lunedì 5 dicembre 2011

Post-Edipo e post-Filottete

I capolavori di Samuel Beckett, che ancora sorprendono per la loro carica innovativa, risalgono agli anni cinquanta. La grande trilogia narrativa di Molloy, Malone muore e dell’Innominabile fu pubblicata fra il 1951 e il 1953, Aspettando Godot è del 1952, Finale di partita del 1957. Agli anni trenta risale l’ideazione di un personaggio-uomo vagabondo e debosciato che ritroveremo anche in opere più tarde.
Come mai sentiamo oggi più che mai vicino questo personaggio?
Straccione, vagabondo, primitivo, disabile, sporco, coperto di parassiti eczemi dermatiti, parassita egli stesso, onanista, claudicante, malato, paralitico, afasico, schizofrenico, paranoico, un po’ persino perverso, assassino per futili motivi, agonizzante, mezzo morto (Malone, Innominabile): questi i tratti essenziali. Un essere che è nella sostanza un animale, scoperto in tutta la sua istintività più naturale e ineducata, e nell’apparenza un rottame, un sopravvissuto.
D’altra parte, quando Diogene il cinico lo cercava col lanternino ai margini della società ateniese, era proprio questa autenticità priva di sovrastrutture, non condizionata da usi e costumi, quella che riteneva fosse la sua vera essenza. Emblematica, in More pricks than kicks, la scena del vagabondo i cui stracci vengono innaffiati dalla pipì di un cane. Il clochard non si adira e stupisce il protagonista per la sua nobiltà: “L’istintiva nobiltà di questo splendido essere per cui la vita privata, con le sue gioie ed i suoi dolori la sera sotto il carro, non era una cosa da conquistare, come Belacqua avrebbe potuto conquistare la sua un giorno se fosse stato fortunato, ma antecedente, disarmava tutti gli svolazzi ed i ghirigori della civiltà. Belacqua tracciò nell’aria un disegno inarticolato col bastone e scese lungo la strada uscendo dalla vita di questo calderaio, questo vero uomo finalmente.” (Novelle, p. 115)*. Altrettanto significativo, per esempio, è come mangia Molloy nell’omonimo romanzo e come butta all’aria la tazza di tè offerta da una dama di carità. Molloy ingurgita due bocconi avidamente senza masticare e poi basta: “si sarebbe detto che mangiasse per nutrirsi”, esclama il narratore con ammirazione.

Allo stesso modo di Diogene, viene rievocato pressoché ovunque il Socrate del  so di non sapere. Valgano come esempi le seguenti citazioni dalla trilogia: “… ero abituato (…) a non sapere neppure dove andavo, tanto tutto ruotava con incoerenza e arbitrio…” (Molloy, p. 48); “… sapere di non poter sapere nulla, ecco per dove passa la pace, nell’anima del ricercatore incurioso.” (Molloy, p.68)…; “In nessun momento so di che cosa parlo, né di chi, né di quando, né di dove, né con che cosa, né perché…” (L’innominabile, p. 360).
Un uomo dunque ridotto ai minimi termini, ma erede della filosofia antica e ancor più della tragedia greca, anche se la solarità è scomparsa completamente dalla scena (cfr in Molloy: “Ma io, del sole, non mi rallegro affatto (…) L’Egeo, assetato di calore, di luce, io l’uccisi, si uccise lui, ben presto, in me.” p. 33).
Con la differenza che nella tragedia classica Edipo impiega il tempo dell’intera opera per capire che è accecato e accecarsi con le proprie mani, mentre qui il personaggio è rovinato e spacciato in partenza. Manca inoltre la struttura portante, la colonna vertebrale di quelle antiche forme di espressione: il dialogo e la fiducia in esso. Il personaggio di queste opere si potrebbe definire un post-Edipo e un post-Filottete, dal momento che non si tormenta più per quello che fa né si lamenta per quello che subisce. Nell’Innominabile si compiace addirittura delle proprie ferite e in Watt viene detto esplicitamente che “quando smetti di volere, allora la vita incomincia a cacciarti in gola il suo pesce colle patatine finché vomiti, e allora giù in gola il vomito finché vomiti il vomito, e allora il vomito vomitato finché incomincia a piacerti.” (p. 46). In altre opere i personaggi sono divenuti insensibili al dolore perché vi si sono abituati, talmente la sofferenza è connaturata alla loro esistenza. “I sentimenti sono scomparsi, ma hanno modellato i corpi…” osserva Renato Oliva nella postfazione allo Spopolatore, facendo anche un paragone con la materia ferita e slabbrata di Alberto Burri. Ma fin da More pricks than kicks (1934) al protagonista era chiaro perché non riuscisse a piangere la morte della giovane moglie: “Per se stesso non riuscì a produrre una sola lacrima, avendo esaurito da giovane quella fonte di consolazione con l’indulgervi eccessivamente; né provava la minima esigenza od inclinazione a farlo per lei, essendo la sua piccola riserva di pietà dedicata interamente ai vivi, con cui non si intende questo o quel particolare infelice, ma la moltitudine senza nome degli uomini effimeri, la vita, oseremmo dire quasi, in astratto.” (Novelle,  p.127). A questo proposito in Mercier e Camier ci si chiede qua e là se valga la pena di continuare a trascinarsi in questa valle di lacrime. Queste sono due battute: “- Non riesci ad intravvedere come io intravvedo la possibilità di venire a patti con quest’assurda sofferenza, di attendere il boia con rassegnazione, come la ratifica di uno stato di fatto? - No – disse Camier.” (Mercier e Camier, p. 117).
Il non potersi fermare è tipico, oltre che del personaggio, anche del narratore di Beckett, che nell’Innominabile asserisce di essere “in viaggio con le vele gonfie di parole…” (p. 375) e ripete frasi più o meno analoghe: “Forse sono costretto, per non esaurirmi, ad inventare ancora qualcosa di fiabesco, con teste, tronchi, faccia, gambe e tutto il resto…” (p. 327); “Tutta questa storia di doveri da assolvere, per potermi fermare, di parole da dire, di verità da ritrovare, per poterla dire, per potermi fermare, di un dovere imposto, risaputo, negletto, dimenticato, da ritrovare, da adempiere, per non averne più da parlare, non aver più da sentire, l’ho inventata io, nella speranza di consolarmi, di aiutarmi a continuare, di credermi in qualche posto, in movimento, tra un principio e una fine…” (p. 333).
Quanto al vero e proprio complesso di Edipo, nucleo stesso dell’uomo secondo la psicanalisi, Molloy è forse l’unico romanzo che lo chiama in causa, spesso ironizzando, dal momento che tratta principalmente del faticoso tentativo compiuto da uno zoppo per ritornare alla casa di sua madre. Madre e figlio sono descritti simili a una vecchia coppia di coniugi (“Eravamo così vecchi, lei e io, lei m’aveva avuto così giovane, ch’eravamo proprio come una coppia di vecchi compari, senza sesso, senza parentela, con gli stessi ricordi, gli stessi rancori, la stessa aspettativa.” p. 19), ma nonostante qualche riferimento molto esibito (“Una donna avrebbe potuto fermarmi nel mio slancio verso mia madre?” p. 61; “E Dio mi perdoni, l’immagine di mia madre viene talvolta a sovrapporsi alle loro…” (a quella delle amanti) p. 63), le coppie madre-figlio, uomo-donna, amico-amico sostanzialmente si equivalgono. Occorre aprire una parentesi a proposito di cosa scrisse Beckett sull’amicizia e sui rapporti umani in genere nel giovanile saggio su Proust (1931). Il grande irlandese condivide l’opinione del grande francese secondo cui “l’uomo è una creatura che non può uscire da se stessa, che conosce gli altri solamente in se stesso e che, se afferma il contrario, mente.” Proust (citazione riportata da Beckett in Proust, p. 72). La nostra essenza è stivata in un abisso profondo, in una prigione sotterranea dove giacciono tutti i ricordi dimenticati, il nostro tempo perduto. Da questa lontananza interiore emergiamo, finalmente presenti a noi stessi, solo in occasione di qualche rara e casuale intermittenza del cuore. Beckett conferma: “Noi siamo soli. Non possiamo conoscere e non possiamo essere conosciuti.” (p. 72). “L’amicizia è un mito perché implica il tentativo di comunicare laddove nessuna comunicazione è possibile,” parafrasa Sergio Moravia nella prefazione al saggio in questione (p. 22). “Siccome è impossibile, diventa atto eroico, volgarità scimmiesca o qualcosa di orrendamente comico, come la follia che fa parlare coi mobili.” Tutti i rapporti, a questo punto, diventano insignificanti e anche Molloy e sua madre non comunicano se non attraverso qualche violenza e malinteso.
Dell’antico mito rimane forse un remoto senso di colpa. Troviamo scritto in Malone muore: ”E senza sapere esattamente quale fosse la sua colpa sentiva bene che vivere non costituiva una pena sufficiente o che questa pena era una colpa in se stessa, la quale a sua volta chiamava altre pene, e così di seguito, come se ci potesse essere altro all’infuori della vita, per i viventi.” (Malone, p. 255). Inoltre in Molloy la preferenza per la posizione orizzontale potrebbe essere un ammiccamento a Freud o a Ferenczi: “Sì, non potendo restare comodamente né in piedi né seduti, ci si rifugia nelle diverse stazioni orizzontali come il bambino nel grembo di sua madre.” (p. 150).
Edipo è cieco e impedito nei movimenti, Filottete resta solo su un’isola abbandonato dai compagni con una gamba rovinata e dolente: costoro potrebbero essere i lontani archetipi dei personaggi mutilati e senza speranza che Beckett ci presenta. Loro comune caratteristica, per esempio, è che, nonostante tutto, sono spinti a muoversi e a raccontare.
La trama che si ripete in quasi tutti i racconti o romanzi è costituita infatti principalmente da un incerto deambulare da un posto all’altro, un andare difficile, doloroso ma inarrestabile, cui corrisponde un parlare (o scrivere o narrare) che non finisce più, anche se non sa quello che dice. Il procedere innanzi è anche tipico della prosa per definizione (prosa, dal latino pro-versa = procedere diretto in avanti): si potrebbe dire che Beckett prende la scrittura alla lettera, non scrive storie ma si limita a mostrare ciò che tutte le storie sono nella loro essenza. In entrambe queste attività, umane per eccellenza, le difficoltà sono enormi.
Già nei primi romanzi troviamo l’abbandono della stazione eretta: in More pricks than kicks Belacqua, ubriaco, non si regge in  piedi sotto la pioggia e in Primo amore il protagonista viene sfrattato dai suoi parenti e gettato in strada, tuttavia nessuno dei due è dispiaciuto di trovarsi rasoterra. Ma anche nei testi successivi il topos si ripresenta e vediamo Molloy strisciare nella boscaglia sotto l’acqua verso la casa della madre (Molloy) e Macmann rotolarsi sotto un diluvio che non accenna a finire (Malone muore). Dopo la perdita della stazione eretta, a concludere il ritratto di questo moderno ominide o uomo primitivo, non manca il particolare grottesco del ritorno alla vita nella boscaglia e nelle caverne, considerate un’abitazione ideale e tranquilla.
Altri e numerosi i leitmotif di un’opera fatta come di vasi comunicanti, non essendo nessun romanzo propriamente finito e ritornando spesso i nomi dei vari personaggi. Per esempio Malone, mentre parla del suo imminente decesso, esplicita che “tutto sarà allora finito dei Murphy, Mercier, Molly, Moran e altri Malone…” (Malone, 251). Similmente alla fine di Mercier e Camier compare Watt e viene ricordato Murphy come se facessero parte della storia, pur essendo protagonisti di altri due libri (Mercier e Camier, pp 152-153).
Uno dei motivi più ricorrenti è lo spiacevole incontro con un vigile o poliziotto o guardiano, rappresentanti della società civile, che può comportare semplicemente botte o addirittura un omicidio (in Mercier e Camier).
Ma il più interessante è di matrice dantesca, in forma dichiarata o criptica. Potremmo soprannominare questo motivo la scena di Belacqua. Dante nel IV canto del Purgatorio, quando si trova ancora nell’antipurgatorio, incontra  Belacqua, che non si affanna nella salita del sacro monte come le altre anime perché tanto è inutile (soltanto le preghiere di chi è in grazia di Dio possono aiutare in quella circostanza). Tale saggezza ricalca il detto aristotelico Sedendo e riposando l’anima diventa saggia e offre una variante della predilezione classica per l’ozio filosofico, concetto che si contrappone splendidamente all’imperativo del fare e del produrre, tipico della nostra società. Il nome del personaggio dantesco è ripreso esplicitamente in More pricks than kicks, dove indica il protagonista. Il Belacqua di Beckett, che viene descritto come impantanato nell’indolenza e tuttavia aspirante a restare in balìa delle sue furie, si diletta in un singolare tipo di esercizio, denominato muoversi a boomerang e consistente in un inquieto spostarsi per tornare al punto di partenza (Novelle, p. 37). Chiama anche i suoi esercizi, per nulla affannosi, pause in movimento, con un particolare gusto per il principio di contraddizione che contraddistingue l’autore e trionfa specialmente nell’Innominabile.L’innominabile potrebbe essere definito un flusso di coscienza filosofico, più che psicologico, poiché lascia emergere le asserzioni e le contraddizioni della filosofia di tutti i tempi, così come il discorso immediato di Joyce apre uno spiraglio sul caos della psiche. La voce narrante dell’Innominabile è inoltre dissociata e disturbata. Ecco un altro modo di spingersi oltre l’Edipo: mostrare una struttura psichica più arcaica, schizoparanoide (es. “… non ho voce e debbo parlare, è tutto quello che so, è intorno a questo tema che ci si deve aggirare, è a proposito di questo che bisogna parlare, con questa voce che non è la mia, ma che non può essere che la mia…” p. 326; “Devo parlare, non avendo niente da dire, all’infuori delle parole altrui.” p. 333).
Riconosciamo simili a Belacqua i “sedentari” “semisaggi” dello Spopolatore, personaggi che, in mezzo all’inarrestabile e tormentoso saliscendi di tutti all’interno di un surreale cilindro, semplicemente si sono fermati. Qui troviamo diverse immagini dantesche: nicchie, pose semisdraiate o accucciate, processioni che si muovono in senso opposto.
Ancora situazioni purgatoriali compaiono in Molloy, dove un breve interrogatorio del vigile pare una criptica citazione della scena di Belacqua (p. 23) e in Malone muore, dove, nel cortile del manicomio cinto da un alto muro, custodi e pazienti si aggirano inquieti e senza un’occupazione precisa, confusi gli uni con gli altri ma senza comunicare fra loro.
Nel saggio “Da Dante a Bruno, da Vico a Joyce”, composto nel 1929 per sostenere il Finnegans wake di Joyce, Beckett proietta su di lui le sue idee e definisce purgatoriale l’work in progress dell’amico:“In che senso, dunque, l’opera di Joyce è purgatoriale? Essa lo è in quanto caratterizzata dall’assoluta assenza dell’Assoluto.” (Introduzione a Finnegans wake, p.26).
Beckett lavora coi materiali di scarto dell’antropocentrismo, osserva Adorno nelle sue riflessioni sullo scrittore: “… la filosofia, lo spirito stesso si dichiara come fondo di magazzino, rimasuglio irreale del mondo dell’esperienza, il processo poetico come logorio.” (prefazione alla trilogia citata, p. VII).
Risultano fortemente compromesse o del tutto distrutte psicologia e integrità fisica. L’innominabile viene definito “… un mucchio informe, senza un volto capace di riflettere la storia di un tormento…” (L’innominabile, p. 380). E in Watt troviamo: “L’unico modo infatti in cui si può parlare del nulla è di parlarne come se fosse qualcosa, esattamente come l’unico modo in cui si può parlare di Dio è di parlarne come se fosse un uomo (…) e come l’unico modo in cui si può parlare dell’uomo, anche i nostri antropologi se ne sono accorti, è di parlarne come se fosse una termite.” (p. 79).
 “… l’umanità continua a vegetare strisciando dopo che sono accadute cose a cui in verità non possono sopravvivere nemmeno i sopravvissuti, e su un mucchio di macerie cui è negata anche la meditazione cosciente sulla propria frantumazione.” (Adorno, prefazione alla trilogia, p. IX). Particolare attenzione in questo caso era rivolta a Finale di partita (1957), che in un clima di guerra fredda certo risentiva sia della catastrofe della seconda guerra mondiale sia dei funesti presagi di fine del mondo.
A maggior ragione ora che il clima è cambiato, che sono riprese le guerre calde, che nonostante il progresso tecnico-scientifico la nostra vulnerabilità e precarietà ogni giorno, sul lavoro piuttosto che nei rapporti familiari e sociali, è messa a nudo, che si scopre quanto sia devastante persino nel quotidiano, per la nostra salute e sopravvivenza personale, l’impatto uomo-natura, come non considerare estremamente attuale la rappresentazione beckettiana dell’animale-uomo, insieme distruttore e sconfitto?

* Per quest’edizione va puntualizzato che il testo More pricks than kicks è in realtà un romanzo. Qui e in altre edizioni viene intitolato Novelle, forse per la sua natura episodica e frastagliata. Ma in Beckett questo narrare frammentato non deve stupire. Il titolo è tradotto meglio, a mio avviso, nell’edizione SugarCo 1987: Più pene che pane.

Bibliografia
Samuel Beckett, Molloy, Malone muore, L’innominabile, con un saggio di T. W. Adorno su Finale di partita, SugarCo, Milano 1986, pp 443, lire 30000
Samuel Beckett, Finale di partita, in I capolavori di Beckett, Ionesco, Osborne, Mondatori, Milano 1970, pp 228, lire 1800
Samuel Beckett, Novelle, Garzanti, Milano 1975, pp 218, lire 1000
Samuel Beckett, Watt, SugarCo, Milano 1981, pp 263, lire 5000
Samuel Beckett, Senza e Lo spopolatore, Einaudi, Torino 1972
Samuel Beckett, Mercier e Camier, SugarCo, Milano 1988, pp 166, lire 10.000
Samuel Beckett, Proust, SugarCo, Milano 1978
Samuel Beckett, Primo amore, novelle e testi per nulla, Einaudi, Torino 1979
Samuel Beckett, Murphy, Einaudi, Torino 1962, pp 211
AA VV, Introduzione e Finnegans wake, SugarCo, Milano 1964, pp 186


(rivista “Il primo amore” n 3, 2008)

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