Intervista
a Mariano Bargellini
- So che stai lavorando a un nuovo romanzo. Vuoi dire qualcosa
su questo testo che definisci puzzle game?
- L’oggetto
infinito è un romanzo puzzle game.
In senso metaforico e letterale. Anche alla lettera, in quanto che il
fabulatore e personaggio della storia, a seguito di un escamotage si direbbe
onirico, e dell’annuncio recatogli da Antony Charon, lo scimpanzé sapiente
della televisione, il teledivo dell’aperitivo, quasi stesse sognando cade nella
trappola di un puzzle game, di cui
ignora le regole i meccanismi le leggi. Si trova di colpo, forse prigioniero,
in una casa del Sonno e del Silenzio, che lui riconosce: è la casa-labirinto
della fanciullezza, arredata come allora e con vestigia recenti degli antichi
inquilini, ma deserta e semibuia. L’intero palazzo, oggi assediato da una
nebbia fittissima, parrebbe disabitato. E la città stessa, deserta: una
Milano-fantasma. Egli s’aggira, ombra di sogno, anzi persona di puntini
elettronici, ente digitale, avatar del giocatore sconosciuto alla console per
corridoi e stanze di un Labirinto senza uscita, e senza Minotauro. Salvo che il
Minotauro, cioè l’avversario computerizzato di questo videogioco, non sia lo
scimpanzé parlante, il testimonial dell’aperitivo: Toni Caronte, il suo
contubernale di reclusorio-incantesimo. Il quale, sorta di Frégoli, cambia
d’abito e di ruolo per tre volte. Di teologo e in veste talare, per esempio, si
cambia in predicatore della rivoluzione neofuturista, vestito alla futurBalla.
Oltre a questi due personaggi, e ai loro dialoghi subito declamati e voltatisi
in controversia, dialoghi da teatro della sorpresa del grottesco e dell’assurdo,
risuona talvolta nel teatro vuoto e quasi buio la voce del giocatore e
fabulatore invisibile seduto alla console. Continui i colpi di scena. L’ultimo,
a suo modo risolutivo, conclude brutalmente L’oggetto infinito, romanzo
labirintico neo-novecentista.