lunedì 8 gennaio 2024

Un tesoro (sperimentale) ritrovato

Giuliano Gramigna, Marcel ritrovato, Il ramo e la foglia, Roma 2023

“Passai portandomi dietro quel segnale di marrone e azzurro. Il mio cuore aveva accelerato, addirittura extrasistoli, ma era una specie di dilatazione euforica come quando ci si mette a correre, poi manca il fiato e ci si sente bene, si sta per scoppiare e ci si sente ancora meglio con energie intatte. Galoppavo a cavallo della mia nevrosi: sindromi spastiche dell’apparato digerente, neurosi splancnica, stipsi spastica, neurosi cardiaca e vasale, instabilità circolatoria, vertigini, distonie funzionali degli ipotesi, iperemesi, vertigini labirintali, mal di mare, affezioni del sistema nervoso extrapiramidale, colangiopatie, disfagie esofagee, vomito, acroasfissia, acroparesia, claudicazione intermittente (…) travaglio di parto eccetera, a cavallo non guarito ma in certo senso esultante. Anch’io avevo avuto quei capelli castani sulla fronte, la pelle nuova con la peluria bionda dietro le mandibole scampata al primo, ostinato rasoio; naturalmente senza rimpianto, però come mi erano piaciuti nei primi dieci, trenta secondi che li avevo incrociati. Neppure Marcello era sempre stato il manichino-a-successo del Tennis Club: per non dire niente altro, oltre le guance giovani, i muscoli elastici, l’aria di cuccioli, eccetera, c’erano state anche le speranze del ’45. Un momento di eccitazione non romantica ma proprio fisica, un’estasi corporale, una scossa elettrica data dalle cose, come inspirando nel momento che scrivo di me e di Marcello l’aria limpida, sottozero di Milano 8 gennaio 1967, dove sembra di stare quasi a Irkutsk.” (pag 266)

Nel romanzo circola l’aria libera, frizzante e innovativa degli anni Sessanta. Uno dei primi segnali che ci avvisano di trovarci di fronte a uno scrivente alla ricerca di un proprio stile fuori dalle convenzioni è lo scivolamento dalla terza alla prima persona; prima persona, quella del protagonista Bruno, dubitativa, inquieta e dispettosa.

domenica 3 dicembre 2023

Bookcity

Olio di gomito per pulire gli elementi della cucina, poi di corsa a un evento pomeridiano di Bookcity. Quest'anno forse riesco a seguirne due o tre, anche se me ne ero prefissa cinque o sei.

Nel grande teatro del centro la sala principale è dedicata alla presentazione di un romanzo storico-rosa che sta spopolando. È difficile entrare per la ressa: una moltitudine di ragazze in coda per farsi firmare le copie dall'autrice ostacola non poco l'accesso alle altre sale che ospitano diversi eventi. Il mio è al primo piano: Mappe nel caos della poesia contemporanea. I relatori cercano di dire qualcosa su un mondo corporativo e autoreferenziale (sic), quello della poesia contemporanea che cita e ordina sé stessa, consegnandosi alla posterità già confezionata in alcune antologie e mappe orientative.

La saletta non è proprio vuota, anzi più piena del solito, perché, a differenza dei tre-quattro ascoltatori che abitualmente costituiscono il fedelissimo pubblico dei reading, qui si stanno concentrando una decina di persone, forse qualcuna in più, delle quali soltanto alcune si salutano, altre è la prima volta che si vedono: e questa sì che è una gran differenza rispetto alle solite letture pubbliche di poesia, dove i pochi convenuti si conoscono, si sono già letti e ascoltati, se la cantano e se la suonano, comunque contenti di ascoltarsi e auscultarsi vicendevolmente. I lettori di poesia sono i poeti stessi, si diceva qualche tempo fa; ora si può aggiungere che i poeti stessi sono anche i critici della poesia. Un relatore osa di più: per un certo periodo i veri e propri critici (quelli non poetanti?) hanno avuto paura a pronunciarsi sulla poesia attuale.

giovedì 3 agosto 2023

Sottotraccia

La Trilogia della scomparsa ha festeggiato già alcuni compleanni. Pubblicata da un piccolo editore senza lancio pubblicitario in un anno difficile, il 2020, ha circolato in qualche modo sottotraccia fra lettori "forti", poeti, redattori di blog letterari, critici e amanti della letteratura in tutte le sue forme.

Ecco alcuni commenti di critici intercettati:

Francesco Muzzioli

Cara Roberta Salardi,

ho terminato la lettura del suo libro, iniziata con le solite perplessità che ho sempre riguardo alla narrativa italiana. Devo riconoscere che la sua prova è interessante. Soprattutto nella costruzione della trilogia che cambia di prospettiva e di narratore (anche – nel terzo episodio – di genere del narratore, che è sempre un esercizio benemerito). Questa pluralità strutturale, che tocca l’acme nel commento intercalato del secondo episodio, è accompagnata da una buona dose di eterogeneità e interpolazione dei materiali (diari, dialoghi, lettere). Personalmente trovo che gli spunti migliori vengano dalle impennate onirico-visionarie, dalle allucinazioni deliranti e dagli esercizi di scrittura automatica (e metto in questa eredità surrealista anche l’utopia finale, che mi è parsa davvero “eroica” di questi tempi). Allo stesso tempo, fanno parte dell’eterogeneità anche le ipotesi antropologiche che attraversano il libro e gli appunti filosofici della terza parte. Qualcosa però trattiene il lavoro dentro un certo orizzonte odierno: a mio avviso è soprattutto nei dialoghi che il linguaggio è normale. Una scelta che è anche dovuta alla impostazione diaristica (confessione dell’io, sia pur di volta in volta diverso) che rende improbabili sperimentalismi a quel livello. È vero che la formula del libro consente di ritenere tutti i dialoghi un monologo mascherato, e dunque crea un monodialogismo che impegna il lettore; il punto critico resta la ricaduta esistenziale (la solitudine, l’insensatezza della vita) ovvero la risoluzione drammatica, direi, che alle somme unifica i diversi prospetti della trilogia. Penso però che nel momento attuale la complessità ottenuta per questa via sia già un buono e prezioso risultato.


La ringrazio della lettura e le auguro di procedere con coraggio e autonomia nella ricerca.

Molti saluti. Francesco Muzzioli (mail del 6.7.2021)

martedì 7 febbraio 2023

Per fare le stelle ci vuole il fuoco

Gira voce che i critici storcano il naso di fronte a opere contemporanee in cui emerga il solito vecchio pathos. Può darsi che il simile prediliga il simile e questo magari può spiegare perché persone che passano un'intera vita alla scrivania diffidino dei sentimenti, e più se sono accesi. 

Bisognerebbe ricordare però che le stelle e i pianeti non ci sarebbero senza il fuoco. L'Iliade cosa sarebbe senza l'ira di Achille? L'Orlando furioso senza l'amore folle di Orlando? Il Dolce Stil Novo nacque dagli innamoramenti dei poeti e gran parte della letteratura romantica da amore impossibili per donne sposate con altri. Il motore che genera le opere sono i nostri sentimenti: una misera, forse disdicevole, forse troppo umana dinamica psichica.

Per fare le stelle, ma anche i pianeti, anche le meteore, anche quei frammenti di rocce ormai senza vita c'è voluto tanto tanto fuoco.

domenica 29 gennaio 2023

Scelte

A giustificazione del mio operato posso dire che, di fronte al ripristino di schemi narrativi ottocenteschi dopo gli azzardi stilistici del Novecento, nei miei esperimenti espressivi ho tentato di seguire le tracce di autori del secolo che mi ha preceduta, sentendomi un'erede del Novecento più che dell'Ottocento. Le soluzioni narrative ottocentesche è probabile che circolino nell'uso e consumo per comodità e semplificazione legata al mercato librario. Una causa più nobile della restaurazione ottocentesca potrebbe essere stata, in questi anni, un rinnovato innamoramento per il positivismo e una rinnovata fiducia in una visione oggettiva in un'epoca di accelerato sviluppo di scienza e tecnica. Per tacere della prevalenza di cinema e televisione con l'impressione di oggettività che suscitano. E una causa più sottile ancora potrebbe risiedere nel tentativo di rilanciare una voce autoriale forte, col ritorno appunto dell'onniscienza narrativa, sullo sfondo del caotico e rumoroso mondo mediatico che tende a sopraffare la voce degli scrittori anche di fama internazionale, come si evince per esempio dagli studi narratologici di Filippo Pennacchio Il romanzo globale (Biblion edizioni, Milano 2018) ed Eccessi d'autore (Mimesis, Milano 2020). E' da notare, in questo contesto, l'utilizzo dello scrittore come semplice inventore di sceneggiature efficaci per supportare film e serie televisive, che rischia di sminuirne la figura e ridurlo a un ruolo subalterno alle industrie editoriale e cinematografica. Autori di fama mondiale come Franzen, Littell, Bolano, Foster Wallace, per citarne solamente alcuni, hanno cercato di reagire alla morte del narratore autoriale col rilancio di strutture tradizionali, benché rese più inquiete, con l'onniscienza del punto vista o con una spiccata funzione di regia esercitata all'interno di trame complesse e pressoché inestricabili.  

Concentrandoci invece sul Novecento, si individuano due linee guida fondamentali: il fantastico inquietante di Kafka e il flusso di coscienza (o d'incoscienza) di Joyce. Quella che credo abbia avuto più seguito è quella kafkiana: la carica destabilizzante di un genere fantastico distopico, che vediamo espressa in tanti romanzi di fantascienza, spesso apocalittici e problematici, ha avuto un certo impatto e un'ampia ricezione. La carica sovversiva di un discorso immediato (più noto come monologo interiore), che si perde nell'inconscio, sembra invece rimasta più ai margini, per lasciare molto spazio invece al realismo sociologico o al giornalismo amplificato e onnipresente. Tuttavia si possono citare almeno due nomi di efficaci continuatori recenti della letteratura dell'inconscio: Antonio Lobo Antunes, con i suoi brani di stream of consciousness intarsiati e sovrapposti, ma anche Thomas Bernard, con l'incalzare serrato e ansioso del suo discorso.

Nelle mie prove personali e nel mio sostegno ad altri autori/autrici mi sono schierata dalla parte dei tentativi novecenteschi non troppo intimiditi dalle convenzioni.  

venerdì 2 dicembre 2022

Cinque osservazioni-sollecitazioni-domande dopo aver letto la raccolta di saggi Figlia di solo padre di Rosaria Lo Russo

1)     Dai tuoi studi, dalle tue riflessioni su alcuni testi di poetesse del secondo Novecento emergono tre archetipi culturali, in qualche modo discendenti dall’unico mito di un’antica dea greca lunare dai molti nomi (Artemide, Ecate, Diana, Lucina…) dal doppio volto di protettrice delle fanciulle ma anche, talvolta, di persecutrice-vendicatrice. Mi piacerebbe che ti soffermassi su ognuna di queste sfaccettature che potevano connotare la figura della poetessa/scrittrice ancora fino a molto di recente. Iniziamo con il suo essere parthénos, termine che anticamente valeva per “nubile”, “non sposata” ma anche “lesbica”, “adolescente”, non destinata alle nozze. (Inciso mio: questo tema, peraltro, non appartiene esclusivamente al tempo passato: Ingeborg Bachman ancora nel 1989 sostiene che il matrimonio "è impossibile per una donna che lavora e che pensa e che vuole lei stessa essere qualche cosa."*). La necessità di separarsi dal destino comune delle donne e dai fortissimi limiti esistenziali, che la condizione femminile certamente comportava, per concentrarsi sulla scrittura, poteva avere pesanti ricadute sulla sua vita emotiva, affettiva… sulla sua vita tout court. 

2)     Da “diversa, lontana, distaccata” a “pazza” il passo è breve. Questo binomio, poetessa pazza, concretizzatosi così spesso, è in parte collegato, a mio parere, anche all’antica presenza nei miti e nei riti di pizie, sibille, “cassandre”, maghe, indovine le quali, in quanto donne (ipersensibili) considerate nei secoli meno razionali degli uomini, si ritenevano più vicine al mondo altro degli dei, dei segni, dei simboli. Tuttavia questa che sembrerebbe essere stata una separazione forzata, ingiustamente imposta, dei ruoli e delle possibilità intellettuali fra i sessi forse dopo la scoperta freudiana ha rivelato i suoi vantaggi: la donna poeta è stata tanto più accettata e apprezzata in quanto ritenuta particolarmente ricettiva dei segnali che manda l’inconscio e persino capace di parlare la lingua dell’inconscio, così come secoli fa era capace, nei vaticini, di parlare l’oscura lingua degli dei. Ci sarebbe naturalmente molto da dire sul legame tra follia e scrittura, che non riguarda solo le donne… Desideri mettere a fuoco qualcosa in merito, visto che ti sei occupata a lungo di Sylvia Plath, Anne Sexton, Amelia Rosselli?

giovedì 3 novembre 2022

Brani a ritmo accelerato

  1. Segnalo alcuni brani tratti da testi di notevole valore, dal ritmo straordinariamente veloce, consonante con le corse di cui si parla. Sono pagine davvero riuscite, brillanti. Comincio dalle pagine finali del racconto di Julio Cortazar L'autostrada del sud, facente parte della raccolta di racconti Tutti i fuochi il fuoco, degli anni Sessanta, edito da Einaudi nel 1994, con varie ristampe. Traggo dalle pagine 25-26 dell'edizione Einaudi questa citazione, che, seppur tagliata qua e là per la lunghezza e brutalmente accorciata, mostra tratti di accelerazione del ritmo, il rallentare e lo spegnersi:    "Tirando fuori il braccio sinistro, 404 cercò la mano di Dauphine, sfiorò appena la punta delle sue dita, vide sulla sua faccia un sorriso d'incredula speranza e pensò che sarebbero arrivati a Parigi e che avrebbero fatto il bagno, che sarebbero andati insieme in qualche posto, a casa sua o in quella di lei a fare un bagno, a mangiare, a fare il bagno interminabilmente e a mangiare e a bere, e che poi ci sarebbero stati mobili, una camera da letto con mobili e una stanza da bagno con schiuma da barba per farsi davvero la barba, e gabinetti, pranzi e gabinetti e lenzuola, Parigi era un gabinetto e due lenzuola e l'acqua calda sul petto e sulle gambe, e una forbice per le unghie, e vino bianco, avrebbero bevuto vino bianco prima di baciarsi e sentire che profumavano di lavanda e di colonia, prima di conoscersi davvero in piena luce, fra lenzuola pulite, e tornare a fare il bagno per gioco, amarsi e fare il bagno e bere ed entrare da un parrucchiere, entrare in un bagno, carezzare le lenzuola e carezzarsi fra le lenzuola e amarsi fra la schiuma e la lavanda e gli spazzolini per i denti prima di cominciare a pensare a che cosa avrebbero fatto, al figlio e ai problemi e al futuro, e tutto ciò sempre che non si fermassero, che la colonna continuasse ad andare avanti anche se non era ancora possibile mettersi in terza, continuare così in seconda, ma continuare. Con il paraurti che sfiorava la Simca, 404 si gettò indietro sul sedile, sentì aumentare la velocità, sentì che poteva accelerare senza pericolo di sbattere contro Simca e che la Simca accelerava senza pericolo di cozzare contro la Beaulieu, e che dietro veniva la Caravelle e che tutti acceleravano sempre di più, e che ormai era possibile passare in terza senza che il motore ne soffrisse, e la leva del cambio innestò incredibilmente la terza e la marcia divenne più dolce e accelerò ancora e 404 guardò intenerito e abbagliato alla sua sinistra cercando gli occhi di Dauphine. (...) Dauphine marciava già tre metri più avanti, all'altezza della Simca (...) Una macchia rossa a destra sconcertò 404; invece della Due Cavalli delle suore o della Volkswagen del soldato, vide una Chevrolet sconosciuta, e quasi subito Chevrolet passò seguita da una Lancia e da una Renault 8. Alla sua sinistra gli si appaiava una ID che già cominciava a sorpassarlo di metro in metro, ma prima che fosse sostituita da una 403, 404 riuscì a distinguere ancora in avanti la 203 che nascondeva già Dauphine. (...) Di quando in quando suonavano i clacson, le lancette dei tachimetri salivano sempre più, alcune file correvano a settanta chilometri, altre a sessantacinque, alcune a sessanta. 404 aveva ancora avuto la speranza che l'avanzare e il retrocedere delle file gli permettesse di raggiungere di nuovo Dauphine, ma ogni minuto che passava lo convinceva che era inutile, che il gruppo si era sciolto irrevocabilmente, che non si sarebbero più ripetuti gli abituali incontri, i minimi rituali, i consigli di guerra nell'auto di Taunus, le carezze di Dauphine nella pace dell'alba, le risa dei bambini che giocavano con le loro automobili, l'immagine della suora che contava i grani del rosario." 
  2. Il secondo brano è il finale di Una questione privata di Fenoglio.
  3. Certo, anche all'inizio di Fratelli d'Italia di Arbasino il ritmo è euforico, per esempio alle pagg 3-5 (Einaudi, Torino 1976) 
  4. Come particolarmente singolare, riporto inoltre questo brano che si trova verso la fine del Marcel ritrovato di Giuliano Gramigna (pagg 234-235, Rizzoli, Milano 1969): "Passai portandomi dietro quel segnale di marrone e azzurro. Il mio cuore aveva accelerato, addirittura extrasistoli, ma era una specie di dilatazione euforica come quando ci si mette a correre, poi manca il fiato e ci si sente bene, si sta per scoppiare e ci si sente ancora meglio con energie intatte. Galoppavo a cavallo della mia nevrosi: sindromi spastiche dell'apparato digerente, neurosi splancnica, stipsi spastica, neurosi cardiaca e vasale, instabilità circolatoria, vertigini, distonie funzionali degli ipotesi, iperemesi, vertigini labirintali (...), a cavallo non guarito ma in certo senso esultante. Anch'io avevo avuto quei capelli castani sulla fronte, la pelle nuova con la peluria bionda dietro le mandibole scampata al primo, ostinato rasoio; naturalmente senza rimpianto, però come mi erano piaciuti nei primi 10, 30 secondi che li avevo incrociati. Neppure Marcello era sempre stato il manichino-a-successo del Tennis Club: per non dire niente altro, oltre le guance giovani, i muscoli elastici, l'aria di cuccioli, eccetera, c'erano state anche le speranze del '45. Un momento di eccitazione non romantica ma proprio fisica, un'estasi corporale, una scossa elettrica data dalle cose, come inspirando nel momento che scrivo di me e di Marcello l'aria limpida, sottozero di Milano 8 gennaio1967, dove sembra di stare quasi a Irkutsk.". E' curioso perché mostra un momento di esaltazione in cui sembrano concentrate buffamente tutte le nevrosi del protagonista e la vitalità appare dimidiata dall'ironia.

sabato 6 agosto 2022

Non disturbare il consumatore

Ogni scrittore è un critico, che lo sappia o no, poiché opera delle scelte. Non è detto che per questo debba per forza avventurarsi in volumi di critica letteraria. E' un critico nel suo essere singolare e diverso. L'attuale concordia generalizzata per cui sembra che vada bene tutto è solo una strategia di marketing. Regola generale: non disturbare il consumatore. 

lunedì 6 giugno 2022

Gli uomini rischiano più spesso, le donne soffrono di più: riflessione di Bruna Tadolini

"È difficile, dopo migliaia di anni durante i quali ci siamo convinti che siamo "semidei" e che i nostri sentimenti sono "divini", riportare l'Homo sapiens nella sfera animale a cui appartiene. In questa sfera l'AMORE è un semplice strumento che si è evoluto per costringere gli individui ad avere comportamenti vantaggiosi per la trasmissione della specie. Poiché questi comportamenti sono svantaggiosi per l'individuo (i maschi rischiano la morte nella competizione per le femmine e le femmine si sottopongono a condizioni, fra gravidanze ed allattamenti, durissime di vita) i meccanismi biologici che si sono evoluti per farli "accettare" hanno dovuto essere estremamente potenti ed allettanti. Sono stati messi in campo una lunga serie di artifici (dal far sentire un partner come parte di sé al provare dolore se non si raggiunge l'obbiettivo ma piacere se lo si fa ecc...). Alcuni di questi sono dei veri circuiti di dipendenza. Forse una maggiore conoscenza della nostra biologia (scoperta la causa... ) potrebbe aiutare ad essere più consapevoli di ciò che ci succede ed a gestire meglio, per quanto possibile, le nostre scelte." (Bruna Tadolini)


giovedì 28 aprile 2022

Depressi o maniacali

Una posizione puramente depressiva non favorisce il racconto. Deve accadere (o essere accaduto) qualcosa che generi un meccanismo perlomeno emotivo, se non di azioni concatenate. Come sottolinea Leopardi in diversi punti dello Zibaldone, chi non conserva un minimo di amor proprio non riesce ad amare neppure qualsiasi attività esterna, non riesce più ad applicarsi a niente. Che dire del Verbale di Le Clézio? Lì il protagonista si appassiona a piccoli eventi quotidiani, come uccidere un topo, ed è affascinato da microepifanie... ma il terremoto interiore, il crollo psichico, è già avvenuto nel passato, è dato per scontato: qui il personaggio si presenta fin da subito molto anomalo, deragliato ai margini della società. E comunque la sua posizione è piuttosto maniacale che depressiva. Prima di venire ricoverato in un reparto psichiatrico, verso la fine del romanzo, si asserraglia in una scuola in un accesso paranoico, determinando l'intervento della polizia. Forse è un personaggio al confine fra i due stadi. 

Che dire di alcuni esseri postumani di Beckett, quasi del tutto interrati in giare in quell'opera estrema che rimane L'innominabile (per esempio)? Lì siamo ai limiti del narrabile e del dicibile: limiti difficilmente superabili.

Vi sono personaggi, creati pure in epoche precedenti, che rasentano la morte psichica, come il celebre protagonista del racconto melvilliano Preferirei di no, edito nel 1853 (che spicca per estremismo rispetto al più mite-moderato Oblomov, il cui omonimo libro fu edito nel 1859): appunto si tratta di personaggi che si sono molto distinti nell'ambito romanzesco e sono rimasti casi unici, poco imitati. Una variante più recente di quel tipo umano possiamo rintracciarla nell'Uomo che dorme di Perec (1867), tuttavia più mobile, vagabondo, meno bloccato del celebre renitente di Melville.

Se desideriamo conservare nell'invenzione marcati riferimenti umanistici, sebbene ritenuti superati nel tipo di società tecnoscientifica in cui ci è toccato di vivere, ci troviamo ancora immersi nel brodo degli affetti. E quindi scintille affettive e un motore a scoppio emotivo mi paiono insopprimibili per movimenti o, almeno, increspature narrative.

domenica 27 febbraio 2022

Libri-rifugio

Libri come beni-rifugio, come l'oro dopo il crollo dei mercati... Durante gli anni della pandemia ho trovato un rifugio nei libri sulla Resistenza. Un grande tesoro nella Casa in collina di Pavese, in Una questione privata, nel Libro di Johnny di Fenoglio, nei Piccoli maestri di Meneghello, nei Partigiani della montagna di Bocca, nella Guerra dei poveri di Nuto Revelli. Il libro di Johnny, di grande intensità narrativa ed epica, ha un piccolo grande difetto, nonostante i molti pregi: di essere molto ideologico e poco teorico. Questo lo scalfisce solo in parte. Il rischio di rispecchiarsi nei nemici, magari negli ufficiali italiani rimasti con la Repubblica di Salò dopo l'8 settembre per semplici ragioni di onore militare, affiora più volte, sia nell'incontro e tentativo di trattativa prima della battaglia in difesa di Alba, sia nell'ammirazione per alcune divise o personalità di soldati come il fratello del partigiano Kyra. Senonché l'appoggio della popolazione contro i tedeschi marca decisamente una differenza e illumina di una luce moralmente migliore, rispetto agli ufficiali rimasti alleati dei tedeschi, quei partigiani badogliani che, pur conservando un'etica legata alle antiche gerarchie dell'esercito, compresero le esigenze di riscatto e di rivolta contro l'invasore propria della popolazione locale e scelsero appunto di salire in montagna o in collina coi partigiani. Infine, il lavoro sullo stile e la contaminazione anglofona, quelle costruzioni contratte con sostantivi composti similmente alla maniera inglese (per es. un termine come nuvola-tempesta), la quantità dei personaggi, l'eroismo delle loro brevi vite rendono Il libro di Johnny, che pur sarebbe fra i più esposti a critiche ideologiche fra i romanzi partigiani, un'opera di valore che varca senza ombra di dubbio i limiti del periodo postbellico.

I piccoli maestri, in una forma tutta virtuosa e contraria alla retorica, si sforzano a più riprese di argomentare, di giustificare; molto più di altri libri dell'epoca sono dominati dall'ansia di giustificare ogni singola azione, anche le uccisioni e le condanne a morte dei nemici dopo tentativi di processo, come a sottolineare il più possibile la propria distinzione dalla brutalità e ingiustizia degli altri. 

Al Pavese della Casa in collina va invece riconosciuta la grande maestria nell'amalgamare l'italiano al dialetto senza che esso venga nettamente pronunciato ma resti sottoterra, accanto alle radici, mescolato a tutto il discorso.

Opere potenti, autori lodevoli e serissimi che si accinsero al lavoro della penna sollecitati da grande senso di responsabilità e di umanità. E per questo li sentiamo ancora così vicini.