I romanzo della trilogia di Roberta Salardi
TITOLO Il
corpo della casa
Il corpo della casa è strutturato come
una piantina d’appartamento, presentando i capitoli come metafore delle varie
stanze: un corridoio stretto, una stanza da letto, un salotto e così via. In
ognuno di essi la protagonista Martina vive una situazione differente; per
esempio, in Letargo (la stanza da letto) è riportato il
dialogo con un artista suo ospite. Nell’ultimo capitolo, Sgabuzzino/Risposta
della casa, è la casa stessa che parla (ça parle, direbbe Lacan): emerge
l’inconscio nella voce delle pareti, dei tubi… che “rinfaccia” alla
narratrice-protagonista la sua storia, dopo averla triturata, frammentata,
stravolta nel delirio e reinterpretata in forme confuse e molteplici.
A dispetto dei
riferimenti spaziali della struttura, non manca un’evoluzione (o involuzione)
della storia, una trama con i suoi climax e i suoi colpi di scena, che tuttavia
ribadiscono una tendenza alla coazione a ripetere della protagonista. Tutto
comincia con un’esperienza di separazione e un grave lutto, seppure dai
contorni indefiniti e mutevoli; la trentacinquenne Martina deve trovare la
forza di tirare avanti. Pare farcela, tuttavia col puntello di divagazioni schizofreniche.
Improbabili impressioni e vaghe allucinazioni (nel suo caso “terapeutiche) in
qualche modo la sostengono finché un nuovo incontro/confronto con un uomo non
la mette alla prova in maniera dura come in passato. La breve convivenza con
l’artista malato Fulvio la inchioda a un senso d’impotenza e di aridità che la
spinge sempre più in un’area sensoriale-cognitiva diversa dal consueto. Ecco
che prende corpo la sua piccola mitologia domestica fatta di un figlio metà
animale metà vegetale, di voci materne che provengono dalle tubature ecc.
Finché nell’ultimo capitolo la narrazione esplode, così come la logica
razionale che finora in qualche modo ha tenuto insieme il filo del racconto, in
una serie di discorsi dei personaggi immaginari che abitano la sua mente. Nel
labirinto della Risposta della casa si riesce a individuare il filo d’Arianna
di una voce materna che continua a rimproverarla per tutte le scelte della sua
vita e il ricordo, rimosso, di traumi infantili.
II romanzo della trilogia
TITOLO Doppio
diario
In Doppio diario le voci
narranti sono due, quella di una madre cui si contrappone la voce della figlia
in alcune fasi salienti della loro vita, le sole di cui resta traccia nei
rispettivi diari. Ci troviamo così a leggere un testo frammentato e
smozzicato, masticato da due personaggi, più volte interrotto
e in alcuni punti cancellato e riscritto da una delle due narratrici, la figlia
polemica nei confronti della madre.
Rispetto al primo romanzo-diario della
trilogia, il secondo parrebbe proporsi come sua continuazione e imitazione, ma
gli interventi critici della lettrice figlia lo trasformano e lo rendono
qualcosa di diverso. Il secondo romanzo è intrapreso infatti dalla sorella
della narratrice del primo diario-romanzo, che intende riprendere dal punto
dove quello s’interrompeva e continuarlo con la propria storia, ma viene
scoperto in un cassetto dalla figlia adolescente, che vi trova lo svelamento di
segreti di cui era ignara e lascia a margine i suoi commenti. Anche per gli
anni successivi permane l’accostamento delle due scritture, ovvero del diario
materno e di alcune note sparse filiali. Doppio diario dunque,
perché si presenta come copia del primo ma anche perché duplice in se stesso.
Il tema dominante del lutto, della difficoltà di relazione, dell’ansia e
dell’ambivalenza, incentrato in questo volume intorno all’assenza del padre e
alla scomparsa del compagno della madre, si carica di maggiore
aggressività per la contrapposizione di due voci antagoniste.
Tutti e tre i romanzi della trilogia sono
romanzi regrediti a diari e traforati da molti spazi bianchi,
segno visibile del vuoto che rode, corrode, come un roditore instancabile il
testo, aggredendo i discorsi di tutte le voci narranti. La frequente
sospensione dei tre puntini potrebbe essere assimilata all’immagine di esili
ponti sul vuoto. Gli spazi bianchi sono forse anche simbolo della pulsione di
morte, logoramento continuo, autodistruttività che costeggia e fa da sfondo al
flusso verbale. Merletto con molti buchi.
III romanzo della trilogia
TITOLO Nell’altra
stanza
Un giovane laureato in
filosofia, costretto da un incidente a una temporanea immobilità accanto alla
stanza della madre malata, inizia a tenere un diario che riporta anche brevi
stralci di conversazioni tenute on-line con gli amici Andrea, suo omonimo ex
compagno di sbronze e di studi, e Virginia, una internauta mai incontrata di
persona (la figlia nel romanzo precedente). L’amico gli invia fra le altre cose
il racconto di una propria singolare “esperienza estrema”: un mese trascorso in
volontario isolamento al buio.
Alla morte della madre,
che vuole seppellire personalmente in un bosco dopo una fuga delirante col
cadavere nella notte, il protagonista si allontana definitivamente da casa
portando con sé (come per una ritualità molto arcaica) una reliquia, un dito
del corpo di lei, nel tentativo di reinventarsi un rito funebre.
Trova lavoro come pony
express a Francoforte, luogo sacro per le sue memorie culturali, divenuto
capitale della finanza. Ormai senza ambizioni ma per un insopprimibile
desiderio di conoscenza, s’iscrive a tempo perso a un corso universitario, fra
incubi notturni, abbozzi di riflessioni non concluse, dialoghi con personaggi
immaginari, come il Kirillov di Dostoevskij o Duda, una ragazza straniera che
non esiste.
Prima di tornare a
frequentare gli amici, scriverà un abbozzo di utopia, dove la Città ideale
talvolta pare interrogarlo come una Sfinge.
Due tronconi narrativi, più ampi di altri
episodi disseminati nel testo, due cellule immaginative di maggiore consistenza
e potenzialmente germinative di trama, che corrispondono ai capitoli Notturno e
La città ctonia, sono immersi in un brodo colturale di associazioni,
riflessioni, citazioni letterarie e filosofiche appartenenti al mondo degli
studi dei due narratori intradiegetici, i quali si chiamano curiosamente allo
stesso modo, Andrea e Andrea.
La macerazione-stagnazione
diaristico-meditativa toglie velocità, movimento al progredire di un racconto,
che infatti in alcune sue parti rimane impantanato in un’evidente difficoltà-
impossibilità a svolgersi, a svilupparsi. Ma la sfida dei protagonisti a se
stessi è proprio quella di riuscire a muoversi e addirittura di fare passi
avanti.
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