venerdì 24 gennaio 2020

Sogni e sogni


Memoriale di Paolo Volponi e La vegetariana di Han Kang a confronto


Entrambi i romanzi sono incentrati su due personaggi malati: Albino Saluggia del Memoriale è un tubercolotico affetto da manie di persecuzione per cui pensa che una congiura di medici si sia prefissa l’obiettivo d’impedirgli di lavorare e di rovinargli la vita; la vegetariana Yeong-hye è invece una schizofrenica anoressica convinta di riuscire a trasformarsi in una pianta e di passare tout court dalla natura animale a quella vegetale. Volponi rivela molti stati d’animo del personaggio di Albino, lasciando che la sua psiche turbata si espanda liberamente su tutto: è quell’uomo fragile, isolato, che filtra ogni avvenimento e visione attraverso la sua sensibilità esulcerata. La protagonista del romanzo coreano rimane più in ombra, anche se trapelano nel tessuto narrativo diversi suoi sogni e tormenti. La scrittrice preferisce muoverla come una cartina di tornasole e metterla a confronto con altri personaggi per mostrare come loro si comportano di fronte alla sua diversità, senza inoltrarsi nella sua mente psicotica. Quando viene descritto il sogno principale del libro, il sogno del cambiamento, in cui la stessa protagonista colloca il punto di svolta della sua vita, a noi lettori quelle immagini non sembrano poi così terribili: “Una foresta buia. Non un’anima viva. Le foglie aguzze sugli alberi, i miei piedi tutti graffiati. Questo posto mi pareva di ricordarlo, ma adesso mi sono persa. Ho paura. E freddo. Dall’altra parte del burrone ghiacciato, una costruzione rossa simile a un granaio. Una stuoia di paglia sventola floscia davanti all’ingresso. L’arrotolo verso l’alto e sono dentro; è dentro. Una lunga canna di bambù da cui pendono enormi quarti di carne rosso sangue, ancora gocciolanti di sangue. Non so come riesco a uscire. Corro, corro per la valle, poi all’improvviso appare la foresta. Alberi pieni di foglie, la luce verde della primavera. Famiglie che fanno un picnic, bambini piccoli che scorrazzano in giro, e l’odore, quel profumo delizioso. Un torrente che gorgoglia, le persone che stendono le stuoie per sedersi, fanno uno spuntino a base di kimbap. Carne che cuoce sui barbecue, il suono di canti e di risate felici. Ma ho paura. I miei vestiti sono ancora bagnati di sangue. Nasconditi, nasconditi dietro gli alberi. Accovacciati, non farti vedere da nessuno. Le mie mani insanguinate. La mia bocca insanguinata. Che cosa ho fatto in quel granaio? Mi sono ficcata in bocca quella massa cruda e rossa. L’ho sentita premere contro le gengive e il palato, molle e scivolosa di sangue cremisi. Masticavo qualcosa che sembrava così reale, ma non poteva esserlo, era impossibile. La mia faccia, l’espressione dei miei occhi… era senza dubbio la mia faccia, ma non l’avevo mai vista. Oppure no, non era la mia, ma era così familiare… Nulla ha senso. Familiare eppure sconosciuta… quella sensazione così vivida, strana, spaventosamente inquietante.” (La vegetariana, 2007, Adelphi, Milano 2016, pagg 21-22). L’atmosfera cupa è interrotta dalla scenetta idillica centrale del picnic con le famiglie che mangiano di tutto, carne compresa, senza nessun dramma.
I ricordi di fatti realmente accaduti nelle pagine successive (la morte del cane, ucciso crudelmente dal padre e mangiato da tutta la famiglia quando Yeong-hye era piccola e il pranzo familiare successivo alla svolta vegana, durante il quale vorrebbero costringere Yeong-hye a mangiare carne) sono racconti ben più terribili del sogno. Di questo rimane celato il nucleo maggiormente inquietante, capace di scatenare la reazione punitiva che Yeong-hye infligge a se stessa, probabilmente una scena cannibalica.

Di seguito, il breve dialogo fra Yeong-hye e il cognato infatuato di lei: uno dei pochi tentativi di dialogo sincero nel testo.
“’Perché non mangi la carne? Me lo sono sempre domandato, ma per qualche motivo non sono mai riuscito a chiedertelo.’
(…)
‘Non è difficile. E’ solo che non penso che capiresti.’ Sollevò di nuovo le bacchette e masticò lentamente dei germogli di soia conditi. ‘E’ per un sogno che ho fatto.’
‘Un sogno?’
‘Ho fatto un sogno… Ed è per questo che non mangio più la carne.’
‘Ma… che tipo di sogno?’
‘Ho sognato una faccia.’
‘Una faccia?’
Vedendo la sua espressione perplessa, lei rise sommessamente. Una risata malinconica. ‘Te l’avevo detto che non avresti capito.’” (pagg 93-94).
Il discorso è spostato sul piano filosofico: la ragazza ha visto se stessa, ha riconosciuto se stessa, probabilmente una se stessa famelica e sadica, e ha provato orrore. E’ capitato a tante persone reali e immaginarie: l’essere umano si guarda e prova disgusto per se stesso. Ma ciò che in individui più equilibrati porta semplicemente a un cambio di dieta, eventualmente anche di usi e costumi, di stile di vita, è troppo difficile da sopportare per la giovane del libro, che evidentemente non riesce ad accettare di aver provato o di provare pulsioni sanguinarie, di possedere una natura ferina per cui un comportamento spietato e assetato di sangue è cosa normale. Yeong-hye non vuole più essere un animale perché essere un animale è terribile. Questo è il livello a cui si ferma il romanzo, senza indagare sulle pulsioni orali profonde della protagonista e sui suoi rancori repressi. I familiari sono effettivamente odiosi e violenti. Non ci stupisce che con quella famiglia patriarcale: il padre violento, il marito insensibile, il cognato intuitivo ma egocentrico, la sorella oberata dal lavoro, che quasi non riesce ad avere una propria vita, sopraffatta com’è dai doveri, la mite vegetariana desideri solo trasformarsi in un albero o morire. Ma l’eccesso che la sua mente non regge è la scoperta che tutta la violenza degli altri è anche in lei.

Albino del Memoriale sogna invece il lavoro: “Avevo persino sognato di lavorare, di dover compiere un lavoro molto impegnativo costruendo un complesso meccanismo, simile alla macchina di un orologio. Mi capitava, nel sogno, che verso la fine del lavoro la mia costruzione si mettesse a suonare, contrariamente a quelle di tutti gli altri che in fila accanto a me facevano lo stesso lavoro. Il suono della mia macchina non cessava se non ne smontavo un pezzo, tale da comprometterne la completezza. Ma d’improvviso arrivava un capo, con l’aria del giovane operaio di Chivasso, il quale annunciava a tutti che secondo le ultime istruzioni le macchine avrebbero dovuto effettivamente suonare.” (Memoriale, 1962, Einaudi, Torino 1981, pag 17). In questo sogno il desiderio che emerge è quello di essere uguale agli altri, di non venire emarginato per i problemi di salute, gravemente compromessa in seguito alla prigionia in tempo di guerra. Il tema della musica che risuona rendendo migliore il luogo di lavoro ricorre anche in seguito nei sogni a occhi aperti: “Allora io cominciavo una certa mia musichetta invernale, il vento, la neve, la pioggia, lo scricchiolio del freddo, ritrovandone le note in tanti rumori e suoni della fabbrica. Così portavo e lasciavo passare la mia invernata. La neve me la portavano le donne con i piccoli e smarritelli suoni d’argento dei loro trapani. Potevo sentire anche il lago che scendeva con i suoi rumori sopra la mia testa dai piani superiori del montaggio.” (pag 51).
Qui ritroviamo la fabbrica incantata: “Debbo dire che lavorare a quell’ora, entrare nella fabbrica misteriosa, lucente pur senza rompere il buio come un pezzo di stella caduto, girare nel vuoto dei reparti con l’impressione di camminare nel sonno di tutti quelli che nel giorno erano stati in quei posti, toccarne gli attrezzi o spostarne le sedie, proprio con l’impressione di camminare nel loro sonno, a casa loro, nelle loro teste, come un mago e vivere nel silenzio, in un silenzio assurdo in quella matrice di rumore, e vedere ferme quelle macchine e tutti i nastri trasportatori, era bello e affascinante.” (pag 44).
Il personaggio ha origini contadine e conserva un forte legame con la natura, la cui bellezza spesso lo conforta nella sua condizione di malato ed emarginato per la sua debolezza (per es. qui: “La luna era nel cielo e senza vederla ne capivo lo splendore dei tre quarti dalle canzoni degli usignoli, nei boschetti più folti verso il nord.” pag 27). Il dialogo con alcuni oggetti della sua casa e col paesaggio è costante e rassicurante, poiché dominato da un pensiero vagamente infantile e magico (“La domenica confortai la mia decisione in tanti modi ed ebbi sempre risposta favorevole a tutte le mie domande, in chiesa, dallo scarpone, dall’indiano e anche dal lago. Il lago conservò sino al tramonto, come gli avevo chiesto, la sua striscia azzurra di luce, più nitida di un sì, tesa al centro tra le due sponde.” pag 47).
Grazie alla sua capacità di trasfigurare la realtà Albino riesce a ottundere gli spigoli di una situazione amara e dolorosa. Qui per esempio semplici oggetti domestici riescono ad attenuare il fatto che la madre anziana e delusa si sia lentamente distaccata da lui e rifugiata nell’alcool: “In viaggio quelle bottiglie mi facevano compagnia; più di come possa farlo il vino per conto suo. Diventavano la parte più gentile di mia madre, la prova consistente e silenziosa della sua presenza e di un affetto segreto. Le lasciavo sul tavolo come avrei lasciato le mani di mia madre se ancora tra noi fosse stato possibile un saluto. Le bottiglie restavano sul tavolo tutta la notte e spesso mi addormentavo pensando a loro, come a mia madre giovane e indulgente, vestita di scuro e riservata.” (pag 206).
Solamente quando egli resterà deluso dalla fabbrica, dapprima idealizzata e desiderata a costo di continui patimenti come luogo dell’integrazione e del riconoscimento sociale, quando verrà progressivamente allontanato e ridimensionato nelle sue aspettative, solamente allora il protagonista sarà capace di minuziose osservazioni dell’ambiente che lo circonda, di una fredda analisi della situazione e di una tragica consapevolezza: “Infatti nei reparti la smania dei premi, dei passaggi di categoria, e l’ambizione di essere benvoluti dai capi portano sempre tutti a rimettere ogni giudizio, ad assumere quasi la difesa dell’interesse dell’azienda anche contro il proprio e quello degli altri che lavorano. Quanto sbaglia la gente, ad ogni livello, che crede di diventare una parte della fabbrica. In quel momento, la fabbrica conta per loro e più di loro; così cominciano tutti gli sbagli che si possono fare contro la propria vita.” (pag 210); “Il luccio era fermo un attimo per finire la sua preda; lo vedevo quasi emergere dalla prima superficie. Il suo occhio era dritto nel mio ed era l’occhio di un assassino sorpreso, che non ritira il coltello. Prima di fuggire doveva inghiottire l’altra creatura, della quale in quell’attimo rimasero appena le scosse nell’acqua. (…) Non c’era nulla da fare, anche per me; anch’io muovevo soltanto l’acqua destinato alla fine.” (pag 173)
Per Volponi il romanzo è una difficile presa di coscienza, ma possibile anche da parte di un personaggio immerso nei suoi sogni e proiezioni. Nella Vegetariana la ragazza psicotica è arrivata fin dall’inizio alla fine di un percorso e ha fatto una sua scelta radicale; sono gli altri personaggi che, nell’incontro con lei, hanno l’occasione di capire meglio il mondo e di mutare almeno qualcosa di sé.

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