Se l'io è una proliferazione immaginaria, come sostiene per
esempio Lacan, non si capisce fino a che punto siano giustificati tutti quei
romanzi così solidamente strutturati, dalle trame così compatte, che si
presentano come granitici monoliti. «Con questo libro,» vorrebbe dire un
editore o un libraio all’acquirente, porgendo il maneggevole blocco di cemento
armato, «puoi star sicuro che ti vendo un buon prodotto, tenuto insieme dal
rigore sintattico e da una logica ferrea. Sei sicuro che non ti si sfascerà fra
le mani privo di senso.» Il modello del cemento armato è probabilmente il
modello con cui sono costruiti questi parallelepipedi romanzeschi che
promettono la tenuta realistica di matrice ottocentesca, senza infiltrazioni o
bolle d'aria, cioè senza nulla che minacci la coesione interna, neanche un
piccolo dubbio. Blocchi pieni di parole tenute insieme con griglie d’acciaio,
forse per far fronte all'elevata competizione: si sa, un vaso di coccio non
viaggia bene in mezzo a vasi di ferro. Ecco, queste narrazioni in cui ogni
personaggio ha un suo carattere definito, un suo destino inscritto nel
carattere, o in cui entrano in relazione soltanto delle maschere sociali più o
meno stereotipate, ci dicono qualcosa di appena un po’ diverso da un saggio
sociologico. Un saggio di sociologia o di economia ha il vantaggio che può
entrare maggiormente nei dettagli, può fornire risposte più precise e
argomentate sul contesto sociale in cui viviamo. Ma perché anche nella prosa
d'immaginazione vengono proposti schemi rigidi, assertivi, convenzionali simili
a fortini inattaccabili? Come a dire: «Non ti vendo un libro, ti vendo un
piccolo fortino in cui trincerarti contro tutte le tue paure».