mercoledì 13 dicembre 2017

Petrovic di Underground, uno scrittore che non scrive ma ascolta

Ci troviamo fra i numerosi corridoi intersecantesi di una grande casalbergo alla periferia di Mosca negli anni di transizione fra il passato sovietico e la Perestrojka, in un periodo di carenza abitativa e di passaggio alle privatizzazioni di spazi, come questo, fino ad allora almeno in parte considerato riparo per senzatetto e gente di passaggio: corridoi che, nella dilatazione della loro immagine, diventano immagine del mondo intero (p 28). “Attualmente ho il dono di percepire, anche attraverso le porte, l’odore robusto che si spande, che stilla dai fragranti metri abitativi e il viceversa debole, e ahimé effimero segnale, che dalla loro superficie promana la sostanza uomo. (…) Io li vedo. Li percepisco (i metri quadri) al di là del muro e della porta: avverto i loro odori.  Li aspiro e li riconosco. Odorosi metri abitativi, sono essi ormai a costituire per me il volto sfaccettato del mondo.” (p 30-31)
Il narratore-protagonista dal nome dimezzato, solo patronimico, Petrovic, di Underground ovvero un eroe del nostro tempo (traduzione italiana Jaca Book, Milano 2012), capolavoro dell’autore russo Vladimir Makanin recentemente scomparso, è uno scrittore che ha smesso di scrivere non essendo mai stato pubblicato, ritiratosi ai margini della società come semialcolizzato clochard filosofo, che sbarca il lunario rendendosi utile nella grande casalbergo in qualità di guardiano ora di questo ora di quell’appartamento lasciato vuoto temporaneamente dai proprietari. Nella sua posizione di saltuario custode, aiutante di anziani e donne sole in difficoltà, egli si guadagna il rispetto degli altri (salvo rischiare di perderlo in alcuni momenti critici delle privatizzazioni, quando abusivi e senzacasa fino ad allora tollerati vengono buttati fuori): “Il mio status riconosciuto di guardiano già mi trasformava; in particolare il viso e l’andatura. (Proprio allora ho cominciato a percorrere i corridoi a passo lento, misurato, tenendo le mani in tasca). Curiosamente, a partire dal momento in cui mi sono scoperto guardiano e qualificato come tale, la gente ai vari piani della casalbergo ha cominciato a considerarmi scrittore. Come spiegarlo? Qualcosa è scattato in loro (nei loro cervelli). Ormai ai loro occhi ero lo Scrittore, vivevo da Scrittore. Eppure sapevano e vedevano che non scrivevo una riga. A quanto pare uno scrittore poteva farne a meno.” (p 190). 

lunedì 13 novembre 2017

Intervista su "Ventriloquio della crisi"


Una breve intervista fattami a Roma a settembre durante il Festival Inquiete.
Per ascoltare  clicca qui


domenica 12 novembre 2017

La psicanalisi e altri costumi secondo Alessandra Saugo

Provo a pensare come poesie alcuni brani contenuti nell'ultimo libro di Alessandra Saugo, Metapsicologia rosa (Feltrinelli, Milano 2017): poesie in prosa. Immagino che come poetessa in prosa Alessandra avrebbe avuto numerosi sostenitori e recensori.
Riporto questo brano, che ben riflette un'insofferenza nei confronti della razionalità espositiva normata e consuetudinaria preferendo l'azzardo sintattico, il neologismo, la trasgressione: "Dottore, che decadente orrore, a Parigi toponimo italianizzato, non sa la lingua, degrado luogo comune ignorante, mio, dio povero, che stanca di immaginare senza avere neanche le basi, no basi, no minimo nozionismo come fare a sognarsi cose pariginamente, senza una minima fiducia, mi mancano le basi dottore, la grammatica, non ci credo neanche un po', alla grammatica parigina, la grammatica sognina, romantichina, tintinnante tritamente di pioggerellina e che c'è lui l'imperatore della pioggerellina (devi essere vorace) (e intimidita) (tramortita dalla fame) (forsennata, e cauta) (devi adorare) (devi comunicare questa fame, a me) (fammela sentire) (devi comunicare) (questa fame) (muoviti) (devo sentirti) (sull'orlo del baratro) (graziata) (devi essermi grata che ti sfamo) (ti faccio questa carità) (di carne cambiata e cresciuta e impadronita) (perché devo vedere) (i tuoi veri occhi) (me li devi consegnare) (guardami) (non nasconderti) (guardami) (anima mia) (voglio vedere) (che ti bagni gli occhi) (per me) sì, muti, guardarsi, come due ciliegi, in fiore, nella palla di vetro capovolta, del nostro microclima..." (pagg 54-55).
Il difficile ma ineludibile rapporto con lo psicanalista è il tema dominante di questo mémoir, edito da Feltrinelli fuori collana. Ho trovato acute e calzanti alcune pagine dove si descrive diffusamente l'analista, lo studio, la sala d'attesa e questioni annesse e connesse.

lunedì 6 novembre 2017

Difficili tangenze

Mi accorgo che sono sempre più difficili, non dico gli incontri, persino le tangenze, i punti, i margini in comune.
Difficile il dialogo con gli sperimentatori anni novanta, manieristi del basso, ma pure con i barocchi fuori tempo massimo, manieristi dell'alto; con le dame salottiere, benché virtuose e sorridenti con le ferree dentiere, ma anche con le emergenti travolgenti, le più inavvicinabili: siderali.
Di un altro mondo, i cavalli vincenti, i fiori all'occhiello ben visti dall'occhio del Grande fratello. Ma pure i quattro amici al bar, gruppo esclusivo, impenetrabile peggio di un club per soli uomini.
I giornalisti-narratori dell'oggi, che hanno rubato la scena ai cattedratici criptici critici dialettici dantisti novissimi e postmoderni, hanno occupato le tivù e non si occupano più di quella cosa medievale, da incunaboli, da amanuensi, da spleenetici che si chiamava letteratura
Tangenze parallele?
Resta, forse, qualche bordo sfrangiato.

lunedì 30 ottobre 2017

La studentessa bambina

Un mio racconto degli anni novanta in relazione al tema delle baronie universitarie


Invece, di fatto, sono sola come un cane nella facoltà di lettere e filosofia senza le porte per entrare e senza neanche le porte per uscire. Con qualche strada che va a qualche ora nella facoltà murata, cammino verso la facoltà, si direbbe vita, invece non lo è perché gli appunti tirati giù sono monumenti alla ripetizione e penne di pappagallo. Alessandra Saugo

... In una città straniera, estranea a tutto... avvolta nei pochi stracci dei miei lutti... quasi una mendicante: notte, dammi la tua moneta di silenzio...
Perché sono sempre in viaggio? Qual è il mio nome? Esiste un nome al quale io possa rispondere? Esiste qualcosa per cui valga la pena essere chiamati? Io non sono nulla... Non ho neanche ricordi, neanche un luogo da cui provenire... Ah sì, c'è qualcuno che abita con me questo angolo sporco: è uno dei miei amanti. Sta ancora qui perché non sa dove andare. Intanto io non li distinguo, per me può restare. Può anche invecchiare qui, se vuole, e diventare infelice proprio dove lo sono io. Tanto non me n'accorgo, e neanche lui si accorge di me. Neanche gli amanti m'appartengono più.
Eppure qualcosa sono venuta a fare in questa città straniera. Sì, a prendere appunti. Seguo il corso di un professore all'università. E di che cosa si occupa? Di una teoria tutta sbagliata. Perché lo sto seguendo? Mi piace, a volte, ascoltare la voce delle persone. Al mattino vado in facoltà ad ascoltare voci: faccio la spesa di voci... La spesa? E chi mi mantiene? Parenti in pensione. Loro hanno lavorato tanto tempo fa, e hanno anche vissuto. Io non ho lavoro né casa. Sono una studentessa, un'eterna bambina-che-impara. E' strano: sono una bambina pur non essendo figlia di nessuno. Non sono quasi mai stata figlia. I miei non li ricordo: sono morti prima che li potessi ricordare. Gli amanti non li ho mai guardati in volto. D'altronde, non sono neanche una donna: uomo a me stessa, donna a me stessa, quando è il caso.

martedì 24 ottobre 2017

Il caso Asia Argento e le forche caudine delle relazioni col potere

"Hollywood è quella roba lì," si sente dire in giro. Probabilissimo. Non si viene riconosciuti attori, non si ottengono delle parti tramite concorso a Hollywood come in altre parti del mondo. Taciamo dei concorsi, trascurando le molte cose emerse in materia, e andiamo avanti. "Nei miei anni d'oro avevo la fila di donne e di uomini pronti a venire a letto con me pur di lavorare..." dichiara Lele Mora in una recente intervista. Da una parte la rapacità sessuale, l'egocentrismo, la vanità di taluni privilegiati; dall'altra l'opportunismo oppure la debolezza o l'essere indifesi di molti.Tolto il potere dei pochi, ecco che sparirebbero subito anche cortigianeria, adulazione, meschinità di tanti, così come il sacrificio di alcuni più giovani e ingenui. La rivoluzione francese insegna pur qualcosa, ma non sono questi tempi di rivoluzione o insubordinazione, quindi i racconti di ingiustizie, sopraffazione, molestie e vari tipi di violenza persino sul luogo di lavoro inondano il web. 
Una piccola aggiunta relativa all'ambiente intellettuale-artistico. Anche qui non si viene riconosciuti scrittori, poeti o artisti tramite concorso (in ogni caso si è parlato in termini negativi persino dei concorsi universitari). Anche qui troviamo uomini di potere che presumibilmente saranno circondati dalla loro cerchia di amici, adulatori, sostenitori, sinceri o meno sinceri, poiché il potere ha comunque bisogno di continue conferme per alimentarsi. Per esempio, un critico pur affermato avrà sempre bisogno di essere invitato a convegni, eventi pubblici di rilevo, di essere citato in relazione alla querelle di cui si è parlato tutta l'estate, di essere pubblicato da editori non del tutto sconosciuti, di essere ricordato nelle pagine culturali in vista o nei siti più frequentati. Anche l'uomo di potere dipende dal sostegno degli altri. Tuttavia, dopo molte riconferme, possiamo immaginare che alcuni raggiungano posizioni ragguardevoli, simili a quelle di presidenti, di capi di Stato e personalità varie all'apice delle gerarchie. Qui la scena che si presenta a chi aspira ai loro favori non sarà magari quella del divano e della suite di lusso, come nel caso di un magnate di Hollywood, ma la situazione che implicitamente si prospetta non mi pare molto dissimile. Col potere bisogna andare a letto. In altre parole, bisogna compiacerlo. Non vi sono molte possibilità. O si sta all'opposizione, che ha costi umani molto alti, come la totale esclusione o la poca considerazione (difatti è una strada prescelta da una minoranza perlopiù destinata alla sconfitta) oppure quella è la situazione.

domenica 22 ottobre 2017

Necrologi di Nadia Agustoni

poi si deve vivere

1
uno entra col fucile nel reparto. il factotum del padrone viene dalla caccia. si dà arie con tutti quanti. a casa ha una pistola. sempre armato. domenica caccia al negro e lo dice forte. la razza è il sangue. bisogna pulirsela dentro. si fa bello con l’impiegata. le spiega che spara alle lepri e ai fagiani. non li raccoglie nemmeno. gli basta sparare. ai suoi la selvaggina non piace. parla dei negri. ne arrivano come le frotte degli insetti. pesci mezzi morti i negri e gli operai morti di fame. non si spiega niente agli operai. nascono fottuti. la povertà gli sta dentro. ci guarda come il suo cane. gli occhi sono due cani anche loro.
2
va a dire tutto al padrone. lo chiama per nome. gli mette la mano sulla spalla. passano nel reparto. dicono dov’è l’africano, dov’è quello lì. deve lavorare di fuori. spianare la ghiaia. chiama una ragazza grassoccia. prendi in mano la carriola. va a tirare su la carta nel cortile, lo sporco. pulisci insieme al nero. se ti tocca lui bene, tu misuralo. ridono.
3
vomitare, stancare le braccia a non portargliele contro. parlano parole di grandine. dei malati di mente. le cose così dure le impariamo un giorno e un altro giorno. le impariamo come nuove. lo stesso male delle prime volte è un male sempre. ci scoppiano i polsi, le vene. aumentiamo il ritmo a non rispondere. bisogna fingere di stare tranquilli. la morte a rate senza scadenze quando poi si deve vivere.

Tratto da I necrologi, La Camera Verde (Roma 2017)
Pubblicato su Nazione Indiana il 17.10.2017

sabato 15 luglio 2017

Altri versi

Frammento di un discorso antispecista di Gino Ditadi

"Il mondo è cominciato senza l'uomo e finirà senza di lui. Le farfalle multicolori vivono un solo giorno, ma sono sulla Terra da ottanta milioni di anni. Forse sono gli umani ad essere effimeri. Forse sono gli umani ad essere effimeri, ma se nel loro percorso potessero lasciare più bellezza e giustizia di quanto ne hanno trovata, tutto avrebbe senso, nell'oceano rivestito di stelle in cui siamo immersi."

(Gino Ditadi, in AAVV Altri versi. Sinfonia per animali a ventisei voci, Oltre la specie, Milano 2011) 

mercoledì 5 luglio 2017

Intervista a Mariano Baino. Solo domande

Alcuni anni fa, in occasione dell'uscita del libro in (nessuna) Patagonia, rivolsi alcune domande all'autore, rimaste senza risposta per impegni sopraggiunti.

1 Mariano, nel tuo ultimo libro dal titolo in (nessuna) patagonia (Ad est dell'equatore, Napoli 2014) ti consideri in esilio, ma già nell'Uomo avanzato, che racconta un naufragio su un'isola deserta, ti accosti al tema dell'esclusione dalla società… Si può dire molto genericamente che là il discorso sia in chiave più esistenziale, qui più politica…

2 A livello profondo probabilmente entrambi i testi sono dettati dall'amarezza derivante dalla contemplazione del mondo contemporaneo. Pure nell'Uomo avanzato (Le Lettere, Firenze 2008) il contesto politico mondiale, lasciato sullo sfondo, è inquietante, da incubo. Si allude a guerre nel passato e nel futuro, a esperimenti nucleari, a catastrofi sospese, sebbene il presente abbia l'aspetto di una confortevole crociera…

3 Credo che tu sia uno scrittore della solitudine moderna e postmoderna, poiché questo tema nei tuoi testi è ampiamente modulato. Perfino nel romanzo Dal rumore bianco (Ad est dell'equatore, Napoli 2012), che si presenta attraversato da varie storie e personaggi, il protagonista commissario Ingravoglia è modellato sull'Ingravallo del Pasticciaccio gaddiano, un introverso, un solitario. Fra i personaggi del libro compare anche un bambino autistico, un'altra metafora dell'incomunicabilità (non che il personaggio di un romanzo sia semplicemente una metafora, è un abitante del libro, ma può assumere per noi lettori quel significato).

giovedì 15 giugno 2017

Errori politici e trappole della psiche. Un'analisi dello psicanalista Adriano Voltolin di aspetti del fenomeno brigatista

Non si può dire che Adriano Voltolin nel Giuramento di Annibale (Mimesis, Milano 2017) faccia la psicanalisi di singoli componenti delle Brigate rosse, non avendoli né conosciuti personalmente né tantomeno avuti in analisi. Intanto ne inquadra le azioni nel contesto storico e sociale di appartenenza, nel contesto delle idee che attraversavano in quegli anni pieni di fermenti sia la sinistra sessantottina sia i gruppi più tradizionali della Partito comunista e della Chiesa cattolica. Nonostante l’apertura degli orizzonti e lo slancio verso grandi cambiamenti propri della contestazione alla politica colonialista, dei movimenti terzomondisti, del Concilio vaticano secondo, il governo italiano era bloccato dall’egemonia dello stesso partito conservatore, la Dc. In ambiente cattolico, per esempio, dove pure si respirava aria nuova, vigeva per certi versi una specie di psicosi d’assedio nei confronti dell’ideologia comunista.
Quanto più la situazione appare bloccata, tanto più si riduce la possibilità della mediazione, del dialogo, dell’opposizione ragionata in base a cui trovare soluzioni condivise. Questo, il punto di partenza. Scrive Barbara Balzerani: “… l’arretratezza di un paese bloccato ci ha consentito di nascere, durare più di un decennio, condizionare e attrarre consenso. Come non fossimo in uno dei paesi del ricco occidente ma sui monti di qualche Sierra.” (Perché io, perché non tu, DeriveApprodi, Roma 2009, pag 90). Nella vita del singolo individuo la reazione di fronte alla mancanza di ascolto delle proprie esigenze si può tradurre in quello che si chiama “attacco al legame”. Nella teoria di Melania Klein e di Wilfred Bion, psicanalisti che si sono soprattutto concentrati sul rapporto preedipico con la madre, quindi sul funzionamento della parte più arcaica dell’inconscio, se la madre non si mostra sufficientemente buona e capace di una reverie tale da restituire in forma tollerabile per il bambino la sua insoddisfazione, dovuta a una profonda invidia rivoltale in quanto seno nutritivo, se la madre respinge, non capisce o non riesce in maniera sufficiente a rispondere con una psiche aperta a questo remoto, profondo rancore, e se il bambino da parte sua non possiede una minima tolleranza alle frustrazioni anche contingenti (capacità negativa), il rapporto diventa infernale, ovvero la guerra, l’ostilità dichiarata, la contrapposizione totale. Ogni tentativo di avvicinamento risulterà impossibile, vissuto come un’aggressione da parte di un nemico. Per cui i tentativi di ricomposizione, le persone che si presentano come mediatrici vengono respinte o aggredite loro per prime. Nell’attacco dei brigatisti  al potere vigente, secondo Voltolin, non a caso venne scelto come bersaglio Aldo Moro, proprio perché rappresentava il compromesso, l’elemento di mediazione fra un blocco conservatore molto rigido e un’opposizione debole e contestata; così come durante il fascismo un’azione dei Gap aveva colpito Aldo Resega, un membro dell’ala moderata del fascismo meneghino, “quella che cerca la ricomposizione del blocco borghese” (Voltolin, pag 148).
Un altro meccanismo psicologico che ha giocato un ruolo decisivo negli anni di piombo è stato il richiamo a un’epoca ideale della storia sconfessata dai compromessi e dalla mediocrità del dopoguerra, richiamo che si traduceva per diversi individui nell’identificazione in una figura di padre idealizzato. La storia era cambiata velocemente e i padri veri e propri non potevano più svolgere quel ruolo di guide posseduto nella società contadina; si mostravano deboli, inseriti nel meccanismo alienante del lavoro industriale, contestati dai figli ribelli, ma spesso non mancavano nelle famiglie più politicizzate nonni o zii forti e leggendari, custodi di una storia nobile e gloriosa (la Resistenza, le lotte del movimento operaio), traditi dal presente. Il tema del padre da vendicare (esplicitato nel volume di Voltolin nel titolo stesso, che richiama il giuramento fatto da Annibale al padre Amilcare contro i romani), della Resistenza tradita o, in campo cattolico, del Vangelo tradito a causa degli enormi compromessi in cui si dibattevano i principali istituti eredi della Resistenza, diventa l’obiettivo fondamentale della lotta armata, sia per i componenti di formazione marxista sia per quelli d’ispirazione cattolica.*

venerdì 5 maggio 2017

Intervista ad Angelo Ferracuti

Dopo l’intervista a Christian Tito, alcune domande ad Angelo Ferracuti, amico di Luigi Di Ruscio e curatore dell’edizione feltrinelliana di tutti i romanzi del 2014.


Angelo, tu sei un concittadino di Luigi Di Ruscio, operaio-poeta emigrato in Norvegia negli anni cinquanta e vissutovi fino alla scomparsa nel 2011. Sei riuscito a conservare con lui per lunghi anni un rapporto di reciproca stima e amicizia nonostante la lontananza. Vuoi raccontarci un aneddoto che ti piace ricordare della vostra lunga amicizia?

Ho conosciuto Luigi nel 1976, che ero un ragazzo, ma ne avevo sentito parlare sin da bambino perché emigrò con i miei zii a Oslo negli anni cinquanta, appartiene a un pezzo della mia mitologia famigliare. Cercavo una mia strada per la scrittura e a Fermo incontravo Luigi Crocenzi, il fotografo del Politecnico, Joyce Lussu, la traduttrice di Hikmet e una delle figure di spicco della Resistenza,  e anche lui quando tornava d’estate dalla Norvegia. In quegli anni aveva pubblicatIstruzioni per l’uso della repressione da Savelli, la sua poesia era al centro di un forte interesse da parte dei critici maggiori. Non sempre con Luigi le cose erano facili, soprattutto sulle questioni legate alla politica e all’ideologia, aveva anche un carattere forte, ma sono riuscito a mantenere con lui sempre un rapporto molto franco e affettuoso, cresciuto negli ultimi anni. Nel 1987 feci il mio primo viaggio di nozze in tenda canadese in Scandinavia, e quando arrivai a Oslo lo cercai, con sua grande sorpresa, e poi lo raggiunsi a casa sua in via Aasengata 4c. Passammo insieme dei giorni molto belli, accompagnò me e mia moglie al Vigeland park, all’Orto botanico, nei suoi luoghi, insomma. Quel Paese mi affascinò moltissimo, e sette anni dopo uscì il mio primo libro, una raccolta di racconti, che si intitolava appunto Norvegia. Credo che se non ci fosse stato lui non avrei mai scritto quel libro, e la sua condotta – a uno come me che viene dal basso ed è arrivato alla letteratura per vocazione – mi ha dato sempre una grande forza. Me ne rendo conto solo adesso che sono passati tanti anni.

Una vita di lavoro, quella di Di Ruscio, che fu occupato per una quarantina d’anni in una fabbrica di chiodi. Spesso la fabbrica nelle sue poesie è descritta come una realtà molto pesante da sopportare, per diversi aspetti disumana, cui Luigi contrapponeva una grande vitalità e la sua purezza di cuore. Poteva bastargli una corsa in bicicletta e la contemplazione della natura per rigenerarsi dopo un turno di notte. A me pare che sia stato una persona con grandi doti di carattere. Sei d’accordo?

sabato 29 aprile 2017

"Ha un brutto carattere"

Non mi convince il discorso che attribuisce la poca visibilità di un autore o il suo isolamento o la sua mancanza di successo al "cattivo carattere". E' vero che "lo stile è l'uomo" e quindi anche gli elaborati degli scrittori recano traccia dei difetti e limiti di ognuno. Ma, considerata l'immensa quantità degli autori della letteratura, si può supporre che tutti abbiano avuto un bel carattere? Eppure sappiamo di personalità scontrose, bizzarre, anticonformiste oppure narcisiste, egocentriche, maniacali, nevrotiche, psicotiche, polemiche e così via. Francois Villon per esempio, nel corso della sua burrascosa vita, fu anche un assassino. Dovremmo applicare la stessa condanna ed emarginazione di cui fu oggetto nella vita anche nella letteratura? Non dovremmo leggere La ballata degli impiccati e le altre sue opere?
Bisogna intendersi poi con l'espressione "buon carattere", spesso associata all'indole docile, obbediente e accomodante. Tipica di chi non crea problemi, insomma, non dà fastidio.
Il cattivo carattere invece è attribuito generalmente a chi si oppone, non ci sta, s'impunta, si ribella, non fa comunella oppure si allontana dal gruppo, prende le distanze.
Poiché uno scrittore è anche un critico che compie delle scelte, segue un suo percorso e non ne segue altri, cerca se stesso, inevitabilmente non potrà andare d'accordo con tutti e adeguarsi ai percorsi di tutti gli altri.
Va constatato che la mentalità più diffusa è quella gerarchica, ereditata da società dal passato e dal mondo animale (presente ancora nei primati non umani). Vige tuttora un racconto giornalistico, politico e storico improntato al personalismo, che fa continuo riferimento a figure umane di spicco e di maggior potere, ai vertici di partiti, di aziende, di gruppi che condizionerebbero il dinamismo collettivo. Si comprende come la strada più facile per essere riconosciuti, o la meno costosa in termini di dispendio di energie, sia quella dell'alleanza o della subalternità a chi ha già raggiunto una posizione.
Ma spesso è chi percorre nuove strade o non si accontenta che arricchisce culturalmente la società.
Inevitabilmente si conferma il detto attribuito ad Ennio Flaiano: "Chi ha carattere ha un brutto carattere".
Viva dunque i "brutti caratteri" perché aiuteranno a cambiare il mondo!

giovedì 20 aprile 2017

Elementi carnevaleschi in Ventriloquio della crisi

La prima volta che nel Ventriloquio, narrazione umoristico-satirica dell'Italia dagli anni novanta a oggi, si accenna al tema dei parchi di divertimento è in riferimento a quel periodo di euforia che succedette al crollo del muro di Berlino, accolto con grandi festeggiamenti nella Germania riunificata: "Andavano in gruppo in Germania a festeggiare e quella si era trasformata in un grande lunaparc, dicevano, con discoteche che andavano di giorno e di notte e le belle donne che lavoravano senza quel coso... come si chiama? mi avete capito. Nello stesso tempo in Germania si davano tantissimo daffare e le discoteche erano anche fabbriche e viceversa, perché si faticava cantando e ballando per la felicità di essere nella Germania unita. E tutti appunto correvano là a lavorare, oltre che a divertirsi, da tutti i Paesi intorno. E c'era andato pure il marito di mia nipote Maruccia a vedere di persona, ché il mondo stava cambiando e non si poteva perdersi lo spettacolo.
Era proprio così come raccontavano: gli uomini facevano le acrobazie per guadagnare di più e le donne camminavano sul filo per spendere di meno. E poi tutti si spostavano, nessuno stava fermo, ognuno voleva cambiare la sua vita.
Nell'euforia generale qualcuno diceva che tutto stava andando per il meglio pure in Italia, le ricchezze aumentavano  e potevamo pure permetterci di non pagare le tasse." (pagg 16-17).
E' la festa del capitalismo trionfante e il suo mito che il lavoro sia un grande divertimento collettivo. Ritroviamo l'associazione fabbrica-discoteca là dove si parla del Billionaire di Briatore:"In Sardegna c'era un altro importante imprenditore e uomo di mondo che andava forte e aveva aperto una discoteca più grande di tutte le discoteche. Lì dentro ballavano le ragazze con gli uomini più ricchi d'Italia, d'Europa e addirittura del pianeta! Si occupavano tutti di macchine o di motori o di iòct o di vestiti di lusso, e ballando facevano anche gli affari: scherzando allegramente le producevano pure, le fuoriserie e i pezzi unici. A passarci lì una serata qualcuno poteva anche pensare che l'Italia era tutta una discoteca danzante di produzione…" (pag 63).
Finito l'idillio degli anni novanta, in un passaggio sulla Cina, si accenna a piscine inserite dentro la fabbrica per favorire la ricreazione dei lavoratori chiusi dentro: "Non sapeva che invece in Cina morivano addirittura per il troppo lavoro, altroché paradiso terrestre… Non riuscivano più a uscire dalla fabbrica (gli avevano fatto pure la piscina dentro per farli svagare fra un turno e l'altro, come premio per lo straordinario), avevano eretto reti metalliche intorno ai reparti per non farli gettare nel vuoto o fuggire, ché fuggire era come suicidarsi. Dovevano imprigionarli e legarli alle macchine perché tutto il lavoro era migrato in Cina, da tutti i Paesi del mondo, e qui non ce n'era più, nemmeno a cercarlo nei buchi dei tombini o sui tetti dei palazzi. Là si suicidavano per la fatica, qua per la noia di non avere niente da fare… Era tutto un suicidio collettivo." (pag 75).

lunedì 17 aprile 2017

Intervista a Christian Tito

Christian, tu hai dimostrato di essere una persona versatile e creativa in vari ambiti, dalla scrittura alla cinematografia alla musica. Com’è stata la tua formazione?

La mia formazione è stata esclusivamente legata alla soddisfazione della curiosità e dell'innata passione, da fruitore, per l'altrui arte. Non ho fatto nessun percorso accademico; posso dire che le mie espressioni artistiche sono state alimentate da continue e inesauribili fonti dirette assorbite e poi filtrate attraverso la strutturazione della mia identità e sensibilità.

E’ interessante notare che nonostante i molteplici interessi in campo letterario e artistico, tu svolga un lavoro di routine in una farmacia. Com’è avvenuta questa scelta lavorativa?

E’stata una scelta conseguente al mio percorso di studi scientifici di cui non sono pentito. Ho studiato Chimica e Tecnologie Farmaceutiche all’Università di Bologna, un percorso affascinante che può aprire e sollecitare molto la mente. Nello stesso tempo vivere Bologna negli anni novanta da studente amante anche dell’arte è stato un privilegio notevole, non solo per le occasioni che offriva di assistere a eventi, concerti, mostre ecc..., ma anche perché era ed è una città che emana un’energia creativa difficilmente riscontrabile in altri luoghi e favorisce incontri e scambi molto stimolanti. Una volta terminati gli studi ho scelto di lavorare in farmacia poiché, tra le varie possibilità che la mia laurea offriva, mi piaceva l’idea di restare a contatto con la gente, di lavorare col pubblico, fattori per i quali mi sentivo predisposto e che possono offrire occasioni di crescita umana. Non è pensabile in questo Paese e in questi anni di crisi economica, ma forse non è pensabile in assoluto poter sostenere se stessi e i propri figli (ne ho due) con le forme d'arti con cui mi esprimo io soprattutto perché, non per scelta, ma per vocazione, sono sempre espressioni poco commerciali o commerciabili. Come autore bisogna tenere conto con realismo che la poesia generalmente di soldi te ne fa perdere e mai guadagnare (ad eccezione di massimo una dozzina di nomi in Italia); la musica che suonavo (ho suonato in una rock band quando ero studente all'università), nella migliore delle ipotesi, assicurava divertimento, qualche birra gratis e tentativi più o meno falliti di risolvere le nostre nevrosi di ragazzi un po' problematici; venendo al cinema, se consideri che registi che per me sono fondamentali riferimenti quali Herzog, Kaurismaki, Kieslowski o, molto più di nicchia, come Vittorio De Seta, e che io ho solo girato cortometraggi con mezzi poveri da presentare al massimo in festival del settore, capisci bene perché finisco col fare tutt'altro lavoro. Però l’attività che svolgo, quella che mi consente di pagare le bollette, il mutuo ecc..., non è così di routine, dipende molto dal modo in cui la si interpreta e, se ho dato l'impressione che lo fosse, me ne dispiaccio, perché i problemi che ho avuto non sono stati con questo lavoro, ma proprio di rapporto col lavoro in generale e non certo per pigrizia. Nel tempo, attraverso un percorso di analisi, sono riuscito a modificare questo grumo che mi ha dato grande sofferenza e a trovare piacere nella mia attività trovandovi anche molte fonti d'ispirazione per l'arte.

domenica 2 aprile 2017

Note a margine di "Ventriloquio della crisi"

La voce narrante di una vecchietta arteriosclerotica racconta in un flusso quasi inarrestabile a un coro di pensionati ascoltatori e commentatori le alterne vicende di figli e nipoti fra squarci umoristici e visioni drammatiche dell’Italia di questi anni.
Ne risulta un confronto con la storia del presente espresso in un linguaggio teso come un elastico, pieno di contorsioni, lapsus, trasgressioni, improvvisi abbassamenti e innalzamenti di senso, con continui slittamenti di piano dalla narrazione della vita vissuta al discorso mediatico che l’avvolge e stravolge, restandone a sua volta variamente rimasticato e triturato.
Così, la quarta di copertina del libro.

Nel frullatore della voce narrante che appartiene alla vecchietta arterioscheletrica, come si definisce lei, vengono assorbiti pezzi del linguaggio mediatico di televisione, pubblicità, talk show (qui chiamati talc sciò, dove talc rimanda alla parola 'talco', come a dire trasmissioni senza talco, senza profumi, dove i discorsi sono più nudi e crudi che altrove), notiziari che continuamente riferiscono le vicende del parlamento, trasmissioni molto popolari come Grande fratello, Isola dei famosi, ma anche Isola dei cassintegrati, Vieni via con me, Ballarò, Annozero. Perché la vecchietta narratrice e protagonista, pur essendo circondata perlopiù dai pensionati della casa di riposo, durante le lunghe ore della giornata, cerca anche di sintonizzarsi sui programmi seguiti dalla figlia che più la va a trovare, la figlia ribelle e meno conformista, quella rimasta senza famiglia e senza lavoro regolare, Oxavia, la quale spesso commenta con lei i fatti d'attualità. La vecchietta, pur nel suo distacco di anziana un po' svanita in casa di riposo, è continuamente in relazione-dialogo con gli altri abitanti del pensionato così come coi figli e con la realtà in cui i figli sono completamente immersi: problemi di lavoro, di casa, di figli adolescenti e così via.
A una prima parte, primo capitolo, in cui le questioni familiari sono maggiormente assillanti, poiché i giovani sono ancora in cerca di una sistemazione e realizzazione lavorativa e affettiva, segue una parte in cui i discorsi si dilatano e acquistano complessità, sempre nel dialogo e nel continuo rimando delle parole della figlia e di coloro che la circondano (a pag 148, per esempio, si trova scritto: " 'Sono stufa del mondo al contrario,' fa eco mia figlia (o io sono la sua eco, viceversa)").
Ma la voce narrante è solo un ripetitore di frammenti, seppure talvolta deformati, di discorsi altrui o corrisponde a una personalità definita?

domenica 26 marzo 2017

I fatti di Genova del 2001, guerra in Iraq e Grande fratello nella centrifuga di Ventriloquio della crisi



"Alla fine avevano spazzato via anche l'ultimo dei moicani, sapete quelli con la cresta e con i cani dietro. Non ricordo bene com'era successo: se gli avevano sparato mentre manifestava o l'avevano bruciato vivo su una panchina. So solo che in quel periodo c'era un grande infuriare di telegiornali e si vedeva che li pestavano tutti quanti a più non posso: gli strani e gli stranieri, i moicani con la zazzera e quelli con la testa rasata, i manifestanti tutti colorati e quelli tutti vestiti di nero, i mascherati, gli smascherati e compagnia cantante. Li inseguivano perfino con le camionette su per i marciapiedi per riuscire a bloccarli e a calpestarli in tutte le direzioni.
Più c'erano i pestaggi e gli squartamenti, più aumentava l'audio e la mondovisione. La mondovisione era a tutto campo e ci spiazzava da ogni parte. Il mondo era uno sconquasso e una visione continua di bombardamenti, di strazi e di sculettamenti perpetui, ché gli sculettamenti in special modo si dimenavano sopra tutto, anche nei giochi che trasmettevano all'ora di cena e anche nelle letterine dell'alfabeto. Quelle che erano più di moda erano le veline, donne molto vellutate e leggere, sempre danzanti e svolazzanti come dei veli appunto; ma erano anche le notizie del telegiornale, che arrivavano sempre all'improvviso, quando meno te l'aspettavi, ed erano disgrazie che volavano sempre dappertutto, come la disgrazia di quell'onda gigantesca che ha cancellato un pezzo della Terra, o la disgrazia di sempre nuovi uragani, o il terremoto che è arrivato pure da noi, in mezzo ai paesi nel cuore della notte.
I bombardamenti, poi, erano sparsi qua e là. Ogni tanto qualcuno veniva bombardato in qualche villaggio lontanissimo o in qualche casa poverissima che non avevano neppure da mangiare (e se ce l'avevano, sta' tranquillo che gliel'andavano a strappare). I più sfortunati erano i palestinesi, che si trovavano sempre nel posto sbagliato. Loro in realtà stavano fermi sempre nello stesso punto, per farli stare più fermi li rinchiudevano pure dentro dei muri e nelle prigioni; le bombe li centravano con facilità, anzi forse le bombe continuavano a cadere lì proprio perché erano i più facili da colpire. Gli altri colpiti erano gli iracheni, quasi sempre incappucciati: o erano incappucciati perché avevano rapito qualcuno, o erano incappucciati perché erano loro i catturati e dovevano stare sotto le torture. Sempre un cappuccio avevano in testa, dimodoché non si capiva chi era iracheno e chi no. Poi sono arrivati i pericoli sui treni e nella metropolitana, che sembrava che anche lì sotto doveva arrivare qualche bomba. Ma non è arrivata, almeno da noi. Il tempo di tirare un respiro di sollievo e i treni hanno cominciato a correre in fiamme da soli all'altissima velocità, senza bisogno di una bomba… e ci è arrivato addosso il crollo delle banche e l'inquinamento tossico che non si riesce più a respirare... Dicono che fra poco non avremo più aria e nemmeno acqua, tant'è vero che la conserviamo chiusa nelle bottigliette. (...) 

mercoledì 22 marzo 2017

Una poesia di Christian Tito

         Ho degli occhi strani in questo periodo, simili a quelli di
conigli appesi ai ganci di una macelleria di paese.
        Senza più viscere né pelle racchiudono tutta la forza della
 vita che li ha attraversati in quegli occhi gelidi e severi per chi
 li guarda. Non capisce l’animale eppure sa.


(Christian Tito, Tutti questi ossicini nel piatto, Zona, Arezzo 2010, pag 38).

martedì 7 marzo 2017

Liberamente tratto da un caso di femminicidio

Dal mio racconto "Flash", liberamente tratto da uno dei molti casi di femminicidio (pubblicato nella raccolta Regressioni per la casa editrice Effigie nel 2009) è stato tratto un video con la regia di Giacomo Guidetti e la voce recitante di Francesco Orlando. Lo pubblico qui in occasione di questo 8 marzo che vede la mobilitazione mondiale per uno sciopero molto sentito contro la violenza e l'oppressione esercitata sulla donna.


giovedì 23 febbraio 2017

Scrittori non scrittori

Carlo Emilio Gadda e Primo Levi non si definivano scrittori. Nessuno dei due evidentemente riteneva la scrittura una professione. Scrivevano e basta, secondo l'ispirazione. Gadda, di professione ingegnere, si definiva scrivente e ha lasciato quasi tutte opere incompiute; diversi editori hanno affermato apertamente che oggi Gadda incontrerebbe molte difficoltà a pubblicare. Primo Levi, di professione chimico, ha scritto il primo romanzo d'invenzione, La chiave a stella, da pensionato e si definiva scrittore non scrittore.
Così Primo Levi, a circa sessant'anni, su La chiave a stella: "Questa è un po' la mia opera prima: quando ho scritto gli altri libri, avevo un'altra professione, facevo il chimico. Ma da un anno e mezzo scrivo soltanto. La chiave a stella è il mio primo lavoro professionale...".
I sessant'anni mi fanno venire in mente che pure Italo Svevo, di professione prima impiegato di banca poi imprenditore, mise mano al suo capolavoro, La coscienza di Zeno, quasi a quell'età e lo pubblicò dopo i sessanta appunto.
E parliamo di scrittori, se occorre sottolinearlo, fra i maggiori delle nostre Lettere. Perché rimarcare oggi queste osservazioni? Tutto questo va detto (e altro si potrebbe aggiungere) contro il mito della giovinezza primavera di bellezza, contro il mito della professione di scrittore intesa come carriera pari a quella che uno potrebbe fare nell'industria o nella finanza, da iniziarsi rigorosamente intorno ai trent'anni, altrimenti uno è vecchio e fallito (e ci piace a questo punto ricordare l'affetto che Beckett nutriva per il concetto di fallimento), e da protrarsi finché morte non sopraggiunga continuando a replicare se stessi in prodotti più o meno uguali, sfornando magari un titolo all'anno. Credo più nella creatività talvolta imprevedibile della natura che in quella forzata delle macchine e della produzione industriale.

mercoledì 15 febbraio 2017

Bio in spiccioli: nome e cognome

Il mio nome pieno di r (r come rabbia, r come rancore) e di suoni duri (rt) per molti anni non mi è stato gradito: mi suonava poco femminile, non eufonico, quando tanti nomi femminili sono pieni di l, per esempio, di a, di m. Per giunta Roberta veniva spesso e volentieri associato da chi lo udiva la prima volta alla famosa canzone di Peppino di Capri, che non mi è mai piaciuta.
Il cognome Salardi, al contrario, sapeva di sale, di mare; conteneva richiami ad elementi per me positivi (il sale, appunto, l'intelligenza, il sapore, la romana via Salaria); forse anche all'amaro in bocca (quanto sa di sale lo scender e lo salir per l'altrui scale), che è un amaro però di conoscenza, di esperienza.
Soltanto dopo che ebbi compiuto i cinquant'anni e mia madre gli ottanta, le sfuggì a chi era ispirato il mio nome: un fratello di mio nonno morto giovane nella Legione straniera, un ribelle che non aveva trovato la sua collocazione nei ruoli consueti e che la società aveva in qualche modo allontanato. Dal giorno di quella rivelazione posso assumere il mio nome con orgoglio. Considerato anche il riferimento a Robin Hood e a Robespierre, non posso affatto lamentarmi.
Secondo nome: Marina. E torniamo al mare, al sale amato.

giovedì 19 gennaio 2017

E' in libreria Ventriloquio della crisi

"C'era un gran parlare di un transatlantico sballottato dai venti e dalle tempeste. Questo transatlantico navigava in cattive acque e l'altezza delle onde, come montagne russe, la si poteva constatare e apprezzare (a seconda dei punti di vista) nel grafico dell'andamento delle borse, grafico che era sempre in prima pagina quando scendeva ai minimi storici e come prima notizia nei telegiornali di tutta quella burrascosa estate. Con la paura degli uragani o dei fuochi nella stiva, si facevano grandi manovre per mettere al sicuro i tesori che su quel transatlantico da qualche parte dovevano essere stipati e nascosti. Si manovrava molto e si buttavano giù pesi per alleggerire il carico stracarico, mentre non si poneva limite al crescere delle ricchezze stivate, anzi si doveva far loro sempre più posto nella stiva e buttare a mare un sacco di pesi inutili. 
Dovevamo rimboccarci le maniche e darci un gran daffare per tenere a galla casinò e piste da ballo, piscine, auto di lusso e aperitivi di ogni tipo. E, nonostante quel gran lavorare, stavamo ogni giorno col fiato sospeso per la sorte del transatlantico carico di tesori, di campi da golf e da tennis, di banche e locali notturni e rulètt russe che facevano girare la testa… dove ogni tanto qualcuno, per la gran noia di stare in mezzo a troppi divertimenti, prendeva l'accendino e così, per gioco, dava fuoco ai miliardi: "Oggi bruciati 200 miliardi sul transatlantico Eurozona," scrivevano i giornali, oppure "Oggi bruciati 100 miliardi più di ieri"!
Ogni tanto qualcuno scendeva nella stiva a guardare: ma c'erano ancora le ricchezze?
Oltre che a un grosso animale col naso schiacciato per essersi buttato a capofitto nel mare, l'Europa somigliava ogni giorno di più a un luogo pieno di divertimenti paurosi e pazzeschi." (pag 116)


Quarta di copertina

La voce narrante di una vecchietta arteriosclerotica racconta in un flusso quasi inarrestabile a un coro di pensionati ascoltatori e commentatori le alterne vicende di figli e nipoti fra squarci umoristici e visioni drammatiche dell’Italia di questi anni (l’I-taglia che ti taglia). 
Ne risulta un confronto con la storia del presente espresso in un linguaggio teso come un elastico, pieno di contorsioni, lapsus, trasgressioni, improvvisi abbassamenti e innalzamenti di senso, con continui slittamenti di piano dalla narrazione della vita vissuta al discorso mediatico che l’avvolge e stravolge, restandone a sua volta variamente rimasticato e triturato.


(Roberta Salardi, Effigie, Pavia 2017)

domenica 8 gennaio 2017

Anatomia di un best-seller

La vicenda della protagonista colta e intelligente del romanzo di successo Maestra di Lisa Hilton (Londra 2016; Longanesi, Milano 2016), che nonostante le brillanti qualità intellettuali non riesce ad utilizzare gli ascensori sociali attualmente esistenti (scuola, stage, ambiente artistico) e, al contrario, scende moralmente sempre più in basso, fino a diventare da stagista entraineuse, prostituta (seppure d'alto bordo), in ultimo assassina, ci dà ragguagli significativi dello stato delle cose. A una donna intelligente, studiosa, dotata, resta comunque più facile essere apprezzata ed ottenere vantaggi usando le proprie attrattive fisiche che essere riconosciuta per il proprio lavoro. Quella classica della prostituzione può anzi rivelarsi come l'unica strada percorribile. Fin dall'inizio Judith si trova a fare l'entraineuse alcune sere la settimana in un locale di Londra per arrotondare il misero stipendio di stagista in una prestigiosa casa d'aste. Ciononostante, svolge con la massima dedizione e serietà il suo lavoro d'ufficio fino al giorno in cui viene brutalmente licenziata poiché non riesce a nascondere ragionevoli sospetti intorno a una possibile truffa orchestrata dal suo insospettabile principale.