domenica 27 febbraio 2022

Libri-rifugio

Libri come beni-rifugio, come l'oro dopo il crollo dei mercati... Durante gli anni della pandemia ho trovato un rifugio nei libri sulla Resistenza. Un grande tesoro nella Casa in collina di Pavese, in Una questione privata, nel Libro di Johnny di Fenoglio, nei Piccoli maestri di Meneghello, nei Partigiani della montagna di Bocca, nella Guerra dei poveri di Nuto Revelli. Il libro di Johnny, di grande intensità narrativa ed epica, ha un piccolo grande difetto, nonostante i molti pregi: di essere molto ideologico e poco teorico. Questo lo scalfisce solo in parte. Il rischio di rispecchiarsi nei nemici, magari negli ufficiali italiani rimasti con la Repubblica di Salò dopo l'8 settembre per semplici ragioni di onore militare, affiora più volte, sia nell'incontro e tentativo di trattativa prima della battaglia in difesa di Alba, sia nell'ammirazione per alcune divise o personalità di soldati come il fratello del partigiano Kyra. Senonché l'appoggio della popolazione contro i tedeschi marca decisamente una differenza e illumina di una luce moralmente migliore, rispetto agli ufficiali rimasti alleati dei tedeschi, quei partigiani badogliani che, pur conservando un'etica legata alle antiche gerarchie dell'esercito, compresero le esigenze di riscatto e di rivolta contro l'invasore propria della popolazione locale e scelsero appunto di salire in montagna o in collina coi partigiani. Infine, il lavoro sullo stile e la contaminazione anglofona, quelle costruzioni contratte con sostantivi composti similmente alla maniera inglese (per es. un termine come nuvola-tempesta), la quantità dei personaggi, l'eroismo delle loro brevi vite rendono Il libro di Johnny, che pur sarebbe fra i più esposti a critiche ideologiche fra i romanzi partigiani, un'opera di valore che varca senza ombra di dubbio i limiti del periodo postbellico.

I piccoli maestri, in una forma tutta virtuosa e contraria alla retorica, si sforzano a più riprese di argomentare, di giustificare; molto più di altri libri dell'epoca sono dominati dall'ansia di giustificare ogni singola azione, anche le uccisioni e le condanne a morte dei nemici dopo tentativi di processo, come a sottolineare il più possibile la propria distinzione dalla brutalità e ingiustizia degli altri. 

Al Pavese della Casa in collina va invece riconosciuta la grande maestria nell'amalgamare l'italiano al dialetto senza che esso venga nettamente pronunciato ma resti sottoterra, accanto alle radici, mescolato a tutto il discorso.

Opere potenti, autori lodevoli e serissimi che si accinsero al lavoro della penna sollecitati da grande senso di responsabilità e di umanità. E per questo li sentiamo ancora così vicini.

venerdì 18 febbraio 2022

Riflessioni su Manganelli del 2013 rivedute e corrette

Ho un po' modificato la parte di questo post dedicato all'atmosfera asfittica, da morte intrauterina, di alcuni brani manganelliani.

La forte intensità del racconto intradiegetico "Storia del non nato", reperibile nella parte finale dell'Hilarotragoedia manganelliana, frammento straordinariamente tragico in quel contesto (che riporta frasi di "asciutta disperazione" come questa: "Non più donna era costei, ma esempio estremo, unità di misura del male, della sofferenza…", p 118 nell'edizione adelphiana del 1987) si può intendere come spia del fatto che l'autore sta parlando di se stesso: è lui, Giorgio Manganelli, che lamenta il suo non essere nato all'esperienza (in questo caso esperienza affettiva di figlio poi fidanzato, marito…) fino a desiderare la morte pur non essendo mai nato, morte al quadrato, morte elevata a potenza (evidentemente qui lo scrittore si riferisce a una condizione psichica non a una realtà autobiografica; fu infatti partigiano, ebbe storie d'amore tormentate). Ma perché parlare di non-nascita se ebbe una vita, a periodi, intensamente vissuta? Quell'atmosfera asfittica da morte intrauterina deve corrispondere probabilmente a un desiderio punitivo. Un grembo materno che soffoca, che rende impossibile la nascita e che evoca quindi un desiderio inconscio, castigato, di regredire a una pre-vita? Oppure semplicemente senso di colpa per aver vissuto? Oppure senso di colpa per non aver vissuto abbastanza? Resta nell'indefinito letterario la motivazione ultima delle ambientazioni inquietanti di quegli pseudoromanzi.
La messa in forma narrativa di un'angosciosa solitudine esistenziale ("Non ho nome, né luogo, né sangue, non mi è dato né nascere né morire…") pare di tutt'altro segno per gli autori italiani più recenti, testimoni di una storia contemporanea eccezionalmente risparmiata nell'Europa occidentale dalle guerre, dai massacri di massa, dalle grandi carestie e altri flagelli, un fatto ascritto in particolare all'ultima generazione scrutata dall'occhio critico e autocritico di Antonio Scurati (La letteratura dell'inesperienza, Bompiani, Milano 2006) e Daniele Giglioli (Senza trauma, Quodlibet, Macerata 2011). Gli autori considerati nei suddetti studi soffrono per non aver vissuto abbastanza.

giovedì 3 febbraio 2022

Fucilazione di racconti

Associo a Giorgio Manganelli un aggettivo irriverente: frustrante. Trovo frustrante e demotivante l'idea di Manganelli di scorciare le sue idee ispiratrici di possibili romanzi nel celebre Centuria. Cento piccoli romanzi fiume (1979). Il libro si sarebbe anche potuto intitolare Cento piccoli romanzi uccisi oppure Fucilazione di racconti. E perché questo atto sadico, che non ha la stessa natura teorica e ideologica delle prove antiromanzesche degli anni Sessanta? Quello di Manganelli ha tutta l'aria di un rifiuto del romanzo umorale, piccato e risentito, da persona quasi offesa, 

Il piacere del romanzo o del racconto è dato in special modo da un rapporto affettivo tra lettore e personaggio. Se nessun tipo di affettività entra in gioco, la lettura risulta incespicata e difficile per tutta la lunghezza dei testi in prosa. Un attacco al seno, forse, in termini analitici. Un attacco alla dimensione relazionale.

P.S. - Tutt'altra sensazione danno invece i fascinosi La palude definitiva e Dall'inferno.