venerdì 30 dicembre 2011

Fuori dal margine 2

Chiacchierata sugli esordi di Paolo Gentiluomo, in una sintesi efficace fatta dall’autore stesso

Faccio una rapida ricognizione sul passato: ho sempre scritto di tutto, versi, prose, dialoghi, fin da quando ero ben abbondantemente giovane. All’attivo, tra la fine degli anni Ottanta e per tutti gli anni Novanta, molte letture sulla pubblica piazza, una rivista e un gruppo di pronto soccorso poetico con i compagni degli Altri Luoghi - Berisso, Cademartori, Caserza, Drago, Frixione -. Proprio su questa rivista comparivano anche miei testi poetici, mie recensioni teatrali, un romanzo a puntate che non vide la fine, finendo prima la rivista... Insomma, per farla breve, io non ho mai privilegiato una forma di scrittura sull’altra (e per non farmi mancare niente ho fatto musica industriale - Tam Quam Tabula Rasa -, partecipato a spettacoli coreutici - per la coreografa e danzatrice Aline Nari -, allestito spettacoli di varietà patafisici). In tutto questo operare la mia tipologia di espressione più apprezzata è stata evidentemente quella in versi, probabilmente per il fatto di aver partecipato come poeta ai lavori del Gruppo 93.
Tra riviste, cataloghi e volumi devo dire che i miei testi poetici hanno sempre visto la luce senza troppa difficoltà e non essendo mai stato costretto ad autoprodurmeli (l’ultimo lavoro è ancora inedito, ma in fondo è stato terminato solo l’anno scorso). Per la prosa ho invece avuto diverse difficoltà, a parte qualche racconto sparso su rivista, il romanzo di cui dicevo ha avuto vita travagliatissima: prima a puntate su rivista che chiude, poi a puntate su altra rivista che chiude anch’essa, poi ramingo e randagio fino ad arrivare al porto di bozze corrette, ma poscia svariate venture temporalesche che lo fanno tutt’ora inedito (prima stesura risale al 1987!, poi più volte rimaneggiato). Un altro romanzo, finito nel 2005 - da tener conto che i miei tempi di lavorazione sono sempre biblici e spesso pure carsici -, quello a cui facevi riferimento tu, Lo smaltimento (Round Robin, 2010), ho prima provato a proporlo senza esito a vari editori, poi son stato chiamato a presentarlo a RicercaBo nel 2007 (da Renato Barilli), in quel contesto l’ho proposto in lettura sotto richiesta stessa di altri editori (Einaudi, per dirne uno), nuovo esito negativo, nuovo giro di proposte, ricezione positiva solo da editori che mi chiedevano di condividere economicamente lo sforzo - ma anche volendo, e non voglio, non ho soldi - e infine udienza trovata dalla Round Robin, casa editrice romana composta di giovani ben attivi. Quando si parla di narrativa si entra in un territorio che non è più solo pertinente alla letteratura, ma anche all’industria editoriale: si deve essere sicuri di vendere il prodotto libro - e il pubblico a cui si punta non è solo quello dei lettori forti che un libro lo cercano caparbiamente... Mentre la poesia, lo si sa, ha numeri scarsi di vendita e dunque le maglie della rete editoriale sono più larghe. Alla fin fine ho solo fatto più fatica a pubblicare la prosa, ma tanto i volumi in versi quanto il romanzo sono usciti tutti da case editrici piccole, che hanno difficoltà con la distribuzione e dunque sostanzialmente i libri è difficile trovarli, ma il lettore di poesia è tenace e sa che dovrà faticar pure lui, si mette di buzzo buono e lo trova il bel tomo che desidera!, mentre il lettore di narrativa - anche se fisicamente può esser la stessa persona che legge versi - questa fatica è più difficile che la faccia.
Io credo che ogni testo abbia una sua storia prima privata e poi pubblica. Lo si pensa, lo si lavora, lo si corregge, lo si patisce e lo si gioisce, finalmente si dice è finito e questo termine indica il sipario del primo atto. Immediatamente dopo, di quel materiale testuale, se ne deve fare uso pubblico e la pubblicazione in volume è solo una parte di questo uso. Io credo che lo scrittore non possa fare a meno di mettere in circolo i suoi testi seguendo tutti i canali possibili - letture, performance, pubblicazioni parziali e integrali, foglietti abbandonati sui treni eccetera - e non perchè lamentosamente costretto da una supposta mancata comprensione da parte dell’editoria maggiore, ma perchè quello è il suo compito operativo sociale: con il proprio testo messo in circolo si devono creare sintonie e distonie, carezze e sgarbi con il pubblico che non è solo quello che legge seduto il libro. Questo è importante. Il cassetto non esiste. Ho scritto un altro testo di genere misto - tra prosa, versi e teatro - che di argomento ha un surreale Pontefice, ne sto facendo un utilizzo per letture performative, oppure a brani è uscito su rivista, ma nel suo complesso mi sa che rimarrà inedito, non intravedo per ‘sto libello lo spazio adeguato. E quando comunque ho un testo pronto lo sottopongo ad ampio raggio agli editori, cercando tra quelli che possono ovviamente esser più congeniali all’opera, e in genere la risposta arriva anche se prestampata o formulare, - anche questo cenno è positivo, almeno sai che il plico o il file è arrivato a destinazione. E se gli editori non rispondono, uno se ne fa una ragione. Il punto è che ritengo gli editori siano sommersi di proposte, e bisogna anche sapersi mettere dal loro punto di vista. Dunque io dico: la pubblicazione è cosa buona e giusta, ma attenzione a bloccarsi lì con la testa. Operare, sempre operare con il materiale che si è prodotto. In realtà mi pare quasi superfluo rispondere alla tua ultima domanda (quella se assecondare o meno i gusti o le mode del momento), mi sembra di aver già dato ampi chiarimenti in proposito illustrando la mia posizione: io penso a scrivere quello che mi sembra adatto a ciò che sto scrivendo, tautologicamente. Non so nemmeno cosa vuol dire cedere ai gusti del pubblico e del mercato, non perchè son duro e puro, ma perchè non sono capace di farlo. Il mio lavoro incontrerà pure il gusto di un pubblico, se poi questo sarà la massa o i venticinque lettori, lo stabilirà il pubblico medesimo.

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