lunedì 28 dicembre 2015

Genti a cartapesta di Fabio Greco, un romanzo meritevole e ancora inedito

Un estratto

E anzi, girando lo sguardo verso l’orizzonte, verso quel confondersi di mare a cielo e cielo a mare, verso i gabbiani che volteggiavano eleganti, gli parve che dall’isola, anziché la malasorte, gli arrivasse in quel momento una buonasorte anzi una buonissima sorte camuffata da donna, un donnone salentino, donnone inteso per altezza e larghezza, un’erculona tanta, boterosa, con spalle larghe, larghi i fianchi, larghissime cosce e petto assai, che s’appressò alla costa da dietro all’isola delle Pazze. Masello la vide sbucare al remo d’una barchettina mezz’affondata con la linea di galleggiamento a livello sponda, un’eccezione a qualsiasi legge fisica, che c’era da chiedersi come potesse quella barchetta di legno, esile e fradicia, sostenere tutta quella massa senza sprofondare, come potesse non incamerare acqua a ogni beccheggio, a ogni ondata, a ogni movimento di braccio e di spinta di remo, pericolosamente s’inclinava pelo pelo all’acqua, s’inchinava al mare e all’onda e subitamente si rialzava, ripigliava contegno per poi prostrarsi dall’altro lato e ripigliare posizione una volta ancora, a farci venire in mente a Masello quei pupi da prendere a pugni che ritrovano sempre l’equilibrio. Da lontano pareva sissignore una balena, non a modo di dire grossa come una balena, cicciona come una balena, grassa come una balena, proprio una balena vera, pareva un dorso di balena che faceva il paio con quel dorso di balena ch’era l’isola delle Pazze, forse un po’ più piccola, un’infante di balena al seguito della balena madre, e la cingeva torno torno, le faceva il giro e il rigiro in cerca della mammella, la barchetta navigava come un vaporetto trascinata dal ritmo della remata, tagliò quel latte ch’era diventato il mare, intra un’unica linea di nero, la barca avanzava a sobbalzi e sovvertimenti, emergeva la prua con quel suo nome pittato, Mariabbondanza, si sganciava dall’acqua e ricadeva, pareva fosse la barchetta a farci tutta la fatica, a sbuffare e crocchiare intra a quel cambio di fase tra acqua e aria, a darsi la spinta e lo sforzo per sfuggire all’onda: Masello se l’osservò quella barca e quella donna, a mezza voce mormorò, Ma che ci starà a pescare la Mariabbondanza? senza sapere che nominando la barca diede pure nome alla donna – se ne stava sopra alla barchetta con le anche aperte per tenere l’equilibrio e, a ripetizione, come pigliata da un astio contro l’acqua marina, gettava le reti e le ritirava a bordo. A Masello, quel nome gli faceva una tavolozza di colori intra alla capo, un quadro a meraviglia si faceva, se l’azzuccherava a destra e a manca, s’accavallavano pensieri che partivano dal suono che faceva quel nome, quasi sentiva una musichetta a pronunciarlo, a scivolare su quella legatura tra nome e opulenza, Mariabbondanza, che pigliava la rincorsa all’inizio della parola e poi si lasciava trasportare fino alla fine, come fare un salto e ricadere, a una a una unì altre parolette per assonanza, Mariabbondanza/ ci chiudemmo intra alla stanza/ ti spogliai con crianza/ tutta culo tetta e panza/ tu m’attizzi Mariabbondanza e sebbene ancora non la conoscesse di persona, già gli faceva il rimbambimento d’innamorato, una con quel nome, che da sola se ne andava per mare, che donna era questa donna, a sé stessa bastante, la Mariabbondanza? Gli era talmente familiare e reale e presente intra a se stesso che si convinse fosse, non già uguale, ma molto simile a una statua di madonna che aveva fatto l’anno prima, quasi che n’avesse fatta prima la statua e poi la persona, quasi l’avesse immaginata prima ancora d’incontrarla.

sabato 12 dicembre 2015

Il comunismo e l'arca di Noè

Mi rincuora leggere questo brano nel libro Oltre la gabbia d'acciaio di Gianfranco La Grassa e Costanzo Preve (ed. Vangelista, Milano 1994); mi pare sempre attuale e particolarmente natalizio. Scrive Costanzo Preve all'inizio della parte intitolata "Marxismo e filosofia alla svolta del duemila": "La sconfitta del comunismo storico novecentesco, consumatasi nel triennio 1989-1991, è stata immediatamente interpretata dagli apologeti del capitalismo come fine della storia e come affermazione di una modernità postmoderna, cioè di una modernità ormai rassegnata a riprodurre indefinitamente le proprie contraddizioni, rinunciando definitivamente ai sogni di emancipazione. La teoria della fine della storia è infatti la specifica filosofia della storia della postmodernità.
I marxisti escono da questa vicenda come un pugile sconfitto sul ring. Ancora intontiti per i colpi ricevuti, non hanno certo la capacità di progettare futuri incontri, ma hanno soltanto la forza di ritornare al proprio angolo, mentre l'arbitro solleva il pugno del vincitore. In realtà, questa immagine è fuorviante. Il vincitore ha dovuto drogarsi per riportare la sua effimera vittoria e l'antidoping lo squalificherà. Per riportare questa vittoria sul comunismo storico novecentesco (usiamo questa espressione perché sia ben chiaro che non identifichiamo questo comunismo con il progetto di Marx!), infatti, il capitalismo si è drogato con le spese militari, con la speculazione finanziaria, con lo stravolgimento integrale della cultura attraverso i media, con l'impoverimento selvaggio e scandaloso dei paesi oppressi dall'imperialismo. E' allora bene passare ad un'altra immagine. Il comunismo ci sembra oggi somigliare a Noè, ai suoi figli e agli animali che portava con sé (cioè, fuor di metafora, alla natura che occorre salvaguardare e salvare), che escono tutti dall'arca dopo il diluvio, e che hanno salvato però l'essenziale per ripopolare la terra…" (p 119).

mercoledì 9 dicembre 2015

Un postinferno e un mondo assorbito nell'increato

Perché ho voluto cimentarmi nella lettura delle oltre mille pagine degli Increati di Moresco (Mondadori, Milano 2015)? M'interessano gli scritti che parlano di altri regni: catabasi nel regno dei morti, utopie, alcuni testi di fantascienza. Come spesso accade per i libri di fantascienza, per le utopie o per le (rare) catabasi, vi si individuano sottotraccia alcuni lineamenti della nostra società, mascherati, da decifrare. Questo è uno dei motivi per cui non mi porrò di fronte all'ultimo libro di Moresco nell'ottica di un inquadramento o di un'opinione estetico-letteraria; m'interessa bensì considerarlo come segno dei tempi (elaborazione simbolica del periodo storico in cui stiamo vivendo).
La realtà infera coglie senza troppi preamboli il narratore protagonista così come il lettore fin dalle prime pagine. Viene chiaramente esplicitato che il protagonista è morto e la coltre caliginosa, nebbiosa, piovosa, nevosa che avvolge tutto si colloca nella tradizione letteraria delle visioni degli inferi.
Qui però la veste cupa è double-face, dal momento che a un certo punto si rivela fatta di sperma centrifugato da forze cosmiche  e, più precisamente, da un coito collettivo ininterrotto e diffuso ovunque fra morti, risorti e immortali. La realtà mortale/mortifera è subito contraddetta da numerosi contrappesi erotici (pioggia e fiume di sperma, neve seminale, amore imperituro fra i due personaggi principali del narratore-protagonista e della Pesca, ripetuti ritorni a scene dell'infanzia e così via) che accompagnano ogni passo della catabasi, quasi per un bisogno molto intenso (emotivo, affettivo, mentale) di negare il brutto di ciò di cui si sta parlando. Scheletro teorico del testo (almeno fino a un certo punto) è l'idea antica, ma tuttora appartenente a diverse religioni orientali, del tempo circolare: l'eterno ritorno, le reincarnazioni, l'inesistenza della morte. Tutte le nostre preoccupazioni in materia sono ridicole (su tutto questo la cosa più normale da farsi è infatti una bella risata: " 'I morti ridono?' 'Sì, ridono. E' così che accolgono i nuovi morti.' 'Ma perché ridono?' 'Ridono perché ormai sanno cosa succede dopo. Perché sanno che la morte non c'è, non c'è mai stata...' " p 17). Nella vita oltre la morte come nella vita di prima, di prima della nascita, come durante la nostra vita vivente di corpi materiali, tutto rimane uguale, pure la presenza dei corpi, la bellezza, la giovinezza, i sentimenti, il sesso.
Lo stesso stile dell'opera ricalca lo stile oracolare, oscuro, ambiguo di molti testi sacri, il quale rimanda ripetutamente al concetto della coincidenza degli opposti ed è qui come là impregnato di ossimori: la vitamorte, il primadopo, luci nere, i morti dentro la vita, i vivi dentro la morte ecc. A mo' d'esempio riporto una dichiarazione dello scrittore Antonio Moresco sulla sua stessa opera, inserita a p 823, nello stile sapienziale di chi sa qualcosa che altri non sanno e nello stesso tempo si esprime in modo oscuro (la lunga citazione è riportata in nota *).

mercoledì 2 dicembre 2015

Sul settarismo

Ritengo legittimo che amici, conoscenti, scriventi che conosco leggano, frequentino e sostengano chi magari non piace a me, e possano non avere un giudizio positivo di tutto quello che dico, penso o scrivo. Può accadere che non abbiamo esattamente le stesse idee con tutte le loro sfumature così come possono stare antipatiche persone diverse, non per forza identiche per tutti. Mi sembra normale che sia così. Trovo incredibile che alcuni abbiano la pretesa che venga accolto come oro colato tutto quello che dicono e che gli altri esprimano i loro medesimi giudizi su tutto, compresi autori o critici da stimare o da disprezzare, da leggere o no, da frequentare o da escludere. Per quella che è la mia esperienza, il settarismo, forse residuo di antichi campanilismi e consuetudini di un lungo Medioevo, è discretamente diffuso. In ogni caso, non mi ci riconosco. Presumo di non essere né gregaria né settaria. Leggo anche testi d'autori che mi sono personalmente antipatici.