Senza parere, avevo confessato una grande, disdicevole verità. Per certi versi trattavo Aguidi come una bella preda e la sfruttavo anche più di quanto avessero fatto probabilmente le sorelle. Le avevo trovato un'occupazione meno pesante e meglio remunerata di quella nella stireria dove la conobbi (e dove qualche volta andava ancora per arrotondare lo stipendio), ma nello stesso tempo mi facevo mantenere da lei. Io non avevo più voglia di lavorare. Avevo annullato quasi tutte le visite coi miei soliti pazienti, che trascinavano la terapia da anni senza risultato. Non avevo più la forza di portarne il peso e li avevo dirottati presso colleghi più in gamba di me. Anche le mie finanze ne avevano risentito. Ora era Aguidi che si occupava quasi di tutto, in casa e fuori.
Trascorrevo
le ore della mattina in un lungo, confuso dormiveglia in cui si alternavano le
immagini della mia amante viva e di quella morta. Mi ritrovai a stringere fra
le braccia lenzuola sfatte che credevo fanciulle addormentate o a piangere sui
cuscini come un bambino in castigo. Non ero più un uomo e, pur vergognandomi in
qualche parte recondita di me stesso della mia situazione, non riuscivo a
modificarla. Anzi, lasciavo che quella che era diventata per forza di cose la
mia convivente, lavorasse anche per me, che avevo molto ridotto il numero dei
miei pazienti.
A
questo ero arrivato quasi senza rimorsi.
Ma
una mattina di quelle in cui più a lungo mi ero trattenuto sotto le coperte, al
punto da decidere di non alzarmi fino a che non fosse scesa la sera, le ombre
furono tagliate dalla chiara apparizione del più insolito dei miei fantasmi.
Supplice,
pensai di cingerle le ginocchia come fosse un personaggio dell'Odissea (in
questo probabilmente suggestionato dai miei studi classici), uno di quei personaggi
che hanno il potere di gettare Ulisse nelle peggiori tempeste. Le mie dee,
tuttavia, non mi parlavano facilmente, non nutrivano più una predilezione o una
particolare antipatia per me. Benché fossi ai suoi piedi, lei superò agilmente
l'ostacolo del mio corpo, mi carezzò la fronte e si allontanò.
Poteva
trattarsi, riflettendoci bene, di un ammonimento. Mi misi a fantasticare sulle
apparizioni di mia moglie. Delle mie evanescenti visitatrici era quella che
somigliava di più a una dea del mare. Senza averne l'aria, era quella delle tre
che presumibilmente mi avrebbe fatto fare naufragio. Dovevo aspettarmi che mi
scatenasse contro, da un giorno all'altro, la furia degli elementi. Il mio ozio
e il mio parassitismo certamente non mi mettevano in buona luce ai suoi occhi.
A
notte inoltrata fui angosciato dall'altra mia persecutrice, Araune. Lei, la
mettevo semplicemente in relazione con una dea della notte, non c'erano
possibilità di attenuarne in alcun modo la carica negativa. Addirittura, in
preda all'odio, mi ritrovavo a fantasticare che le avesse uccise entrambe in
quell'incidente, Agave e Lilia, pur di non lasciarne nessuna per me. Asciutta,
di poche parole, vestita spartanamente: era così che mi figuravo la lunare
Ecate. Non posso descrivere come mi sentii quando una sera molto tardi, sul
principio dello scurire, i due fantasmi unirono la loro influenza nefasta
comparendo insieme.
La
bionda, mia moglie, si accasciò sospirando sulla sedia davanti al letto;
l'altra le si fermò alle spalle come una guardiana o come un fedele scudiero (a
quanto pareva, Araune nell'aldilà scortava sovente le sorelle; faceva lei, per
contrappasso, l'accompagnatrice…). La posa solenne mi suggerì l'impressione che
fossero in procinto di farmi una qualche drammatica rivelazione e cercai di
rifugiarmi nel sonno per non udirle. Ma Araune era nervosa e prese ad andare su
e giù per la stanza mentre mia moglie parlava. Faceva cadere oggetti o
scricchiolare il pavimento apposta per tenermi sveglio, così mi raggiunsero
queste alate parole:
"Jean,
c'è qualcosa che non ho mai voluto dirti in tutto questo tempo perché non
volevo causarti un'inutile sofferenza. Ma è giunto il momento in cui forse
essere più consapevole potrà renderti migliore, non so... vedo che nulla riesce
a darti una motivazione per cambiare..." La brezza che entrava dalla
finestra forse era fatta di sospiri. "La mattina dell'incidente avevo
avuto il referto di un esame di laboratorio. Avevo appena saputo di essere
incinta. Te l'avrei detto la sera stessa, non appena ci fossimo visti."
Ma
il suono così chiaro durò pochi istanti. L’avevo udito veramente? Le sensazioni
dentro di me si confusero, i loro volti s'incupirono, mentre la mia stanza era
invasa dalle tenebre.
Brano tratto dal romanzo "Le tre sorelle fantasma"
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