domenica 28 febbraio 2016

Introduzioni alla lettura del romanzo Giocare a mangiarsi di Mariano Bargellini

Primi commenti a Giocare a mangiarsi di Mariano Bargellini: alcune osservazioni di Antonio Caronìa e Franco Romanò

Dalla lettera-scheda di Antonio Caronìa, scritta all’autore prima della pubblicazione
Mi pare che tutto il breve romanzo giochi su di un’ambiguità di registro fra il livello della descrizione letterale dei corpi degl’insetti e delle loro ferali interazioni (lo svolgersi del videogioco, o computer game), e il livello metaforico dell’insight che sugli esseri umani può ricavarsi dalla loro simulazione in forma di insetti (o della loro trasformazione “reale” in essi). Mi pare un’ambiguità giocata molto bene, sul filo del rasoio fra una esplicitazione risentita della metafora e la continua tentazione di renderla letterale (che, en passant, è uno dei meccanismi fondamentali della fantascienza: senza però che il suo romanzo possa essere ascritto in toto a questo genere, per altri motivi che espliciterò dopo). Quest’ambiguità della metafora centrale del libro mi pare rafforzata da una serie di giochi di passaggio fra il mondo del testo e il “mondo zero” della realtà (al modo di Sterne o di Cervantes), con l’identificazione fra il narratore e l’autore che è evidentemente da prendere con cautela, ma che contribuisce al gioco fondamentale del libro.
L’altro motivo esplicito del libro è quello dell’ibridazione fra “reale” e virtuale, col passaggio misterioso e inspiegato dell’insetto da avatar nel mondo del videogioco a presenza nel mondo fisico. Non siamo mai sicuri se ciò sia un processo “oggettivo” o solo un’allucinazione dell’autore, o ancora una dimensione intermedia e nuova (come nella Metamorfosi di Kafka). L’autore mi sembra abbia saputo efficacemente trasformare in un punto di forza (sempre l’ambiguità) la sua debolezza di partenza, e cioè la sua conoscenza scarsa e imprecisa dei mondi virtuali così come si presentano adesso (Internet). Questa è la ragione per cui il testo non mi pare possa essere definito – se non in senso molto lato – come fantascienza. Neppure William Gibson, negli anni ottanta, era ricco di conoscenze sulla tecnologia dei suoi tempi, e inventò a piene mani o glissò allegramente sulla verisimiglianza dei dispositivi che descriveva. Tuttavia le sue intenzioni erano pienamente all’interno dell’immaginario tecnologico – cosa che non mi sembra accada per Bargellini. D’altronde, questa è una caratteristica di questo tipo di narrativa nella tradizione italiana (oltre al nome di Landolfi, mi sembrano pertinenti a questo riguardo quelli di Bontempelli e di Buzzati).
(Lettera risalente al luglio 2005, quando il romanzo era ancora in cerca di editore)