giovedì 29 dicembre 2011

Fuori dal margine

Intervista a Mario Capello, scrittore e consulente editoriale

Mario, nei mesi scorsi ho avuto occasione di leggere il tuo libro Tutto quel vuoto (edizioni Sottovoce 2010), che, seppure presentato in libreria e letto da un certo numero di persone, non mi pare abbia avuto una vera e propria distribuzione. Com’è nata questa edizione e con quali presupposti ideali?

Dunque. Rispondere a questa domanda non è così facile. Sottovoce è, in effetti, un’incarnazione di Eumeswil – una piccola casa editrice di Broni con cui avevo pubblicato il romanzo precedente (I fuochi dell’86 – anch’esso “perduto”). Per motivi legati alle difficoltà di distribuzione, Eumeswil ha cambiato nome tra il 2009 e il 2010. Voices, la collana in cui è uscito (diciamo così) Tutto quel vuoto era curata da Francesco Forlani – grande agit-prop e intellettuale – e anche per questo mi sono convinto a pubblicarvi, nonostante l’esperienza precedente non fosse stata positiva. Poi le cose sono andate come sono andate: il libro è risultato introvabile perché mal distribuito e dunque ha venduto poco o nulla. Il problema della distribuzione, per le piccole case editrici, è una costante, forse irrisolvibile.

Hai fatto o hai in mente di fare altri passi per incontrare un pubblico?

Mah. Il mio prossimo romanzo uscirà con Transeuropa. Un bel passo in avanti, per me, ma non direi che è proprio la casa editrice adatta a “incontrare un pubblico”. Non è, in effetti, un problema che mi pongo. Scrivo – non tanto come vorrei – perché mi piace, ma, a un tempo, sono molto timido (meglio, insicuro) e consapevole dei miei limiti come scrittore. Questo ruolo di scrittore “fantasma”, fantasmatico, pubblicato ma introvabile, in un certo senso mi si attaglia alla perfezione.

In alcuni casi nella tua scrittura cerchi di assecondare il gusto del pubblico o desideri mantenere un’autonomia rispetto al cosiddetto mercato?

Ti rimando alla risposta precedente. Con una precisazione, però: solitamente, gli scrittori appartati, che non ricercano il successo, adottano una scrittura massimalista (in Italia, il più delle volte, di impronta espressionista). Moresco, in questo senso, è esemplare. Non è il mio caso. Cerco una scrittura che sia semplice, ma non facile, che prediliga l’atmosfera all’esibizione muscolare, modellata, per molti aspetti, su quella degli scrittori americani con cui sono cresciuto (Richard Ford e David Long su tutti).

Per quanto tempo ti è capitato di tenere del materiale inedito nel cassetto? Hai seguito anche l’iter tradizionale, cioè l’hai spedito indifferentemente alle case editrici o a qualcuno del settore? Hai avuto risposte?

La risposta alla prima domanda è: qualche mese, il tempo di lasciar decantare la scrittura prima di riprenderla, correggerla e valutarne la vitalità. Sì, ho mandato le mie cose in giro via posta. Le risposte sono state varie: una – una delle prime – mi ha ferito nell’orgoglio (ma sono ancora qui, in piedi); un’altra, per quanto negativa, di mano di un editor che ammiro molto, mi ha spronato.

Quale pensi sia il problema legato all’assenza di risposte (ammesso che ci sia un problema)?

Se ho capito bene la domanda, credo che tu voglia sapere perché alcune case editrici non rispondono agli aspiranti. Questo posso dirtelo con certezza, lavorando nel campo (e, in particolare, per anni come lettore di manoscritti inediti; attualmente sono freelance, consulente editoriale e insegnante in alcuni corsi della scuola Holden): per mancanza di risorse. Solo le case editrici più grandi possono permettersi di mandare in lettura tutto (o quasi) ciò che arriva in una redazione e, oltre a ciò, dedicare del tempo alle risposte e, in qualche caso (sempre più raro) spedirle via posta. E, allo stesso tempo, nessun redattore o editor interno a una casa editrice ha davvero il tempo per leggere tutto quello che arriva. Dunque, paradossalmente, è più facile essere letti – e ricevere una risposta, positiva o negativa che sia – da Mondadori, piuttosto che da Minimum Fax, per dire.

In questo periodo si stanno preparando forse grandi cambiamenti nel mondo editoriale. Che cosa pensi delle pubblicazioni on-line? Ritieni che possano in futuro diventare un’alternativa al monopolio dell’editoria cartacea oppure sono destinate a non fare presa sulla grande quantità delle persone?

La tua domanda meriterebbe molto più spazio e tempo, per trovare una risposta davvero esauriente e sottile. Diciamo così: il self-publishing, con l’introduzione dell’editoria elettronica, è certamente un fenomeno scompaginante. Non so se un’alternativa, ma di sicuro una sfida, per l’editoria – non fosse che perché offre un bacino pressoché inesauribile da cui attingere. Certo ci sarà un cambiamento anche nell’editoria e per chi vi lavora. Ad oggi, il ruolo degli editoriali è, per qualcuno più per qualcuno meno, quello di gatekeepers (guardiani della soglia) che, selezionando, permettono l’accesso, spesso in maniera a prima vista capricciosa, al “dorato mondo delle lettere”. E’ probabile che in futuro, una volta che i confini tra self-publishing, testi su piattaforme elettroniche (come Amazon) e libri digitali marchiati da case editrici, si siano fatti (ancora) più fluidi, questo ruolo cambi, diventando quello di un mentore che aiuti il lettore a trovare le coordinate all’interno di una produzione che rischia di sommergerlo. Da guardiani a esperti che selezionino non all’accesso, ma una volta prodotto, quello che emerge dalla massa. So che non è chiarissimo, ma credo che sia questo ciò che ci aspetta. Un po’ come quello che è successo con le App. Le App, ha detto qualcuno, sono la rete per chi, da giovane, aveva tanto tempo e pochi soldi (e dunque si cercava le cose da solo nel web, badando al risparmio e alla gratuità) e adesso, invecchiato, ha meno tempo e più soldi (e dunque paga perché qualcuno gli aggreghi tutte le offerte di voli aerei, per dire). Ecco, in futuro, gli editor, diventeranno le App dei lettori.

Nessun commento: