martedì 24 dicembre 2013

La scrittura e il vuoto

C'è molto spazio vuoto nell'universo. Nell'universo è maggiore il vuoto del pieno. E' naturale che nella mia Trilogia della scomparsa* si trovino tanti spazi vuoti.
Mi piace l'attitudine della poesia a salvare poco dal molto, a capire che si può salvare poco, dovendo eliminare il rumore e tener conto del silenzio, pur ascoltandolo; tener conto cioè del fatto che ci sarà sempre qualche residuo di silenzio inesplicato.
Poderosi volumi pieni di parole destano il sospetto che tutte quelle parole contengano anche del rumore, poco rispettoso del silenzio dell'universo. Può esservi del rumore pure dentro le parole: parole che si sovrappongono ad altre parole, parole che non lasciano parlare gli altri, parole che non sanno quello che stanno dicendo (anche se, bisogna riconoscerlo, la parola scritta è per sua natura più vicina al silenzio e forzatamente più rispettosa di ciò che la circonda se confrontata con la parola parlata o gridata del vivere quotidiano).
L'aspirazione sarebbe la sintesi propria della poesia e al contempo la disponibilità all'accoglienza e al dialogo, propri della prosa. 

martedì 17 dicembre 2013

La pazienza "mistica" dei veri scrittori secondo Cavazzoni

Questo l'incipit del gustosissimo Limbo delle fantasticazioni di Ermanno Cavazzoni: "Il primo grande guaio delle faccende artistiche, letteratura compresa, è che sembrano promettere una via accelerata al successo. (...) In questo senso l'arte e la letteratura può essere una brutta faccenda, di prevaricazioni, una strada accelerata per la vendetta sul genere umano; e i suoi prodotti bolle d'aria, gonfie di vanagloria (e di puzza)." (Quodlibet, Macerata 2009, p 7)
"E' così che si genera uno stato permanente di guerra tra tutti gli artisti. Mentr'invece questo è un campo in cui dovrebbe regnare la pace come di fatto regnava in Siria, in Palestina, in Egitto, nel III, IV, V secolo dopo Cristo, quando ci vivevano sparsi a distanza di due o tre chilometri l'uno dall'altro i grandi santi anacoreti, ognuno nascosto nella sua grotta, o esposto al sole e alle mosche, magari in piedi su una colonna, e i miracoli venivano da soli, non li cercavano, guai!; e così la gloria eterna, guai a cercarla!; un santo anzi stava nascosto, dissimulato (come dovrebbe fare un artista)..." (p 10)
La continuazione del discorso: "... se l'eremita non cedeva, continuava ad esempio a fare il suo lavoro in tutta umiltà e concentrazione, allora poteva accadere che improvvisamente splendesse, le campane suonavano e chi era rimasto se era cieco vedeva, e i paralitici anche loro si mettevano a correre..." (p 11)
"Purtroppo quest'epoca della santità ad un certo punto è finita molti secoli fa, ed è subentrata l'era dell'arte, la quale tuttavia possiede io credo una regola interna un po' simile. E come non c'è il colpo gobbo tra i santi, credo che anche nell'arte e nella letteratura, l'idea del colpo gobbo sia un'idea controproducente (un'illusione del diavolo), o comunque un handicap grave già in partenza." (p 12)
Un paragone analogo si trova in una frase del critico Gian Maria Annovi reperibile nella raccolta di scritti sul romanzo sperimentale (Gruppo 63. Il romanzo sperimentale. Col senno di poi, L'orma editore, Roma 2013): "La foresta urbana del Romanzo sperimentale, in cui non fatico a confessare di essermi perduto anch'io, è fatta però d'alberi alquanto strani. Si tratta di tronchi senza rami, colonne di varia altezza, tralicci, pali della luce sulla cui sommità si trovano, come stiliti, non stinchi di santo ma scrittori sperimentali." (pag 386).

giovedì 12 dicembre 2013

Racconto-spia: "Storia del non nato", contenuta in Hilarotragoedia di Giorgio Manganelli

La forte intensità del racconto intradiegetico "Storia del non nato", reperibile nella parte finale dell'Hilarotragoedia manganelliana, frammento straordinariamente tragico in quel contesto (che riporta frasi di "asciutta disperazione" come questa: "Non più donna era costei, ma esempio estremo, unità di misura del male, della sofferenza…", p 118 nell'edizione adelphiana del 1987) si può intendere come spia del fatto che l'autore sta parlando di se stesso: è lui, Giorgio Manganelli, che lamenta il suo non essere nato all'esperienza (in questo caso esperienza affettiva di figlio poi fidanzato, marito…) fino a desiderare la morte pur non essendo mai nato, morte al quadrato, morte elevata a potenza (evidentemente qui lo scrittore si riferisce a una condizione psichica non a una realtà autobiografica; fu infatti partigiano, ebbe storie d'amore tormentate). Ma perché parlare di non-nascita se ebbe una vita, a periodi, intensamente vissuta? Quell'atmosfera asfittica da morte intrauterina deve corrispondere probabilmente a un desiderio punitivo. Desidera ritornare nel grembo materno e soffocarvi oppure, se vivo, desidera essere punito in un inferno, come sembra trapelare da altre sue scritture (Dall'infernoLa palude definitiva).
La messa in forma narrativa di questa solitudine esistenziale ("Non ho nome, né luogo, né sangue, non mi è dato né nascere né morire…") è di tutt'altro segno per gli autori italiani più recenti, testimoni di una storia contemporanea eccezionalmente risparmiata nell'Europa occidentale dalle guerre, dai massacri di massa, dalle grandi carestie e altri flagelli, un fatto ascritto in particolare all'ultima generazione scrutata dall'occhio critico e autocritico di Antonio Scurati (La letteratura dell'inesperienza, Bompiani, Milano 2006) e Daniele Giglioli (Senza trauma, Quodlibet, Macerata 2011). Questi soffrono per non aver vissuto abbastanza.
Gilda Policastro in Polemiche letterarie. Dai Novissimi ai lit-blog (Carocci, Roma 2012) ha un'intuizione che condivido in pieno circa la vera natura di quell'inesperienza profonda di cui parlano Scurati e Giglioli nei loro saggi recenti: la natura sociale, di classe della condizione privilegiata dell'intellettuale, tuttavia sensibilmente consapevole di carenze profonde sue e della società. La ricercatrice segnala la presenza di un "muro che separa di netto il recinto anestetizzato e davvero senza traumi di coloro che conservano il privilegio di una posizione intellettuale (cioè separata dalle cose) e di quanti dalle cose medesime siano invece così assorbiti e totalizzati da non potersi consentire né di scrivere né di leggere libri." (p 162). Nella frase citata l'autrice si riferisce al caso letterario di Gomorra (Roberto Saviano, Mondadori, Milano 2006), osservato più con attenzione sociologica che estetica, in quanto riuscì eccezionalmente a rompere quel muro divisorio, fatto davvero raro, fra l'altro mai ripetutosi neppure con gli altri libri dello stesso autore.
Voglio intendere che al centro della questione stia il profondo divario sociale nel nostro Paese. Da qui l'importanza che possono aver avuto macroeventi come la guerra o la Resistenza (cfr il Calvino del Sentiero dei nidi di ragno citato da Scurati nel suo saggio), non tanto come produttori di traumi quanto come cause di rimescolamento sociale e di vita partecipata.

Nota A proposito di trauma, mi pare interessante questa frase di E. M. Cioran: "Senza dubbio, le sole esperienze davvero autentiche sono quelle che nascono dalla malattia." (Al culmine della disperazione, 1934, Adelphi Milano 1998, p 37). Sì, più malattia/complesso che trauma: la teoria della causa interna mi convince più della causa esterna.