martedì 6 dicembre 2011

Il miracolo della follia nell'opera di Federigo Tozzi

Nella novella Il miracolo di Federigo Tozzi, databile fra il 1917 e il 1919, pubblicata sul “Tempo” nel 1919, ci vengono descritti ben due miracoli. Viene tratteggiato un personaggio, non più giovane, sempre più solo e triste. E’ arrivato a un punto che gli pare di vivere come in sogno, tanto si sente separato dal mondo, e gli oggetti qualche volta gli pare persino che si animino di vita propria. “E la pazzia dell’Appesi non si ferma qui, si completa ogni giorno e si raffina (…) Egli vorrebbe anche smettere di mangiare; e, quando va a letto, dopo aver pregato, rimpiange sempre di non essere uno di quei romiti che pensavano soltanto a Dio e si sfamavano con una crosta di pane.” Ma in una splendida giornata di sole la moglie estranea e un po’ ributtante che gli vive accanto gli appare in tutt’altra luce. “Credette di avere un’altra moglie e di esserne innamorato. Entrò in camera, e la Madonna andò da sé su la scrivania.” La figura ultraterrena gli tiene un vero e proprio un discorso, proponendogli di andarsene di casa senza voltarsi indietro: sarebbe come la morte e la rinascita a una nuova vita. Ma l’Appesi non se la sente: rifiuta questo miracolo, che potremmo definire divino per via dell’animazione sovrannaturale. A salvarlo sarà invece un miracolo del tutto umano, che potremmo definire dell’immaginazione: “Si convinse d’essere un ragazzo; e la moglie sua madre (…) Soltanto dentro a sé aveva la certezza deliziosa di essere un ragazzo; e poteva sorridere delle proprie ragazzaggini. Come si sentiva privilegiato fra tutti gli altri uomini.” Come in tanti momenti dei racconti, il rifugio negli anfratti della madre terra offre la possibilità di tornare alle sorgenti della gioia: “… andava vicino a un albero; come se lo avesse chiamato. E si sedeva alla sua ombra, alzando di quando in quando gli occhi alle rame; perché lo divertivano. Metteva le dita dentro i crepacci della terra; camminava tra le spighe del grano, per i solchi più lunghi; portava in mano le zolle di terra; scoteva le canne, per sciupare i loro fiori bianchi; senza stancarsi, guardava scorrere l’acqua; abbracciava gli alberi.”
Un ritorno alla fanciullezza molto simile a quello della “Carriola” pirandelliana, scritta più o meno negli stessi anni.* Non si ha il coraggio di seguire del tutto le proprie inclinazioni, non si obbedisce alle indicazioni del vero miracolo, ma ci si accontenta di un più umile compromesso privo di conseguenze.
Spesso l’allucinazione e la schizofrenia si avvicinano così ai fragili e delicati personaggi di Tozzi, in punta di piedi, con dolcezza e umiltà.
Se si escludono i casi di vera e propria paranoia, che comunque hanno la loro parte di rilievo nella produzione tozziana (molto ben analizzati da Elio Gioanola nel suo saggio sull’autore**), il progressivo isolamento dal mondo in virtù di un richiamo interiore, non sempre risulta dannoso; può rivestire anzi l’individuo di un involucro protettivo: “… comincio a gustare sempre di più la mia idiozia. Perché l’idiozia è una cosa dolce (…) Non avrei mai creduto che, alla fine, potessi vivere a modo mio, così separato dagli uomini e da tutto il resto; e credo alla mia esistenza soltanto quando sogno.” La mia amicizia; “Erminio Toti era pazzo: lo sapeva. Se non il primo ad accorgersene, era stato il primo a dirlo. Proprio da sé! Una sensazione a pena avvertibile, dolce, nascosta; che si rivelava in certi momenti preceduti da una calma angelica; meravigliosa…” Il poeta; “Ma a forza di stare solo, egli aveva cominciato ad amare una sua allucinazione interiore: una giovine.”Un’allucinazione. Salvo che poi la società non trasformi questo bozzolo protettivo in un sudario, per il gusto di eliminare il debole e il diverso. Ciò avviene in particolare nel Podere. Secondo Sandro Maxia il Podere è la storia di come una comunità individua al proprio interno un capro espiatorio.
Il più delle volte, se un personaggio impazzisce, è soltanto perché si accentua la sua già spiccata separatezza dal mondo.
Tutto può cominciare con una semplice distrazione. Il momento ipnotico è offerto dal paesaggio o da un qualsiasi oggetto. “I personaggi tozziani distolgono continuamente lo sguardo da quanto accade intorno a loro e lo fissano, allucinati, su un particolare qualsiasi, assolutamente insignificante…” osserva Marina Fratnik in Paysages. Essai sur la description de Federigo Tozzi (Olschki, Firenze 2002). Tale trasognatezza rappresenta, secondo Maxia, un tentativo d’evasione dalla dura realtà dei rapporti umani. Nei personaggi adolescenti questo comportamento si traduce, in maniera ancor più significativa, nella ricerca di nascondigli campestri dopo le terribili liti col padre (“Stava così bene dentro la siepe, che vi s’accomodò meglio per rimanerci finché non gli venisse a noia.”Vita; “Da ragazzo mi chiudevo in una capanna, perché non mi vedesse più nessuno. Sotto di me, il mucchio del fieno pareva che cadesse come quando lo taglia la falce; e il suo odore specie quando non era ancora secco bene, mi piaceva tanto che io con le braccia mi facevo una buca sempre più fonda; e ficcavo giù la faccia per sentirlo tutto, sino all’impiantito.” La vendetta). Ma gli incantamenti di fronte a un bicchiere o a un piatto sono ancora più frequenti: “Mangiando, si interrompeva; e restava a tavola con le braccia appoggiate su la tovaglia, con gli occhi fissi al bicchiere o al piatto; con l’illusione di vedere quel che le passava per la mente. Erano, per lo più, ricordi della sua giovinezza; che la trascinavano in lunghe estasi; così assorta che masticava senza saperlo. C’era un periodo, prima del suo fidanzamento, che aveva per lei un fascino soprannaturale: dal suo matrimonio in giù, non le importava più niente…” Una donna. Questa donna, inabissandosi sempre più nelle sue fantasticherie, un bel giorno si mette a cantare e viene condotta in manicomio. Il manicomio è spesso sentito come un sopruso arbitrario più che come una reale necessità: è una delle tante punizioni per chi si è isolato dal gruppo (cfr anche in Bestie, 1917, il pezzo sull’allodola: “Lasciamola, qui, questa gente che metterebbe me al manicomio e te dentro una gabbia!”).
Un vago senso di stupore, proprio dello stile di Tozzi, fa parte del quadro regressivo, e conserva qualcosa di quel profondo senso di estraneità, di lontananza dal mondo, che doveva appartenere all’autore pure nella vita concreta. Fare un solo esempio sarebbe limitato, poiché si tratta di un tratto stilistico pressoché onnipresente, ed è nota l’ampia critica riservata alle distrazioni e illuminazioni tozziane, alla questione degli occhi chiusi e delle esplorazioni interiori (cfr. Debenedetti, Baldacci, Tellini ecc.).*** Ed è vero che questo velo fra sé e il mondo, la dolcezza regressiva della contemplazione può avere esiti tragici. Il distacco dalla realtà può divenire irreversibile, come negli abbozzi Paolo e Adele, in svariati racconti, nell’emblematico Con gli occhi chiusi e soprattutto nel Podere.
Qui si sceglie di seguire il destino di Adele, nel romanzo (scritto fra il 1909 e il 1911) che costituisce il più ampio e articolato tentativo di rappresentazione della follia compiuto dallo scrittore, il quale tuttavia non lo portò a termine. In Paolo (1908), per molti versi analogo, il profondo misticismo isola e sigilla il personaggio in se stesso ma non lo spinge al suicidio; egli muore naturalmente in mezzo ai campi, vi viene naturalmente riassorbito, senza traumi, potremmo dire. La sua fusione simbiotica con la natura era già pressoché totale durante la vita di Paolo (es.: “Ho vissuto dentro le gocce, che brillano dopo la pioggia; e sono stato un raggio di luce (…) Ed ho avuto tutte le voci, che si odono. Io ho parlato come la raganella e come l’usignolo.”); la morte la rende semplicemente perfetta. Il tema della conflittualità con gli altri esseri umani non è approfondito e questo poema in prosa non raggiunge la carica emotiva di una tragedia.
Ciò che vale invece per Adele. Pur risentendo d’influssi ottocenteschi, quindi di strutture romanzesche più tradizionali in seguito scartate dallo scrittore, quest’esperimento risulta interessante forse proprio perché rimasto allo stadio di abbozzo, disomogeneo e non assemblato. E’ vero che la storia del decorso di una malattia è tipica di diversi romanzi naturalistici e decadenti, ma in questo lavoro incompiuto manca soprattutto la costruzione dello sfondo, la presentazione dell’ambiente, di conseguenza si può osservare meglio come Tozzi scavi dentro al personaggio, con quell’attenzione al lato oscuro dei “misteriosi atti nostri” che lo attrae fin nei minimi dettagli (“Come leggo io”, articolo scritto nel 1918, poi raccolto in Realtà di ieri e di oggi). Il suo bagaglio culturale in proposito non poteva comprendere la lettura di Freud, ma si nutriva di letture di psicologi prefreudiani. Come regola generale, al momento di scrivere, la sua attenzione è perlopiù focalizzata sull’aspetto fenomenico della malattia, sulle sue manifestazioni, su particolari enfatizzati in chiave angosciosa ed espressionistica. Tuttavia nel caso particolare di Adele il discorso vuole essere introspettivo e analitico.****
L’inquietudine di Adele ci sorprende fin dalle prime pagine in una scena in cui la giovane si sporge su una fontana. L’acqua di fonte è un elemento caro al D’Annunzio (nei cui confronti Tozzi dichiaradi sentirsi debitore per la maggiore libertà che si prese nei confronti dei materiali narrativi, per esempio delle descrizioni, divenute più liriche e indipendenti dal contesto). In virtù di quest’eco, la scena non è priva di stilemi preraffaelliti e simbolisti (es. l’immagine dei gigli infuocati nella capigliatura) ed è molto lunga: giganteggia nella prima parte del testo.
Nell’acqua, elemento materno per eccellenza, Adele cerca esplicitamente la presenza di una madre buona: si aspetta infatti di vedervi apparire la sua allucinazione, che è la Madonna, come scopriremo in seguito (“Ed attese che l’allucinazione le apparisse” è la frase-spia, scritta e subito cancellata dalla prima versione; cfr. Paolo Adele, Vallecchi, Firenze 1995, p. 83).
Ma l’atmosfera è densa di oscuri presagi: “Tutta la sua vita le sembrava limitata dall’indomani; tutta la sua impazienza era impigliata come da un divieto fatale. Le pareva che la morte fosse prossima, sopra le colline già oscure di Siena, così alta. La morte aveva ucciso anche la luna…” (p. 82); “Allora Adele andò alla fonte; ma non si avvicinò troppo, per paura di perdere la coscienza.” (p. 83); “Adele, sotto quegli archi paurosi, non poteva pensare se non a quell’acqua, con gli occhi fitti nelle pareti tenebrose.” (p. 83).
Ed ecco una raffica di metafore di grande intensità. Il cuore pare animarsi di vita propria: “Onde le pareva che il suo cuore se ne dolesse, estraneo a lei; il cuore che non voleva stare più dentro il petto. E le parve che esso compisse tre volte una croce immensa e paurosa; ond’ella avrebbe voluto inginocchiarsi, per comprimerlo con ambedue le mani e per pregarlo. Ma in vano; il suo cuore era duro, non le rispondeva, voleva lasciarla ad ogni costo.” (p. 83). Sente dei gigli infuocati nei capelli: “E, nell’attesa, ella cominciò a credere che avrebbe dovuto morire dentro quell’acqua, per liberare la propria anima. E le pareva che alcuni gigli di fuoco vivido, infilati nei suoi capelli neri come quell’acqua, la bruciassero tutta all’improvviso. E dall’incendio sopravvenivano a lei tante anime quante non ne aveva mai immaginate. E tutte aspettavano lei. Ma questo incendio era così freddo e delizioso come doveva essere l’acqua della fonte.” (p. 84). Gli occhi si schiudono gonfi d’acqua: “Ma, adesso, erano come pieni e sconvolti di quell’acqua: sorgenti spaventate. Le palpebre si schiudevano come dall’urto di quell’acqua contenuta nelle pupille, scorrente senza posa e senza termine. I suoi occhi sembravano come le acque ancora desolate, quando lo squallore dell’autunno vi butta dentro le sue foglie. E le acque devono correre ancora, sempre più presto, attendendo l’aumento delle piogge. ” (p. 84).
L’acqua è già dentro di lei, la riempie tutta. Ma è acqua autunnale di torrente rovinoso, con le foglie morte dentro. Acqua che trasporta la morte.
Freud collegò il suicidio per annegamento al desiderio di maternità: queste palpebre che si schiudono simili a uova piene d’acqua di pioggia si avvicinano forse a quell’intuizione.
Infine Adele ha l’istinto di allontanarsi dalla fonte.
Si piomba nella vita familiare, piena di conflitti sia col padre sia con la madre: il padre non esita a picchiarla furiosamente e con la madre c’è una specie di ”inimicizia silenziosa”. A un certo punto Adele si chiude nella sua stanza e rifiuta i pasti per paura addirittura di essere avvelenata. Si rifugia nella religione, che per lei equivale a delirio mistico (pp. 90-94). Anch’essa come il personaggio del racconto considerato in apertura ha delle visioni, una fase schizofrenica buona che in qualche modo la protegge da un susseguirsi di emozioni-delusioni che non saprebbe fronteggiare; ma a differenza del protagonista del racconto Il miracolo vi crede ciecamente, vi si abbandona anziché trovare una soluzione di compromesso. Al delirio di onnipotenza della fanciulla, che si crede prediletta dalla Madonna, corrisponde un bisogno di solitudine assoluta. L’isolamento dei sensi le dà allucinazioni acustiche e cecità isterica: “Le pareva, in questo abisso di disperazione, accostarsi sempre di più al concetto che ella voleva avere della divinità.”; “Ne aveva una adorazione così sincera che cominciò ad esserne fanatica.”; “Cominciò anche a credere di esserle somigliante della persona, per una grazia divina.”; “Ed ella era assordata da ambedue le orecchie da una voce insistente…” (p. 93); “Aprendo gli occhi, le parve che tutta la stanza fosse annebbiata…”; “Ella sentiva, nel suo grande segreto, che la Madonna le insegnava la maniera di essere inviolabile.”; “Allora la delusione le ridesta l’odio, contro tutte le cose che sono presso di lei, da tanto tempo; una collera dolorosa l’assale e s’imagina che qualche disgrazia disperda ogni cosa.” (p. 97).
Con la morte della madre, o della nonna (i due personaggi in questa stesura si confondono), si allenta la tensione in famiglia e di conseguenza diminuisce l’esaltazione mistica (p. 100). Adele si sente rinascere col ritorno della primavera (p. 101), ma continuano ad accompagnarla voci latenti. Ha la sensazione che i raggi abbiano da dirle qualcosa che lei vorrebbe mettere a tacere; si sente addirittura in colpa per aver colto delle ciliege (pp. 102-103): il suo Ideale dell’Io è davvero crudele. Le tornano in mente ricordi di un rapporto privilegiato e diretto col sole quand’era bambina (“O sole, voglio venire a trovarti!” p. 103), ma quando l’astro tramontava lei si sentiva terribilmente sola.
Quest’abbozzo di romanzo a momenti è così allucinato che per certi versi pare simile a un sogno. Gli episodi secondari di vita contadina (la serva Caterina abbandonata da piccola dal padre e poi riconosciuta quando è già adulta, la malattia della bimba Artemisia e l’uccisione del cane da parte dei suoi amati padroni) mostrano tre personaggi che potrebbero essere controfigure di Adele, proprio come nei sogni il personaggio io è diffuso un po’ in tutti i personaggi. Caterina e il cane sono figure dell’abbandono, Artemisia affamata e febbricitante è invece figura dell’avidità infantile di cibo e d’amore.
Finalmente un innamoramento corrisposto giunge a dare ad Adele, che è giovane e bella, un senso d’ebbrezza e d’armonia col mondo. Ritorna la felicità del sole. Ma vi s’insinua ancora una volontà salvifica megalomane, il suo Super-Io non le consente di essere una persona normale: “… onde ella avesse la virtù di portare un nuovo germe nell’universo, per il quale forme perfette e piene popolassero la terra. E che l’umanità fosse eterna.” (p. 116).
Dopo vari alti e bassi, si fa spazio in lei il pensiero che “la sua esistenza era limitata da molte leggi invisibili, che non si sarebbero piegate giammai.”; “Ciò che aveva sognato era stato come uno sprazzo dell’eternità, ma ora anche ella doveva discendere nel fiume comune. La madre morta era più felice che lei.”; “Ecco che la sua vita era divenuta limitata e limitatrice; fosca e abbattuta come quella di tutti gli esseri…”; “Ella non poteva trovare pace in nessuna cosa, non poteva disperdersi in quella appercezione ampia della natura…” (p. 129); “Come sarebbe dolce perdere, ad un tratto, il nostro corpo…” (p. 130). Il corpo è sentito come un “ingombro nello spazio”.
Adele è un’abbandonica. L’angoscia d’abbandono la sconvolge anche per un semplice viaggio di Fabio durato appena un giorno. E la delusione nei confronti degli esseri umani la respinge immediatamente verso il misticismo. “… si stupì di pensare a lui come a una persona da cui potesse attendere qualche cosa. Ma stimò invece che tutto fosse terminato…” (p. 144).
Però ormai è tardi. La Madonna adorata, ma per amore di Fabio un po’ dimenticata, ora si vendicherà. L’ultima sua apparizione è vendicativa. L’idealizzazione già in precedenza era legata al timore (“Poi cercava di intuire se la Madonna non le nascondesse un suo rancore.” p. 93) e il tradimento operato in virtù dell’amor profano la rende completamente indifesa  di fronte al terrore paranoico: “Mi rinchiuderà dentro qualche stanza senza finestre; ma dove sarà una luce continuamente…” (p. 144).
Respinta quindi pure dalla potenti braccia della religione, tale è il panico che la giovane si fa da sé (in anticipo) una specie di funerale spargendo ovunque i petali di tutte le rose del giardino (p. 145).
Sente che la vita, la gioia, l’amore sono altrove, inattingibili per lei (“Fabio era lontano come tutte le altre cose belle, le quali erano chiuse in un ritmo a cui ella non poteva partecipare; tutta la vita era in un ritmo estraneo a lei.” p. 146), che è solamente “una grinza nell’infinito”, una piccola imperfezione.
Si sente abbandonata e sola, sbagliata e meschina. La frase “Ella soltanto aveva dato importanza a se stessa” (p. 146) significa che si era ingannata circa la predilezione della Madonna o di Paolo per lei. Si spara quindi in un momento di disperata lucidità. Al contrario di come si potrebbe pensare, è proprio lo strappo del velo delle illusioni che la porta al suicidio. La sua schizofrenia visionaria era forse il miracolo che la teneva legata alla vita? Nella grande solitudine del personaggio tozziano certo anche le allucinazioni, così come i dolci e il vino, possono tenere compagnia e consolare in qualche modo (“Allora pareva che i dolci le dovessero tenere compagnia.” La zitella ghiotta; “Soltanto allora gli pareva che il vino gli tenesse compagnia. Ma, per esserne più sicuro, il bicchiere doveva restare sempre pieno; avendolo così a disposizione a pena cominciasse ad accorgersi d’essere solo.” Il vino), ma la soluzione più brillante resta quella dell’Appesi nel Miracolo, con la sua visionarietà sottaciuta, mite e discreta.

Note
* Tozzi nutriva una sincera ammirazione per Pirandello, ritenendolo un grande innovatore. Gli dedicò un articolo, che confluì in seguito nella raccolta di scritti critici Realtà di ieri e di oggi (Alpes, Milano 1928).
** Giacomo Debenedetti aveva sottolineato l’importanza della fase edipica in un romanzo come Con gli occhi chiusi (scritto nel 1913, pubblicato nel 1919), tanto da estendere il suo giudizio all’intera personalità dello scrittore, a suo avviso narratore della cecità umana di fronte alla realtà e al destino (“Il naturalismo narra in quanto spiega, Tozzi narra in quanto non può spiegare”). Continuatori della sua analisi furono Baldacci, Maxia, Tellini, Luperini, Rossi e Saccone, per citarne alcuni. Elio Gioanola, invece, mette in luce una struttura psicologica più arcaica risalente alla posizione schizo-paranoide, tale per cui vari personaggi sono dominati da un forte impulso a uccidere senza sapere chi e perché, obbedendo a fantasie primarie di annichilimento di persecutori che sono tali soltanto nella loro mente.
*** E’ più forte di me citare, come esempio di questo stile trasognato, un periodo di grande bellezza che si trova inCon gli occhi chiusi: “Di Ghisola non si ricordava come fosse il volto; ma piuttosto, senza vederli chiaramente, gli pareva che si ripetessero i suoi movimenti intorno a lui. Il colore del suo vestito era doventato una luce, che di quando in quando sopraggiungeva come un lampo.”
**** Un maggiore approfondimento nell’esplorazione interiore verrà raggiunto nell’indecifrabile incubo di Ghisola di Con gli occhi chiusi, ma, come è stato osservato, la scoperta dell’inconscio vi sarà appena accennata: l’inconscio rimarrà inconscio per l’appunto, assolutamente oscuro.

Bibliografia
Luigi Baldacci, Le illuminazioni di Federigo Tozzi nel “Bimestre”, 1970
Luigi Baldacci, Tozzi moderno, Einaudi, Torino 1993
Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento, Garzanti, Milano 1971
Rossana Dedola, Il romanzo e la coscienza, Liviana, Padova 1981
Elio Gioanola, Psicanalisi, ermeneutica e letteratura, Mursia, Milano 1991
Romano Luperini, Federigo Tozzi. Le immagini, le idee, le opere, Laterza, Roma 1995
Sandro Maxia, Uomini e bestie nella narrativa di Tozzi, Liviana, Padova 1971
Franco Petroni, Le parole di traverso, Jaca Book, Milano 1998
Gino Tellini, La tela di fumo, Nisti Lischi, Pisa 1972
Federigo Tozzi, Paolo Adele, Vallecchi, Firenze 1995, pp. 168, e 10,33
Federigo Tozzi, Opere, Mondadori, Milano 1987


(rivista “Costruzioni psicoanalitiche” n 15, 2008)

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