angelo Di Liberto in una recensione al Pantarèi: "Viviamo nell'epoca del godimento che è sempre a scapito della responsabilità. Ciò che importa è la fruizione spicciola, l'illusione emotiva, la crosta sulfurea di un'epidermide sottoposta ad agenti esterni ad alta virulenza d'insignificanza. La coscienza nana ha sostituito la natura morale e intellettuale e a seppellire ogni guizzo creativo ci pensa il mercato delle classifiche. Perché nella quantità si esperisce lo scopo aziendale, dato che la qualità è indigesta speculazione al rialzo di consapevolezza. Ad aggiungersi alla consunzione vi è l'idea, ormai radicata, che la lettura abbia perso autorevolezza e centralità (...) I dati statistici sono emblema di un settore in disfacimento, senza transustanziazione del caso (...) A fare i conti con la situazione letteraria della sua giovinezza, dato che la prima pubblicazione del libro è della metà degli anni ottanta del secolo scorso, è un autore che instilla nuova linfa vitale alla quercia centenaria della letteratura, cimentandosi in un florilegio stilistico degno dei grandi autori passati alla posterità (...) Come un moderno Zeno si aggira per casa, vaga per le stanze e invoca i suoi fantasmi, attribuendo alla letteratura una funzione terapeutica così da restituire senso e valore alla vita." (Morte (e resurrezione) del romanzo, la Repubblica, Palermo 4.4.2019).
Sappiamo che Antonio Moresco a un certo punto ha avuto fortuna e il suo isolamento dal mondo editoriale (che entra anche nella vicenda degli Esordi, non solamente nelle Lettere a nessuno) non è durato per sempre. Altri scriventi sono rimasti e continuano a restare ingiustamente nell'ombra. Colpa loro? Difficile dirlo.
Consideriamo gli scrittori Mariano Bargellini ed Ezio Sinigaglia, arrivati a un qualche riconoscimento dopo i sessant'anni.
Con Mus utopicus (Gallino, Milano 1999), La setta degli uccelli (Corbo, Ferrara 2010) e Giocare a mangiarsi (Effigie, Milano 2015) Bargellini (anno di nascita: 1936) ha elaborato una prosa densa (neobarocca, a suo dire) e trame fra l'onirico e il fantastico, restando uno scrittore di nicchia. Qualcuno potrebbe obiettare: ma il barocco è un vicolo cieco in questa società frenetica dominata da notizie-flash, slogan, tweet, small talk. E poi il fantastico ha una tradizione esile in Italia, dove in genere ha prevalso il realismo con le sue varianti (per motivi anche politico-sociali, a ben vedere: diffusa criminalità organizzata, scandali, politica corrotta, in cui la realtà sociale chiede da più parti di essere guardata in faccia e descritta senza reticenze; da qui il successo del giornalismo d'inchiesta e dei reportages narrativi tipo Gomorra).
Tuttavia Bargellini sostiene: "La mia scelta ha una lunga tradizione nel Novecento, pensate a Kafka o al Manganelli della Palude definitiva". E aggiunge: "Andate a leggere o rileggere Caos e bellezza di Omar Calabrese: capirete quanto può essere moderno il neobarocco".
Ezio Sinigaglia (anno di nascita: 1948), dopo un esordio intorno ai trent'anni passato inosservato con un corposo romanzo-saggio che s'interroga sulle principali innovazioni stilistiche del Novecento (Il pantarèi, SPS-Sapiens, Milano 1985), trascorre decenni di vita appartata dedicandosi alla stesura di testi rimasti nel cassetto, tranne un breve romanzo di stampo più tradizionale, pubblicato da una casa editrice che comincia a dargli visibilità (Eclissi, Nutrimenti, Roma 2016). Finalmente, con la ristampa di quel primo romanzo degli anni ottanta, ottiene molti apprezzamenti. Con questa nuova apparizione del Pantarèi nel 2019 (grazie alla coraggiosa casa editrice Terrarossa di Bari) è come appena nato nella società delle lettere.
Il suo caso è emblematico: più di trent'anni di sepoltura di un testo vivo e ricco che affronta un tema rimosso negli ultimi decenni, quello del confronto con la prosa più innovativa del Novecento. Nel cimentarsi con la sua opera d'esordio in un genere, quello del romanzo, considerato in crisi e da alcuni ormai dato per morto, il protagonista Stern, alter-ego dell'autore, attraversa e testa su di sé (su diverse parti della vicenda) gli stili che hanno rivoluzionato il modo di narrare dei secoli precedenti.
Scrive Angelo Di Liberto in una recensione al Pantarèi: "Viviamo nell'epoca del godimento che è sempre a scapito della responsabilità. Ciò che importa è la fruizione spicciola, l'illusione emotiva, la crosta sulfurea di un'epidermide sottoposta ad agenti esterni ad alta virulenza d'insignificanza. La coscienza nana ha sostituito la natura morale e intellettuale e a seppellire ogni guizzo creativo ci pensa il mercato delle classifiche. Perché nella quantità si esperisce lo scopo aziendale, dato che la qualità è indigesta speculazione al rialzo di consapevolezza. Ad aggiungersi alla consunzione vi è l'idea, ormai radicata, che la lettura abbia perso autorevolezza e centralità (...) I dati statistici sono emblema di un settore in disfacimento, senza transustanziazione del caso (...) A fare i conti con la situazione letteraria della sua giovinezza, dato che la prima pubblicazione del libro è della metà degli anni ottanta del secolo scorso, è un autore che instilla nuova linfa vitale alla quercia centenaria della letteratura, cimentandosi in un florilegio stilistico degno dei grandi autori passati alla posterità (...) Come un moderno Zeno si aggira per casa, vaga per le stanze e invoca i suoi fantasmi, attribuendo alla letteratura una funzione terapeutica così da restituire senso e valore alla vita." (Morte (e resurrezione) del romanzo, la Repubblica, Palermo 4.4.2019).
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