lunedì 23 novembre 2020

Un brano della "Trilogia" letto da un attore

Qui l'audio di parte del brano estratto da "Trilogia della scomparsa" e pubblicato nel post precedente, letto ad alta voce da Federico Nobili, attore e scrittore. 




sabato 21 novembre 2020

Brano tratto dalla "Trilogia della scomparsa"

T'è mai capitato di mangiarti le mani? Io ho continuamente voglia di masticare qualcosa, qualunque cosa. Finito il pane e le sigarette, mi mangio le unghie, i capelli, le pellicine... Finiti i miei, vorrei passare ai tuoi. Ma dopotutto non credo affatto che staresti meglio senza tua madre. Nonostante tutto, ti sono necessaria. Qualcuno deve pur piangere sul latte versato! Tu saresti capace di sprecare persino l'olio senza fare una piega.

«Senti quello che dico?»

Mi fai blaterare e blaterare al vento. Dov'è quel disgraziato di tuo fratello? Non è colpa sua se non risponde. Sei tu che l'hai ridotto così.

È difficile per te immaginare una corsa per portare a qualcuno, da qualche parte, a qualcuno, un corpo freddo, bagnato, ferito, esanime, svenuto, trascinato correndo, prendendo in braccio un corpo morto, incespicando, sollevato ansimando, pesantissimo, caduto, cadendo a corpo morto, rialzandosi, facendosi aiutare da qualcuno sulla strada, forse dietro l'angolo, fuori dalla boscaglia, credendo che fosse un tuffo non un scivolata, mettendo male il piede, raddrizzandosi, il corpo di qualcuno respirante, gorgogliante però muto, assente, snodato, annegato, il corpo di un fiume, di un mare scivolato per sbaglio in una bocca, in una gola aperta, con i pesci che vogliono nuotare, saltare, respirare, il naso che vuole respirare, uscire tra le foglie, gli occhi chiusi che anelano alla luce oltre i rami, oltre la superficie delle foglie, ma la testa riversa, un braccio pesantissimo, il corpo molle, sciolto, libero di nuotare sbracciato, con la testa indietro, in giù, crollata, scrollando l'acqua, vomitando i pesci, la sabbia, le mie collane, nuotando, affogando, sbagliando strada, rifacendola a testa in giù, sott'acqua, ma respirando ancora, soffiando, senza dimenticare di saltare le onde, mangiare i pesci, passare sotto i rami, dandomi la spinta, ancora un colpo di reni, incrociando qualcuno, chiamando a gran voce, a grandi bracciate... È difficile immaginare le fatiche inutili, le corse controvento, il tempo perso per salvare qualcuno: per qualcuno che era già morto tanto tempo fa, a sedici anni: felice di esserlo, di sedici anni e morto per sempre.

lunedì 16 novembre 2020

Naufragare non è dolce

Mi ha messo sulle tracce di Naufraganti di Claudia Zaggia (Italic Pequod, Ancona 2015) una recensione trovata sulla rivista Leggendaria nel 2020: a significare quanto poco si sia parlato di questo libro interessante che per anni non ha avuto visibilità.

L'aspetto che sicuramente lo contraddistingue nettamente è il personaggio della narratrice intradiegetica che accosta capitoli del libro nel loro farsi ad aneddoti e riflessioni sulla sua vita, dando luogo a un diario che procede di pari passo con la stesura di un romanzo. Gli argomenti di entrambe le scritture sono simili: l'avvicinarsi della morte, l'inconsistenza della vita, la superficialità dei rapporti umani che in molti casi non riescono ad ancorarci più strettamente al vissuto e a dargli valore, l'inadeguatezza, l'incapacità di percepire appieno i segnali che la natura e gli altri esseri ci mandano.

Il romanzo si presenta quindi avvolto da un cappotto metanarrativo che lo rallenta, lo rende meno scattante, e appetibile come prodotto commerciale e per questo più significativo come documento dei tempi. La stesura del romanzo non si può considerare avulsa dal contesto di una società sfilacciata e degradata e quindi rimane impaludata nelle difficoltà esistenziali, comunicative e sociali dell'io narrante, che scrive in solitudine, non trova interlocutori o interlocutrici, rimane sconcertata o sconvolta le poche volte che ha un'occasione di scambio con critici e scrittori affermati. La decisione di lasciare lo scritto in una forma non del tutto finita, non limata, testimonia delle difficoltà di completare un lavoro difficile ancor più perché si prevede indesiderato, non letto: "A volte sto qui a ripensare una parola, la cambio, la sposto, la rimetto dov'era prima, poi mi sembra tutto una sciocchezza. Penso soprattutto che gli altri leggono frettolosamente e non si accorgono di nulla." pag 245; "Naufragi: mi affascina, io già naufragata, io sono quella che porta al naufragio. Ho spesso parlato di cose naufragate. Ho scritto, sto scrivendo, finisco e poi sempre riprendo a farlo. Dovrò lavorare molto a quest'opera, però sarà ancora una volta tutto insopportabilmente niente." pag 15. La scrittrice, suggestionata dai rifiuti accumulati, dubita spesso delle sue stesse capacità: "Mi sdraio, sono stanca, sto qui sdraiata e mi sembra possa essere per sempre, non ho alcun talento mi sento dire..." pag 242; "Dovrei andare a rivedere, rileggere queste note, ma non ho tempo, forse dopo, quando avrò finito di scrivere il romanzo, ma è poi un romanzo?" pag 48; "Adesso riprendo a scrivere prima che sia troppo tardi, devo andare avanti e finire, e dopo ci saranno i tempi lunghi della rilettura, della revisione, ho fastidio per quello che troverò." pag 187; "Non ho mai creduto di essere una scrittrice, non mi sono neppure mai presentata come una scrittrice, ho sempre scritto però. Scrivevo perché... adesso ho smesso, sto rileggendo qualcosa, ma faccio fatica. Mi chiedo quante menzogne anch'io mi sono raccontata per tirarmi un poco fuori dalla disperazione." pag 241.

lunedì 21 settembre 2020

Trilogia della scomparsa: una sintesi utile alla lettura

 I romanzo della trilogia di Roberta Salardi

TITOLO       Il corpo della casa

Il corpo della casa è strutturato come una piantina d’appartamento, presentando i capitoli come metafore delle varie stanze: un corridoio stretto, una stanza da letto, un salotto e così via. In ognuno di essi la protagonista Martina vive una situazione differente; per esempio, in  Letargo (la stanza da letto) è riportato il dialogo  con un artista suo ospite. Nell’ultimo capitolo, Sgabuzzino/Risposta della casa, è la casa stessa che parla (ça parle, direbbe Lacan): emerge l’inconscio nella voce delle pareti, dei tubi… che  “rinfaccia” alla narratrice-protagonista la sua storia, dopo averla triturata, frammentata, stravolta nel delirio e reinterpretata in forme confuse e molteplici.

A dispetto dei riferimenti spaziali della struttura, non manca un’evoluzione (o involuzione) della storia, una trama con i suoi climax e i suoi colpi di scena, che tuttavia ribadiscono una tendenza alla coazione a ripetere della protagonista. Tutto comincia con un’esperienza di separazione e un grave lutto, seppure dai contorni indefiniti e mutevoli; la trentacinquenne Martina deve trovare la forza di tirare avanti. Pare farcela, tuttavia col puntello di divagazioni schizofreniche. Improbabili impressioni e vaghe allucinazioni (nel suo caso “terapeutiche) in qualche modo la sostengono finché un nuovo incontro/confronto con un uomo non la mette alla prova in maniera dura come in passato. La breve convivenza con l’artista malato Fulvio la inchioda a un senso d’impotenza e di aridità che la spinge sempre più in un’area sensoriale-cognitiva diversa dal consueto. Ecco che prende corpo la sua piccola mitologia domestica fatta di un figlio metà animale metà vegetale, di voci materne che provengono dalle tubature ecc. Finché nell’ultimo capitolo la narrazione esplode, così come la logica razionale che finora in qualche modo ha tenuto insieme il filo del racconto, in una serie di discorsi dei personaggi immaginari che abitano la sua mente. Nel labirinto della Risposta della casa si riesce a individuare il filo d’Arianna di una voce materna che continua a rimproverarla per tutte le scelte della sua vita e il ricordo, rimosso, di traumi infantili.

giovedì 6 agosto 2020

Il percorso accidentato dell'infanzia nella sintassi di Leggenda privata di Michele Mari

L'andamento di questa autobiografia (ferma a infanzia e adolescenza) di Michele Mari è giustamente ondivago e zigzagante per le libere associazioni della memoria involontaria, ma soprattutto per l'invenzione dei personaggi demoniaci che commissionano al narratore l'opera, veri e propri datori di lavoro, che lo costringono a trattare di preferenza gli argomenti di cui andare meno orgogliosi, come l'enuresi notturna o i tic ossessivi: lo scrivente scrive (confessa) perché obbligato dai demoni persecutori che abitano l'avita dimora degli avi. L'idea che siano i nostri fantasmi a muoverci alla scrittura o, più generalmente, all'azione è altamente condivisibile e pone il romanzo in diretta discendenza dal perturbato dominio della psiche. 

Il campo visivo della pagina risulta costantemente disturbato, attraversato come da incursioni, dalle numerose parentesi, tonde e quadre, che racchiudono pensieri laterali o semplici puntini di sospensione. I singoli brani ed episodi sono infatti conclusi con puntini posti in parentesi quadra (più marcata di quella tonda, segno più forte): sostanzialmente interrotti. Alla fine di ogni capitoletto, e talvolta anche all'inizio, è espressa così una reticenza di fondo, una volontà di non dire tutto. Lo scrittore è forzato a parlare, a rivelare i molti aspetti dolorosi della sua età formativa da mostri disgustosi e tormentosi che si nascondono dietro ogni angolo, terrorizzavano il bambino e ancora ansieggiano l'adulto. Sul percorso della lettura si ergono come ostacoli continue deviazioni (talvolta anche consecutive, come tra le pagine 58-59 e tra le pagine 162-163) o interruzioni, con quelle partentesi quadre così simili a scogli, gli scogli del non detto. Particolarmente significativa questa frase a pag 36: "[…] D'inverno, l'abominevole parto. […]", a sé stante su una riga, dove la propria nascita, è isolata fra due silenzi, quello che allude all'amplesso abominevole (pag 3) del proprio concepimento e quello che allude alle terribili tensioni interne alla famiglia che da quel connubio ebbe origine. 

martedì 30 giugno 2020

Greta Thunberg e il mondo che verrà

Un'asceta che in altri tempi sarebbe stata considerata una piccola santa? San Francesco in versione laica e moderna? Una novella Antigone che si appella a leggi non scritte le cui radici affondano in un sentimento di empatia e rispetto verso tutti gli esseri viventi?

Greta si discosta molto dal modello di attivista politico sessantottino, il quale mirava allo sdoganamento di comportamenti repressi e di nuove libertà individuali. "Vietato vietare" era uno dei motti liberatori dell'epoca.

Il modo di porsi di Greta pare modellato su un altro tipo di morale. Si percepisce motivato da un forte legame con la natura, che i popoli nordici coltivano da sempre, come pure da una tradizione culturale e religiosa protestante, che responsabilizza molto i singoli, che richiede fermamente coerenza e rigore. Perché parlo di una tradizione religiosa? La sua attenzione è rivolta al pianeta vivente, non unicamente alla società. Greta è anche vegana, per esempio, probabilmente non solo per motivi strettamente ecologisti. Questi in molti casi puntano a una semplice riduzione del consumo di carne e non necessariamente a una rinuncia completa (vedi Greenpeace e altre associazioni). Greta è una figura ascetica che potrebbe sembrare d'altri tempi. Ma riproponendo l'antica questione del limite, dell’autocontrollo, particolarmente avversata dalle società iperproduttive in cui viviamo, riporta sulla scena abitudini improntate alla parsimonia che evidentemente non si possono dimenticare o trascurare, in quanto favoriscono gli equilibri dell'ecosistema.

Per non compromettere il già difficile rapporto uomo-natura, il suo impegno è esteso a tutto campo. Dice come è attenta nell’alimentazione, nei viaggi, negli acquisti. La coerenza è una parte fondamentale della sua immagine e del suo carisma: è grazie a questa coerenza inflessibile che riesce così convincente.

lunedì 25 maggio 2020

Se l'io è una proliferazione immaginaria


Se l'io è una proliferazione immaginaria, come sostiene per esempio Lacan, non si capisce fino a che punto siano giustificati tutti quei romanzi così solidamente strutturati, dalle trame così compatte, che si presentano come granitici monoliti. «Con questo libro,» vorrebbe dire un editore o un libraio all’acquirente, porgendo il maneggevole blocco di cemento armato, «puoi star sicuro che ti vendo un buon prodotto, tenuto insieme dal rigore sintattico e da una logica ferrea. Sei sicuro che non ti si sfascerà fra le mani privo di senso.» Il modello del cemento armato è probabilmente il modello con cui sono costruiti questi parallelepipedi romanzeschi che promettono la tenuta realistica di matrice ottocentesca, senza infiltrazioni o bolle d'aria, cioè senza nulla che minacci la coesione interna, neanche un piccolo dubbio. Blocchi pieni di parole tenute insieme con griglie d’acciaio, forse per far fronte all'elevata competizione: si sa, un vaso di coccio non viaggia bene in mezzo a vasi di ferro. Ecco, queste narrazioni in cui ogni personaggio ha un suo carattere definito, un suo destino inscritto nel carattere, o in cui entrano in relazione soltanto delle maschere sociali più o meno stereotipate, ci dicono qualcosa di appena un po’ diverso da un saggio sociologico. Un saggio di sociologia o di economia ha il vantaggio che può entrare maggiormente nei dettagli, può fornire risposte più precise e argomentate sul contesto sociale in cui viviamo. Ma perché anche nella prosa d'immaginazione vengono proposti schemi rigidi, assertivi, convenzionali simili a fortini inattaccabili? Come a dire: «Non ti vendo un libro, ti vendo un piccolo fortino in cui trincerarti contro tutte le tue paure».

martedì 17 marzo 2020

Relazioni coi fantasmi

Brano tratto da un mio romanzo inedito

Senza parere, avevo confessato una grande, disdicevole verità. Per certi versi trattavo Aguidi come una bella preda e la sfruttavo anche più di quanto avessero fatto probabilmente le sorelle. Le avevo trovato un'occupazione meno pesante e meglio remunerata di quella nella stireria dove la conobbi (e dove qualche volta andava ancora per arrotondare lo stipendio), ma nello stesso tempo mi facevo mantenere da lei. Io non avevo più voglia di lavorare. Avevo annullato quasi tutte le visite coi miei soliti pazienti, che trascinavano la terapia da anni senza risultato. Non avevo più la forza di portarne il peso e li avevo dirottati presso colleghi più in gamba di me. Anche le mie finanze ne avevano risentito. Ora era Aguidi che si occupava quasi di tutto, in casa e fuori.
Trascorrevo le ore della mattina in un lungo, confuso dormiveglia in cui si alternavano le immagini della mia amante viva e di quella morta. Mi ritrovai a stringere fra le braccia lenzuola sfatte che credevo fanciulle addormentate o a piangere sui cuscini come un bambino in castigo. Non ero più un uomo e, pur vergognandomi in qualche parte recondita di me stesso della mia situazione, non riuscivo a modificarla. Anzi, lasciavo che quella che era diventata per forza di cose la mia convivente, lavorasse anche per me, che avevo molto ridotto il numero dei miei pazienti.
A questo ero arrivato quasi senza rimorsi.
Ma una mattina di quelle in cui più a lungo mi ero trattenuto sotto le coperte, al punto da decidere di non alzarmi fino a che non fosse scesa la sera, le ombre furono tagliate dalla chiara apparizione del più insolito dei miei fantasmi.
Supplice, pensai di cingerle le ginocchia come fosse un personaggio dell'Odissea (in questo probabilmente suggestionato dai miei studi classici), uno di quei personaggi che hanno il potere di gettare Ulisse nelle peggiori tempeste. Le mie dee, tuttavia, non mi parlavano facilmente, non nutrivano più una predilezione o una particolare antipatia per me. Benché fossi ai suoi piedi, lei superò agilmente l'ostacolo del mio corpo, mi carezzò la fronte e si allontanò.

venerdì 24 gennaio 2020

Sogni e sogni


Memoriale di Paolo Volponi e La vegetariana di Han Kang a confronto


Entrambi i romanzi sono incentrati su due personaggi malati: Albino Saluggia del Memoriale è un tubercolotico affetto da manie di persecuzione per cui pensa che una congiura di medici si sia prefissa l’obiettivo d’impedirgli di lavorare e di rovinargli la vita; la vegetariana Yeong-hye è invece una schizofrenica anoressica convinta di riuscire a trasformarsi in una pianta e di passare tout court dalla natura animale a quella vegetale. Volponi rivela molti stati d’animo del personaggio di Albino, lasciando che la sua psiche turbata si espanda liberamente su tutto: è quell’uomo fragile, isolato, che filtra ogni avvenimento e visione attraverso la sua sensibilità esulcerata. La protagonista del romanzo coreano rimane più in ombra, anche se trapelano nel tessuto narrativo diversi suoi sogni e tormenti. La scrittrice preferisce muoverla come una cartina di tornasole e metterla a confronto con altri personaggi per mostrare come loro si comportano di fronte alla sua diversità, senza inoltrarsi nella sua mente psicotica. Quando viene descritto il sogno principale del libro, il sogno del cambiamento, in cui la stessa protagonista colloca il punto di svolta della sua vita, a noi lettori quelle immagini non sembrano poi così terribili: “Una foresta buia. Non un’anima viva. Le foglie aguzze sugli alberi, i miei piedi tutti graffiati. Questo posto mi pareva di ricordarlo, ma adesso mi sono persa. Ho paura. E freddo. Dall’altra parte del burrone ghiacciato, una costruzione rossa simile a un granaio. Una stuoia di paglia sventola floscia davanti all’ingresso. L’arrotolo verso l’alto e sono dentro; è dentro. Una lunga canna di bambù da cui pendono enormi quarti di carne rosso sangue, ancora gocciolanti di sangue. Non so come riesco a uscire. Corro, corro per la valle, poi all’improvviso appare la foresta. Alberi pieni di foglie, la luce verde della primavera. Famiglie che fanno un picnic, bambini piccoli che scorrazzano in giro, e l’odore, quel profumo delizioso. Un torrente che gorgoglia, le persone che stendono le stuoie per sedersi, fanno uno spuntino a base di kimbap. Carne che cuoce sui barbecue, il suono di canti e di risate felici. Ma ho paura. I miei vestiti sono ancora bagnati di sangue. Nasconditi, nasconditi dietro gli alberi. Accovacciati, non farti vedere da nessuno. Le mie mani insanguinate. La mia bocca insanguinata. Che cosa ho fatto in quel granaio? Mi sono ficcata in bocca quella massa cruda e rossa. L’ho sentita premere contro le gengive e il palato, molle e scivolosa di sangue cremisi. Masticavo qualcosa che sembrava così reale, ma non poteva esserlo, era impossibile. La mia faccia, l’espressione dei miei occhi… era senza dubbio la mia faccia, ma non l’avevo mai vista. Oppure no, non era la mia, ma era così familiare… Nulla ha senso. Familiare eppure sconosciuta… quella sensazione così vivida, strana, spaventosamente inquietante.” (La vegetariana, 2007, Adelphi, Milano 2016, pagg 21-22). L’atmosfera cupa è interrotta dalla scenetta idillica centrale del picnic con le famiglie che mangiano di tutto, carne compresa, senza nessun dramma.
I ricordi di fatti realmente accaduti nelle pagine successive (la morte del cane, ucciso crudelmente dal padre e mangiato da tutta la famiglia quando Yeong-hye era piccola e il pranzo familiare successivo alla svolta vegana, durante il quale vorrebbero costringere Yeong-hye a mangiare carne) sono racconti ben più terribili del sogno. Di questo rimane celato il nucleo maggiormente inquietante, capace di scatenare la reazione punitiva che Yeong-hye infligge a se stessa, probabilmente una scena cannibalica.

domenica 22 dicembre 2019

Considerazione sui libri che parlano di scrittori

Uno dei motivi per cui non ho scritto tanti libri è dovuto al fatto che non credo del tutto nelle parole, nella loro capacità di trasformazione del mondo. Vediamo per esempio che il mondo permane largamente ingiusto nonostante i grandi libri che sono stati scritti. Notiamo anche che nella società dell'immagine, o dello spettacolo, è riservato uno spazio sempre più sacrificato alla parola scritta, nonostante vi sia chi si lamenta dell'imbarbarimento del linguaggio. Insomma, l'impressione è che la società lavori contro la pratica della scrittura. Qualcuno potrebbe obiettare: proprio per questo bisogna impegnarsi affinché quest'attitudine di civiltà non venga trascurata e osteggiata. E' vero, ma non siamo solo dei parlesseri, come direbbe Lacan, o dei pensesseri, come direbbe il filosofo del cogito. C'è pur sempre una vita da vivere e una società cui contribuire anche con altre pratiche. C'è il problema più banale di sbarcare il lunario ma c'è anche quello culturale ed esistenziale del discorso inceppato, che rasentava il silenzio, già nel Novecento, con Beckett. Non ammiro particolarmente i romanzi dove il protagonista è uno scrittore che parla del suo essere scrittore o del suo diventare o non diventare scrittore. Questo ha funzionato alcune volte, è stato significativo in alcuni contesti, ma ripetuto ulteriormente rischierebbe di suonare ridondante, e classista persino, quasi la protesta per un privilegio che non si ha più. Con l'aumento di precarietà e disoccupazione sarebbe assurdo che qualcuno si lamentasse di non essere riuscito a fare lo scrittore di professione, magari premiato, intervistato e invitato periodicamente a fare comparsate televisive.
Mentre ha senso aspirare a veder pubblicati i frutti del proprio lavoro, meno senso ha pretendere una vera e propria carriera come per una qualsiasi altra professione. Non mi convince l'imborghesimento dell'arte.
Spostandoci sui contenuti, alle trame con il narcisismo dello scrittore in primo piano preferisco decisamente un romanzo come Memoriale di Volponi, dove si parla di un operaio che non riesce a fare l'operaio.

giovedì 5 dicembre 2019

Un buco nero di silenzio

Un buco nero di silenzio*: è così che a volte si percepisce l'universo. E tuttavia: "sono appassionata di vuoto,"** trovo scritto nel recente romanzo di una esordiente.
Molti romanzi di donne sono introspettivi.
E' cosa da festeggiare, dal momento che capita frequentemente di sfogliare libri e bestseller che sembrano commissionati sulla base di regole troppo commerciali e riproducono quasi in serie note false o stonate; sembrano di plastica pure loro, come le tante merci che ci sommergono. In altre parole, sembrano ingiustificati. Tuttavia l'umanità continua a esistere, con le sue incertezze e sofferenze, e a formulare inquieti interrogativi sull'esistenza, forse timidamente, forse in maniera appena percettibile in mezzo al frastuono di forme mediatiche in altre faccende affaccendate. Ho l'impressione che questa voce sottile ma acuta, portatrice di amore per la verità, sia soprattutto incarnata da donne che scrivono. E' solamente un'impressione, poiché non sono in grado di leggere tutto ciò che si produce, ma ho alcuni riscontri. 
Penso a libri come Il peso minimo della bellezza di Azzurra de Paola (LiberAria, Bari 2016), penso a Metapsicologia rosa di Alessandra Saugo, prematuramente scomparsa (Feltrinelli, Milano 2017), penso al recentissimo Ritmi di veglia di Raffaella d'Elia (Exorma, Roma 2019), dove paiono risuonare antiche massime come "La filosofia è vita da svegli" oppure "Sapere è soffrire" oppure il leopardiano "Tutto è male". Potrei citare anche Maestoso è l'abbandono di Sara Gamberini (Hacca edizioni, Matelica 2018) oppure Disturbi di luminosità di Ilaria Palombi (Gaffi, Roma 2018), più legati a traumi e a esperienze psicotiche vere e proprie. Negli ultimi due testi elencati, così come in Metapsicologia rosa, è significativo il dialogo desiderato/contrastato con lo psicanalista; mentre l'ombra dell'inadeguatezza o di una malattia, invalidante e insieme pungolante, incombe in Ritmi di veglia di Raffaella D'Elia***. Infine, nel Peso minimo della bellezza compare più di una volta, invano, l'esortazione a "trasformare la rabbia in energia pulita" (per es. a pag 119).