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venerdì 2 dicembre 2022

Cinque osservazioni-sollecitazioni-domande dopo aver letto la raccolta di saggi Figlia di solo padre di Rosaria Lo Russo

1)     Dai tuoi studi, dalle tue riflessioni su alcuni testi di poetesse del secondo Novecento emergono tre archetipi culturali, in qualche modo discendenti dall’unico mito di un’antica dea greca lunare dai molti nomi (Artemide, Ecate, Diana, Lucina…) dal doppio volto di protettrice delle fanciulle ma anche, talvolta, di persecutrice-vendicatrice. Mi piacerebbe che ti soffermassi su ognuna di queste sfaccettature che potevano connotare la figura della poetessa/scrittrice ancora fino a molto di recente. Iniziamo con il suo essere parthénos, termine che anticamente valeva per “nubile”, “non sposata” ma anche “lesbica”, “adolescente”, non destinata alle nozze. (Inciso mio: questo tema, peraltro, non appartiene esclusivamente al tempo passato: Ingeborg Bachman ancora nel 1989 sostiene che il matrimonio "è impossibile per una donna che lavora e che pensa e che vuole lei stessa essere qualche cosa."*). La necessità di separarsi dal destino comune delle donne e dai fortissimi limiti esistenziali, che la condizione femminile certamente comportava, per concentrarsi sulla scrittura, poteva avere pesanti ricadute sulla sua vita emotiva, affettiva… sulla sua vita tout court. 

2)     Da “diversa, lontana, distaccata” a “pazza” il passo è breve. Questo binomio, poetessa pazza, concretizzatosi così spesso, è in parte collegato, a mio parere, anche all’antica presenza nei miti e nei riti di pizie, sibille, “cassandre”, maghe, indovine le quali, in quanto donne (ipersensibili) considerate nei secoli meno razionali degli uomini, si ritenevano più vicine al mondo altro degli dei, dei segni, dei simboli. Tuttavia questa che sembrerebbe essere stata una separazione forzata, ingiustamente imposta, dei ruoli e delle possibilità intellettuali fra i sessi forse dopo la scoperta freudiana ha rivelato i suoi vantaggi: la donna poeta è stata tanto più accettata e apprezzata in quanto ritenuta particolarmente ricettiva dei segnali che manda l’inconscio e persino capace di parlare la lingua dell’inconscio, così come secoli fa era capace, nei vaticini, di parlare l’oscura lingua degli dei. Ci sarebbe naturalmente molto da dire sul legame tra follia e scrittura, che non riguarda solo le donne… Desideri mettere a fuoco qualcosa in merito, visto che ti sei occupata a lungo di Sylvia Plath, Anne Sexton, Amelia Rosselli?

mercoledì 14 settembre 2016

Tensioni stilistiche

Se è vero che gli intellettuali, nella maggioranza dei casi, secondo Pierre Bourdieu e Diego Fusaro, forniscono il capitale simbolico atto a giustificare l'esistente, per ciò che attiene il campo letterario chi si sforza di cercare nuove forme o di alterare, tendere, trasformare quanto più possibile quelle consuete, colloca il suo lavoro in una posizione non immediatamente supina al potere.
Oggi come oggi gli stili fanno fatica a mutare o solamente a tendersi verso il nuovo o il diverso perché viviamo in un periodo conformista e conservatore. Tuttavia personalmente posso dire d'aver notato tensione stilistica per esempio in uno dei primi volumi di racconti di Christian Raimo, Dov'eri tu quando le stelle del mattino gioivano in coro?(minimum fax, Roma 2004), e nel Nosocomio di Rosaria Lo Russo (Effigie, Milano 2016), opera fra la prosa e la poesia. Cito queste due opere ma ve ne sono anche altre naturalmente.
Fra i racconti di Raimo quello intitolato Tutte queste domande mostra un dialogo smozzicato fra nonno e nipote sotteso dal flusso di coscienza del nonno. E' esibito un virtuosismo quasi barocco in queste pagine di discorso immediato (monologo interiore), che frammenta e sospende continuamente il discorso, lo varia, lo spinge ai livelli più profondi del subconscio, gli offre diversi appigli sintattici e forme grafiche, per cui le pause sono segnate addirittura in quattro modi diversi (puntini di sospensione, a capo, spazi bianchi fra le parole o fra le righe). Questa tensione stilistica mi pare mostri in maniera molto esplicita un tentativo di fuga dalle gabbie della narrativa convenzionale.

mercoledì 3 agosto 2016

Periferie diffuse e trasfigurate

Alcune osservazioni illuminanti esposte in chiave saggistica si trovano in un testo di Vitaliano Trevisan, Tristissimi giardini, (Laterza, Roma-Bari 2010), dove conurbazioni denominate periferia diffusa, che occupano sempre più spazio oggigiorno rispetto a quella che avrebbe dovuto essere una brillante città diffusa, si presentano come qualcosa di contraddittorio e incoerente che genera disagio pure in una giornata limpida osservate dall’alto: 
“Osservando la periferia diffusa, anche in un giorno così limpido, la vista si offusca, la ragione vacilla. Cercare di coglierla nel suo insieme ci sembra un non senso. Non si può descrivere una forma che non si fissa nel tempo, né inscrivere in un sistema di relazioni coerenti una conurbazione che ha perso per strada i suoi tradizionali riferimenti. Al loro posto troviamo frammentazione, parcellizzazione, successione casuale, sovrapposizione altrettanto casuale. Riconosciamo una serie. Un’armonia sembra nascere, ma subito si interrompe; né si trova continuità nella dis-armonia, dato che anch’essa si interrompe.” (p 135).
Un embrionale senso d’angoscia è qui legato all’estraneità e allo smarrimento di fronte a luoghi che dovrebbero apparire familiari ma non lo sono più. Allo smarrimento si aggiunge un senso di abbandono e di degrado: “… in questa grandissima periferia policentrica che non ha coscienza di sé, tutto è pensato a pezzi, e fatto e rifatto a pezzi (…) il processo di frammentazione continua senza sosta, con la stolidità, la sciatteria e la mancanza d’amore, se si eccettua quello per il denaro…” (p 17).
Da chi sono abitati questi luoghi?
“(…) mi rendo conto che la città e la provincia – e la mia strada – sono piene di vecchi che si tengono aggrappati con tutte le forze a quel poco che hanno: la casa per cui hanno lavorato tutta la vita, l’orto, il giardino, e una serie di abitudini che fanno riferimento a un mondo che si va estinguendo con loro (…) Non deve perciò stupire questo attaccamento alle cose…” (p 59).
“Il sospetto che l’industria pubblica produca vecchi malati – semilavorati -, per poi immetterli nel mercato sanitario cosiddetto privato, non è infondato: cliniche, centri diagnostici, di riabilitazione, convalescenziari eccetera, sembra un mercato in cui di privato c’è solo il guadagno.” (p 67).
Da tali osservazioni inquietanti all’incubo il passo è breve. Tant’è vero che in una pagina di Ugo Cornia più o meno degli stessi anni quel paesaggio fatto di strade a lunga percorrenza, rotatorie, svincoli, lontano dai centri abitati, quasi totalmente privo di segnaletica e di presenze umane, nel dormiveglia, diventa l’anticamera dell’inferno: una catabasi nel territorio cementificato, un digradare verso un fondovalle che allude a un progressivo degrado, per una strada tortuosa, priva di indicazioni, distante dai centri abitati, che pare condurre soltanto a capannoni industriali con merci accatastate, unicamente percorsa da camion che non si fermano: