Memoriale di Paolo Volponi e La vegetariana di Han Kang a confronto
Entrambi i romanzi sono
incentrati su due personaggi malati: Albino Saluggia del Memoriale è un tubercolotico affetto da manie di persecuzione per
cui pensa che una congiura di medici si sia prefissa l’obiettivo d’impedirgli
di lavorare e di rovinargli la vita; la vegetariana Yeong-hye è invece una
schizofrenica anoressica convinta di riuscire a trasformarsi in una pianta e di
passare tout court dalla natura animale a quella vegetale. Volponi rivela molti
stati d’animo del personaggio di Albino, lasciando che la sua psiche turbata si
espanda liberamente su tutto: è quell’uomo fragile, isolato, che filtra ogni
avvenimento e visione attraverso la sua sensibilità esulcerata. La
protagonista del romanzo coreano rimane più in ombra, anche se trapelano nel
tessuto narrativo diversi suoi sogni e tormenti. La scrittrice preferisce muoverla
come una cartina di tornasole e metterla a confronto con altri personaggi per
mostrare come loro si comportano di fronte alla sua diversità, senza inoltrarsi
nella sua mente psicotica. Quando viene descritto il sogno principale del
libro, il sogno del cambiamento, in cui la stessa protagonista colloca il punto
di svolta della sua vita, a noi lettori quelle immagini non sembrano poi così terribili:
“Una foresta buia. Non un’anima viva. Le foglie aguzze sugli alberi, i miei
piedi tutti graffiati. Questo posto mi pareva di ricordarlo, ma adesso mi sono
persa. Ho paura. E freddo. Dall’altra parte del burrone ghiacciato, una
costruzione rossa simile a un granaio. Una stuoia di paglia sventola floscia
davanti all’ingresso. L’arrotolo verso l’alto e sono dentro; è dentro. Una
lunga canna di bambù da cui pendono enormi quarti di carne rosso sangue, ancora
gocciolanti di sangue. Non so come riesco a uscire. Corro, corro per la valle,
poi all’improvviso appare la foresta. Alberi pieni di foglie, la luce verde
della primavera. Famiglie che fanno un picnic, bambini piccoli che scorrazzano
in giro, e l’odore, quel profumo delizioso. Un torrente che gorgoglia, le
persone che stendono le stuoie per sedersi, fanno uno spuntino a base di kimbap. Carne che cuoce sui barbecue, il
suono di canti e di risate felici. Ma ho paura. I miei vestiti sono ancora
bagnati di sangue. Nasconditi, nasconditi dietro gli alberi. Accovacciati, non
farti vedere da nessuno. Le mie mani insanguinate. La mia bocca insanguinata.
Che cosa ho fatto in quel granaio? Mi sono ficcata in bocca quella massa cruda
e rossa. L’ho sentita premere contro le gengive e il palato, molle e scivolosa di
sangue cremisi. Masticavo qualcosa che sembrava così reale, ma non poteva
esserlo, era impossibile. La mia faccia, l’espressione dei miei occhi… era
senza dubbio la mia faccia, ma non l’avevo mai vista. Oppure no, non era la
mia, ma era così familiare… Nulla ha senso. Familiare eppure sconosciuta…
quella sensazione così vivida, strana, spaventosamente inquietante.” (La vegetariana, 2007, Adelphi, Milano 2016, pagg
21-22). L’atmosfera cupa è interrotta dalla scenetta idillica centrale
del picnic con le famiglie che mangiano di tutto, carne compresa, senza nessun
dramma.
I ricordi di fatti realmente
accaduti nelle pagine successive (la morte del cane, ucciso crudelmente dal
padre e mangiato da tutta la famiglia quando Yeong-hye era piccola e il pranzo
familiare successivo alla svolta vegana, durante il quale vorrebbero
costringere Yeong-hye a mangiare carne) sono racconti ben più terribili del
sogno. Di questo rimane celato il nucleo maggiormente inquietante, capace di
scatenare la reazione punitiva che Yeong-hye infligge a se stessa,
probabilmente una scena cannibalica.
Di seguito, il breve dialogo
fra Yeong-hye e il cognato infatuato di lei: uno dei pochi tentativi di dialogo
sincero nel testo.
“’Perché non mangi la carne? Me
lo sono sempre domandato, ma per qualche motivo non sono mai riuscito a chiedertelo.’
(…)
‘Non è difficile. E’ solo che
non penso che capiresti.’ Sollevò di nuovo le bacchette e masticò lentamente
dei germogli di soia conditi. ‘E’ per un sogno che ho fatto.’
‘Un sogno?’
‘Ho fatto un sogno… Ed è per
questo che non mangio più la carne.’
‘Ma… che tipo di sogno?’
‘Ho sognato una faccia.’
‘Una faccia?’
Vedendo la sua espressione
perplessa, lei rise sommessamente. Una risata malinconica. ‘Te l’avevo detto
che non avresti capito.’” (pagg 93-94).
Il discorso è spostato sul
piano filosofico: la ragazza ha visto se stessa, ha riconosciuto se stessa,
probabilmente una se stessa famelica e sadica, e ha provato orrore. E’ capitato
a tante persone reali e immaginarie: l’essere umano si guarda e prova disgusto
per se stesso. Ma ciò che in individui più equilibrati porta semplicemente a un
cambio di dieta, eventualmente anche di usi e costumi, di stile di vita, è
troppo difficile da sopportare per la giovane del libro, che evidentemente non
riesce ad accettare di aver provato o di provare pulsioni sanguinarie, di
possedere una natura ferina per cui un comportamento spietato e assetato di
sangue è cosa normale. Yeong-hye non vuole più essere un animale perché essere
un animale è terribile. Questo è il livello a cui si ferma il romanzo, senza
indagare sulle pulsioni orali profonde della protagonista e sui suoi rancori
repressi. I familiari sono effettivamente odiosi e violenti. Non ci stupisce
che con quella famiglia patriarcale: il padre violento, il marito insensibile, il
cognato intuitivo ma egocentrico, la sorella oberata dal lavoro, che quasi non
riesce ad avere una propria vita, sopraffatta com’è dai doveri, la mite vegetariana
desideri solo trasformarsi in un albero o morire. Ma l’eccesso che la sua mente
non regge è la scoperta che tutta la violenza degli altri è anche in lei.
Albino del Memoriale sogna invece il lavoro: “Avevo persino sognato di
lavorare, di dover compiere un lavoro molto impegnativo costruendo un complesso
meccanismo, simile alla macchina di un orologio. Mi capitava, nel sogno, che
verso la fine del lavoro la mia costruzione si mettesse a suonare,
contrariamente a quelle di tutti gli altri che in fila accanto a me facevano lo
stesso lavoro. Il suono della mia macchina non cessava se non ne smontavo un
pezzo, tale da comprometterne la completezza. Ma d’improvviso arrivava un capo,
con l’aria del giovane operaio di Chivasso, il quale annunciava a tutti che
secondo le ultime istruzioni le macchine avrebbero dovuto effettivamente
suonare.” (Memoriale, 1962, Einaudi, Torino 1981, pag 17). In questo sogno il desiderio che emerge è quello di essere
uguale agli altri, di non venire emarginato per i problemi di salute, gravemente compromessa in seguito alla prigionia in tempo di guerra. Il tema
della musica che risuona rendendo migliore il luogo di lavoro ricorre anche in
seguito nei sogni a occhi aperti: “Allora io cominciavo una certa mia musichetta
invernale, il vento, la neve, la pioggia, lo scricchiolio del freddo,
ritrovandone le note in tanti rumori e suoni della fabbrica. Così portavo e
lasciavo passare la mia invernata. La neve me la portavano le donne con i
piccoli e smarritelli suoni d’argento dei loro trapani. Potevo sentire anche il
lago che scendeva con i suoi rumori sopra la mia testa dai piani superiori del
montaggio.” (pag 51).
Qui ritroviamo la fabbrica
incantata: “Debbo dire che lavorare a quell’ora, entrare nella fabbrica misteriosa,
lucente pur senza rompere il buio come un pezzo di stella caduto, girare nel
vuoto dei reparti con l’impressione di camminare nel sonno di tutti quelli che
nel giorno erano stati in quei posti, toccarne gli attrezzi o spostarne le
sedie, proprio con l’impressione di camminare nel loro sonno, a casa loro,
nelle loro teste, come un mago e vivere nel silenzio, in un silenzio assurdo in
quella matrice di rumore, e vedere ferme quelle macchine e tutti i nastri
trasportatori, era bello e affascinante.” (pag 44).
Il personaggio ha origini
contadine e conserva un forte legame con la natura, la cui bellezza spesso lo
conforta nella sua condizione di malato ed emarginato per la sua debolezza (per
es. qui: “La luna era nel cielo e senza vederla ne capivo lo splendore dei tre
quarti dalle canzoni degli usignoli, nei boschetti più folti verso il nord.” pag 27). Il dialogo con alcuni oggetti della sua casa e col paesaggio è
costante e rassicurante, poiché dominato da un pensiero vagamente infantile e
magico (“La domenica confortai la mia decisione in tanti modi ed ebbi sempre
risposta favorevole a tutte le mie domande, in chiesa, dallo scarpone,
dall’indiano e anche dal lago. Il lago conservò sino al tramonto, come gli
avevo chiesto, la sua striscia azzurra di luce, più nitida di un sì, tesa al
centro tra le due sponde.” pag 47).
Grazie alla sua capacità di
trasfigurare la realtà Albino riesce a ottundere gli spigoli di una situazione
amara e dolorosa. Qui per esempio semplici oggetti domestici riescono ad
attenuare il fatto che la madre anziana e delusa si sia lentamente distaccata da
lui e rifugiata nell’alcool: “In viaggio quelle bottiglie mi facevano
compagnia; più di come possa farlo il vino per conto suo. Diventavano la parte
più gentile di mia madre, la prova consistente e silenziosa della sua presenza
e di un affetto segreto. Le lasciavo sul tavolo come avrei lasciato le mani di
mia madre se ancora tra noi fosse stato possibile un saluto. Le bottiglie
restavano sul tavolo tutta la notte e spesso mi addormentavo pensando a loro,
come a mia madre giovane e indulgente, vestita di scuro e riservata.” (pag 206).
Solamente quando egli resterà
deluso dalla fabbrica, dapprima idealizzata e desiderata a costo di continui
patimenti come luogo dell’integrazione e del riconoscimento sociale, quando
verrà progressivamente allontanato e ridimensionato nelle sue aspettative, solamente
allora il protagonista sarà capace di minuziose osservazioni dell’ambiente che
lo circonda, di una fredda analisi della situazione e di una tragica consapevolezza:
“Infatti nei reparti la smania dei premi, dei passaggi di categoria, e
l’ambizione di essere benvoluti dai capi portano sempre tutti a rimettere ogni
giudizio, ad assumere quasi la difesa dell’interesse dell’azienda anche contro
il proprio e quello degli altri che lavorano. Quanto sbaglia la gente, ad ogni
livello, che crede di diventare una parte della fabbrica. In quel momento, la
fabbrica conta per loro e più di loro; così cominciano tutti gli sbagli che si
possono fare contro la propria vita.” (pag 210); “Il luccio era fermo un attimo
per finire la sua preda; lo vedevo quasi emergere dalla prima superficie. Il
suo occhio era dritto nel mio ed era l’occhio di un assassino sorpreso, che non
ritira il coltello. Prima di fuggire doveva inghiottire l’altra creatura, della
quale in quell’attimo rimasero appena le scosse nell’acqua. (…) Non c’era nulla
da fare, anche per me; anch’io muovevo soltanto l’acqua destinato alla fine.”
(pag 173)
Per Volponi il romanzo è una difficile
presa di coscienza, ma possibile anche da parte di un personaggio immerso nei
suoi sogni e proiezioni. Nella Vegetariana
la ragazza psicotica è arrivata fin dall’inizio alla fine di un percorso e ha
fatto una sua scelta radicale; sono gli altri personaggi che, nell’incontro con
lei, hanno l’occasione di capire meglio il mondo e di mutare almeno qualcosa di
sé.
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