giovedì 7 febbraio 2019

Conversazione con Ezio Sinigaglia

Ezio Sinigaglia è un altro autore che ha patito un'esclusione: il suo corposo esordio nel 1985 da un piccolo editore milanese, Il pantarèi, romanzo-saggio ricco di spunti e riflessioni che ruotano intorno alle grandi innovazioni stilistiche del Novecento, non ebbe nessuna eco in un panorama culturale che si stava decisamente ricompattando intorno a forme narrative ottocentesche: un postmoderno definito da Sinigaglia stesso un ritorno al premoderno.


Salardi: All’inizio si pone una questione di metodo. “Il suo progetto puntava dritto all’oscurità per cogliervi una luce. Era inesplicabile a lui stesso. Eppure era il progetto più forte e preciso che avesse mai formulato in vita sua.”: così l’incipit di Eclissi (Nutrimenti, Roma 2016, pag 7). Allo stesso modo si potrebbe ipotizzare che Il pantarèi (ora riproposto da TerraRossa edizioni, Bari 2019, a quasi trentacinque anni dalla prima edizione – SPS-Sapiens, Milano 1985) punti all’oscurità, alla complessità tipiche dei maggiori romanzi del Novecento, per cogliervi un’indicazione su come proseguire il lavoro in questo che diviene un genere completamente diverso nel secolo che ci precede: a pag 65 del Pantarèi si osserva che il romanzo era sempre stato nei secoli “il genere letterario ‘leggero’, nel quale tradizionalmente i valori del mythos (i fatti, l’azione, l’avventura, le fortune, le catastrofi) prevalgono su quelli dell’ethos (la sfera morale dell’uomo, e dunque il pensiero, il cuore, l’intelletto). Le innovazioni tecniche di cui si è parlato sono tali da ribaltare completamente questo rapporto: nei romanzi del ’900 i fatti sono generalmente ben poca cosa, ciò che conta è il libero serpeggiare della coscienza intorno ad essi. Il romanzo viene ad assumere quasi un aspetto ‘saggistico’ che gli era prima completamente estraneo. Diviene, insomma, un nuovo genere letterario”. L’excursus saggistico sulla prosa più innovativa del secolo breve mira a ricavare un orientamento addentrandosi nell’analisi e talora nel calco degli stili più densi e ricchi che ci siano stati lasciati in eredità. Si fa tesoro qui della scoperta proustiana (o freudiana o sveviana) secondo la quale è inutile affrontare direttamente il vero poiché ci sfugge, viene rimosso e misconosciuto. Occorre aspettare che la memoria involontaria ci venga in aiuto, aspettare l’attimo rivelatore. Allontanarsi dalle abitudini, dai doveri, dalle frequentazioni quotidiane per permettere che emergano verità profonde su noi stessi altrimenti offuscate, nascoste dalle urgenze e dai condizionamenti che inghiottono la nostra vita togliendole senso, per quanto riguarda il personaggio di Akron nell’Eclissi; allontanarsi dalle convenzioni e immergersi negli stili che hanno senso per noi, aspettando che la propria voce emerga, pungolata dalle emozioni e dagli accadimenti, per quanto riguarda l’aspirante scrittore…


Sinigaglia: Non è certo arbitrario questo parallelo metodologico o, se vogliamo, progettuale fra i miei due soli romanzi finora pubblicati. In più di un’occasione ho lasciato capire che l’incipit di Eclissi, “Il suo progetto puntava dritto all’oscurità per cogliervi una luce”, appeso lassù in cima alla prima pagina come un esergo, è anche una dichiarazione d’intenti, una promessa fatta al lettore più attento, o viceversa un monito rivolto a quello più frettoloso e meno disposto all’avventura. In questo senso, dunque, il progetto di Akron, il protagonista, coincide con il progetto dell’autore, ed è quindi lecito ipotizzare che non si tratti di un progetto isolato, ma che per l’autore scrivere voglia dire proprio questo: tuffarsi nelle tenebre per sfruttare la sorprendente potenza che una flebile luce può assumere quando è circondata dall’oscurità più totale. Perché naturalmente la luce che noi (intendo noi poveri artigiani della scrittura, che non osiamo più nemmeno chiamarci artisti), la luce che noi, dicevo, nella migliore delle ipotesi, riusciamo ad accendere è una fiammella davvero minuscola, come quella di un cerino, e dunque può essere di qualche utilità soltanto nelle tenebre assolute. Ma non credo che questo principio, nel quale adesso – a settant’anni – mi sembra condensarsi il segreto stesso della letteratura, mi fosse così chiaro a ventott’anni, quando concepii il progetto del Pantarèi e mi accinsi a realizzarlo. Il mio movente di allora era piuttosto, come ho cercato di chiarire nella Prefazione a questa seconda edizione, l’ambizione di dimostrare che il romanzo non era affatto morto. Certo, per realizzare un simile progetto era necessario calarsi a fondo dentro la vicenda del romanzo del Novecento e aprirsi una strada fra i cespugli dei suoi apparenti paradossi fino a trovare un filo di coerenza da seguire. Il che equivale forse a dire che occorreva inabissarsi nell’oscurità fino a cogliervi una piccola luce. Di questo però non ero consapevole a quei tempi: credo di essermi lasciato guidare dall’istinto o, se preferisce, dalla mia passione di lettore, che era già forte e consolidata, e dalla mia vocazione di scrittore, che cominciava ormai a palpitarmi sottopelle. In fondo il progetto del Pantarèi è nato nella mente di un ragazzo che, fino ad allora, aveva avuto della letteratura un’esperienza esclusivamente passiva: una mente ingenua e avventata, anche se provvidenzialmente armata di senso critico e ironia. Eppure questo romanzo si colloca così armoniosamente all’inizio del mio percorso, lungo e accidentato, di scrittore, che si direbbe un esordio studiato a posteriori

Salardi: A pagina 98 del Pantarèi in un momento di esaltazione il narratore protagonista leva una preghiera a padre Joyce: “Lode a te, organismo uno e trino. Gloria al padre intelletto, al cuore figlio e alla santa spiritualità del corpaccio nostro gaudente e dolente. Padre Joyce che sei nei cieli, posa i tuoi occhi sofferenti su di noi, proteggi il tuo umile servo Stern, che elevando oggi a te l’ammirato canto della sua devozione ha guadagnato il pane suo quotidiano con il sudore benedetto della fronte sua. Proteggilo, e tieni lontana da lui ogni tentazione, ma sopra tutte quella rovinosa della letteratura, che Satana con le sue arti malefiche tenta già di insinuargli nel petto. Scrolla via dal capo del tuo umile servo, o padre James, il peccato orribile della superbia. Ricordagli che, come tu hai stabilito, non vi sarà altro romanzo dopo di te. Amen.” Se non bastasse questa dichiarazione di poetica, Il pantarèi si dimostra nel complesso joyciano: molte sono le parti di flusso di coscienza, le variazioni stilistiche di capitolo in capitolo, i giochi di parole, i termini-macedonia sintesi di più vocaboli, la radicale opposizione al linguaggio semplificato in auge dell’attuale industria editoriale. Nel romanzo successivo, Eclissi, è stata invece rintracciata da vari commentatori soprattutto l’influenza di Proust. Verso quali Maestri si sente in particolare debitore?