mercoledì 3 agosto 2016

Periferie diffuse e trasfigurate

Alcune osservazioni illuminanti esposte in chiave saggistica si trovano in un testo di Vitaliano Trevisan, Tristissimi giardini, (Laterza, Roma-Bari 2010), dove conurbazioni denominate periferia diffusa, che occupano sempre più spazio oggigiorno rispetto a quella che avrebbe dovuto essere una brillante città diffusa, si presentano come qualcosa di contraddittorio e incoerente che genera disagio pure in una giornata limpida osservate dall’alto: 
“Osservando la periferia diffusa, anche in un giorno così limpido, la vista si offusca, la ragione vacilla. Cercare di coglierla nel suo insieme ci sembra un non senso. Non si può descrivere una forma che non si fissa nel tempo, né inscrivere in un sistema di relazioni coerenti una conurbazione che ha perso per strada i suoi tradizionali riferimenti. Al loro posto troviamo frammentazione, parcellizzazione, successione casuale, sovrapposizione altrettanto casuale. Riconosciamo una serie. Un’armonia sembra nascere, ma subito si interrompe; né si trova continuità nella dis-armonia, dato che anch’essa si interrompe.” (p 135).
Un embrionale senso d’angoscia è qui legato all’estraneità e allo smarrimento di fronte a luoghi che dovrebbero apparire familiari ma non lo sono più. Allo smarrimento si aggiunge un senso di abbandono e di degrado: “… in questa grandissima periferia policentrica che non ha coscienza di sé, tutto è pensato a pezzi, e fatto e rifatto a pezzi (…) il processo di frammentazione continua senza sosta, con la stolidità, la sciatteria e la mancanza d’amore, se si eccettua quello per il denaro…” (p 17).
Da chi sono abitati questi luoghi?
“(…) mi rendo conto che la città e la provincia – e la mia strada – sono piene di vecchi che si tengono aggrappati con tutte le forze a quel poco che hanno: la casa per cui hanno lavorato tutta la vita, l’orto, il giardino, e una serie di abitudini che fanno riferimento a un mondo che si va estinguendo con loro (…) Non deve perciò stupire questo attaccamento alle cose…” (p 59).
“Il sospetto che l’industria pubblica produca vecchi malati – semilavorati -, per poi immetterli nel mercato sanitario cosiddetto privato, non è infondato: cliniche, centri diagnostici, di riabilitazione, convalescenziari eccetera, sembra un mercato in cui di privato c’è solo il guadagno.” (p 67).
Da tali osservazioni inquietanti all’incubo il passo è breve. Tant’è vero che in una pagina di Ugo Cornia più o meno degli stessi anni quel paesaggio fatto di strade a lunga percorrenza, rotatorie, svincoli, lontano dai centri abitati, quasi totalmente privo di segnaletica e di presenze umane, nel dormiveglia, diventa l’anticamera dell’inferno: una catabasi nel territorio cementificato, un digradare verso un fondovalle che allude a un progressivo degrado, per una strada tortuosa, priva di indicazioni, distante dai centri abitati, che pare condurre soltanto a capannoni industriali con merci accatastate, unicamente percorsa da camion che non si fermano: