martedì 30 dicembre 2014

Frammenti di poesie di Emilio Villa

Nel 2014 si è celebrato, senza molta enfasi, il centenario della nascita di un poeta rimasto clandestino nel Novecento, poco conosciuto. Pubblico qui qualche frammento di alcune sue poesie, tratte dal volume che vorrebbe riportare un po' di giustizia e renderlo maggiormente noto (Emilio Villa, L'opera poetica, L'orma editore, Roma 2014).



Mattina d'arancio e sorda
Fonda mattina colore dell'arancio
che frangia il visibilio delle ombre,
che non scosta foglia o nota delle trebisonde,
che non disgiunge sole da gelo, grato consiglio

che le guardie notturne, apposta
in borghese, le mani brutte d'olio
pesante, le palpebre un po' accese,
lì tra il lasco e il fosco vanno via:

e che io vado a mettere le semenze dell'uragano
nella terra dei vasi sul terrazzo, mortali
le semenze dell'uragano, ci vuo spirito
dei Lambri per disinfettarsi

e che cospargere d'olio e di linosa i corridoi
congregamini, mentre i postini preparano la posta
e sfogliano a memoria volti e strade, poi…
fonda mattina color d'arancio e stagno

è l'ora che le signorine d'Italia escon dal bagno,
i cuori s'accendono, uno per uno, presso i lavabi,
e alle ringhiere battono i materassi, e sui veroni
l'acqua urbana monta adagio

come sarebbe bella l'angela di Thyatyra,
oppure quella di Smirne, con le trecce giù,
e le odierne vergini del cinema italiano
facessero pipì sui marciapiedi

venerdì 26 dicembre 2014

Sul romanzo epistolare

Intervista a Tiziano Colombi

- Com'è nato il tuo ultimo libro, Tua, Marguerite Yourcenar? Quest'epistolario inventato di una notissima scrittrice ha richiesto una lunga fase preparatoria, documentaria?

- Questo libro è un vecchio libro, concepito e scritto tra il 2003 e il 2008, anni in cui stavo disperatamente cercando una via per la scrittura. Disperatamente, in quanto lavoravo a tempo pieno in un ufficio commerciale e riuscivo a difendere, come la protagonista del romanzo, pochissime ore di concentrazione dai predoni del tempo. Ricordo con esattezza, e una certa commozione, alcune letture svolte segretamente negli archivi della fabbrica, o in auto, prima di un appuntamento di lavoro, cui andavo sempre con largo anticipo per potere appunto leggere e scrivere l'epistolario immaginario.
Il romanzo ha richiesto effettivamente alcuni anni di gestazione, di revisioni, di riletture.
Devo qui ringraziare due persone fondamentali, due donne straordinarie: l'artista Giosetta Fioroni (di cui il bellissimo disegno Fascino del 1969 in copertina) che lo ha letto e apprezzato per prima e direi unica nella prima stesura del 2008 e Laura Brignoli (docente di letteratura francese allo Iulm e yourcenariana) che nel 2008, dopo aver letto e corretto il testo, mi ha proposto di presentarlo al seminario annuale degli yourcenariani di Cerisy La Salle, in Normandia (un luogo meraviglioso dove si sono trovate generazioni di intellettuali francesi: da Flaubert a Saint Beauve a Sartre); ma soprattutto ha atteso l'incontro con un editore (Emanuela Zandonai) che ha deciso di pubblicarlo; molti altri lo avevano letto e respinto, suggerendomi di riscriverlo in prosa, perché il romanzo epistolare è un genere che non vende.
L'incontro con Emanuela Zandonai è stato determinante in quanto mi ha spinto, come sempre accade nel momento in cui si passa dal dattiloscritto alle bozze definitive, a mettere a fuoco i dettagli, le incongruenze, a fare alcune scelte, rinunce, talvolta dolorose.

sabato 13 dicembre 2014

Cara Virginia, tua Marguerite

Un romanzo epistolare di Tiziano Colombi

Sebbene per Tiziano Colombi Tua, Marguerite Yourcenar (Zandonai, Rovereto 2014) sia già il quarto libro, a me pare che si possa considerare il suo romanzo di formazione, scritto in effetti diversi anni fa. Un singolare romanzo di formazione, in cui la figura dello scrittore che cerca se stesso viene spostata in un altro tempo e in un'altra identità, identità per una volta femminile (il che è di per sé un piccolo fatto straordinario per le nostre Lettere e per il nostro Paese notoriamente maschilista, da festeggiare con gioia). Qui il giovane autore s'identifica con la celebre scrittrice, mettendone in luce gli aspetti meno conosciuti: il lato emotivo, passionale, volubile di quando era una giovane donna dai costumi molto liberi, attratta sia da donne sia da uomini, grande viaggiatrice, apolide, inquieta, non ancora famosa. Ma l'identificazione con una donna scrittrice non è l'unica eccezionalità di questo lavoro raffinato, brillante, ricco di suggestioni, pubblicato ancora una volta, come tante opere insolite e non banali dei giorni nostri, da un piccolo editore, Zandonai (ci sarebbe il precedente dell'americano Michael Cunningham, Le ore, Londra 1999, tradotto da Bompiani, dove l'autrice di riferimento era Virginia Woolf, ma eravamo appunto in area anglosassone). Voglio credere che ci troviamo di fronte a un romanzo epistolare, non semplicemente a un epistolario inventato. Il genere romanzo epistolare, una delle radici del romanzo moderno, in gran parte trascurato e dimenticato nell'era di internet, rivisse ancora non molto tempo fa per esempio nell'Anonimo lombardo di Arbasino e mi pare giusto torni a vivere ancora in qualche modo. Perché ritengo che questo epistolario frutto d'immaginazione sia proprio un romanzo? Il lavoro dell'immaginazione più che quello della raccolta documentaria s'insinua fra il detto e il non detto, l'accennato, il desiderato, sempre con grande freschezza e sensibilità. Sono tratteggiati con decisione i caratteri dei personaggi, almeno i due principali, Marguerite e Grace: passionale, mutevole e tormentata l'una; devota ma non scialba l'altra. Queste lettere fra donne innamorate o amiche o confidenti riescono a esprimere il brio, il tormento, talvolta la pena di scritti autentici. 

lunedì 10 novembre 2014

Romanzi come luoghi

Mi piacciono i romanzi simili a luoghi più che a tempi. Non come dono di tempo, di storie (Ricoeur), ma come dono di luoghi dove aggirarsi, dove ricevere stimoli, dove abitare. Mi piace l'idea di scrivere un romanzo come abitare un luogo. Nel momento in cui si scrive o si legge, non si agisce. Il fatto di non agire introduce al pensiero. Romanzo come abitare un luogo in cui si pensa o in cui ci si lascia andare come in un labirinto. La forma morbida, flessibile, che a tratti può farsi dispersiva, svagata, onirica, fluida per inseguire un pensiero o un reale che sfugge. Il contrario di storie che tornano come conti che tornano. Attenzione fluttuante.
Alla condizione più generale della scrittura e del pensiero come azione bloccata o rimandata, progettata, comunque non posta in essere, si aggiunge che la nostra è un'epoca di sconfitta dell'azione. Sconfitta per alcuni grandi fallimenti di progetti concepiti nei secoli precedenti e nel Novecento audacemente sperimentati e naufragati. Dopo il crollo del socialismo reale (o del capitalismo di stato), vediamo ora come la democrazia appaia ridotta ai minimi termini e quasi messa definitivamente nell'angolo. Postmoderno, società dei servizi, società dello spettacolo, società dei consumi, capitalismo non più industriale ma finanziario, ecco il contesto in cui all'homo faber si è in larga parte sostituito un essere umano passivo, consumatore e per giunta ultimamente indebitato, in debito, sottoposto a pressioni di entità enormemente potenti e poco definite. E' un uomo fermo, che non può che riprendere a pensare  o a girare intorno al pensiero cercando di afferrarlo, per essere in grado un giorno forse di riprendere ad agire.
Ecco alcuni motivi per cui la rigorosa narratività, con le sue esigenze di tempi incalzanti, di ritmo serrato, sebbene sia molto richiesta oggi dal mercato editoriale, non rappresenta a mio avviso l'esigenza più importante della prosa contemporanea. I romanzi d'azione, come i film d'azione, possono fornire soltanto un surrogato di qualcosa che manca profondamente nella nostra vita, con effetto placebo. Invece sarebbe da indagare perché non si agisce o perché si agisce così poco o perché si agisce con esito fallimentare.
Romanzi orizzontali, romanzi che offrono stanze come luoghi di riposo, di pausa, di dormiveglia,  di sprofondamento dentro se stessi, anziché d'azione, giochi di specchi fra i personaggi...

lunedì 6 ottobre 2014

La resistenza del personaggio

Un personaggio interessante è quello che oppone una certa resistenza all'autore, come una persona viva alla comprensione degli altri.

martedì 9 settembre 2014

L'orizzonte gnoseologico del positivismo

Diverse volte ho espresso le mie riserve nei confronti della terza persona singolare. Scrivere un romanzo in terza persona è una scelta ottocentesca. Significa collocarsi all'interno dell'orizzonte gnoseologico del positivismo, in cui si credeva che un dio al di sopra del mondo reggesse le sorti umane, che il narratore, fatto a sua immagine e somiglianza, conducesse le pecorelle suoi personaggi sulla retta via o a perdersi, secondo la sua volontà; in ogni caso guardasse tutto dall'alto comprendendo (talvolta giudicando, talvolta rimanendo indifferente) ogni cosa. Per questo parlo scherzosamente di un narrare che è simile a un giocare con le figurine. La convinzione positivistica era che un distacco il più possibile scientifico permettesse di conoscere la cosiddetta realtà. Il Novecento ha poi dimostrato che succede tutto il contrario: noi siamo immersi nelle cose, non possiamo ritenercene al di fuori, e le possibilità di conoscenza sono compromesse perfino in relazione a noi stessi.
In numerosi testi narrativi contemporanei persiste la terza persona, come se quella consistente problematica novecentesca neppure fosse esistita. In tali casi prevale una visione del mondo con le cose al loro posto e un punto di vista esterno che osserva e capisce, come se vivere nel mondo equivalesse a osservare un diorama. 
Ottima, al contrario, la scelta di Saviano in Gomorra che sceglie di esserci in prima persona anche se tratta un'inchiesta giornalistica, anche se scrive sostanzialmente un saggio. E dice che non avrebbe potuto fare diversamente. Questa è la nostra contemporaneità. 
A mio avviso può risultare accettabile la forma mista, che non vuole del tutto rinunciare a uno sguardo dal di fuori, sarcastico o analitico, a un'interpretazione razionale di parti degli avvenimenti o della storia, che desidera concedere qualcosa dopotutto di ben meritato alla razionalità umana (un esempio eccellente dell'uso insieme della prima e terza persona mi pare rappresentato dalle Mosche del capitale di Paolo Volponi; ma ho letto di recente romanzi ben fatti che se ne servono con efficacia, come La vita in tempo di pace di Francesco Pecoraro).
Forse un eccesso della prima persona è anch'esso un falso. Quando domina incontrastata nell'intero romanzo, o in un'ampia sua parte, e fa continue considerazioni personali; quando comincia a spiegare troppo, esibendo una sua onniscienza sottratta alla terza persona ottocentesca, diffondendo in tutte le pagine un sordo cogitare razionalistico... Insomma si può nutrire qualche dubbio su questa tendenza alla saggistica propria di alcuni romanzi contemporanei, che pur si segue con interesse e attenzione. Viviamo in un periodo di fede nella scienza e nella tecnica, quindi una preponderanza del saggio, dell'informazione, dell'inchiesta giornalistica si può capire.
Ma senza ombra di dubbio la terza persona assoluta, a distanza di più di un secolo, si presta all'utilizzo naif o cinico (di chi vuol semplificare troppo le cose). E' vantaggiosa unicamente per la consumazione. Nei prodotti di consumo offre l'apparenza di un mondo facile, facilitato.

giovedì 4 settembre 2014

Mariano Baino, un autore che si considera in esilio

Mariano Baino, più noto come poeta, ha pubblicato anche due romanzi da piccoli editori: L’uomo avanzato (Le Lettere, Firenze 2008) e Dal rumore bianco (ad est dell’equatore, 2012). Come scrittore non viene quasi mai citato, ricordato. E’ come se non esistesse, come se non avesse mai scritto nulla.

“Caro Andrea, mi trovo da tempo, come sai, in Argentina meridionale, in una specie di esilio volontario,” scrive in una lettera al critico Andrea Cortellessa, raccolta nel volume La terra della prosa (L’orma editore, Roma 2014). “La Disneyland culturale o il videogame in cui ci troviamo ormai da tempo fanno sì che una prosa che cerchi un po’ di stabilità narrativa, così come una prosa tutta scorci, ellissi, rimbalzi temporali, così come ovviamente la poesia, sono inesorabilmente e parimenti cultura tipografica e veteromassmediale (…) In ogni caso, io continuo a sperimentare, e i miei romanzi pretendono di essere gli eredi anche dell’antiromanzo (…) Altro discorso, direi, è la buona salute del romanzo da supermercato. Ma se sono dove sono, in Patagonia, è anche per fuggire dagli editor e da certa fiction. Poesia, romanzo o forme di scrittura più scalene sono tutti insieme la mia gioia-dolore del narrare. Un narrare anomalo, magari.”
Mariano Baino è uno scrittore notevole, quasi gaddiano per la ricchezza corposa della lingua. Non si capisce proprio perché non abbia potuto pubblicare da editori in grado di farlo conoscere maggiormente.

mercoledì 27 agosto 2014

Lotta di classe sul palcoscenico

Conversazione con Lidia Cirillo sui teatri occupati 

R   Lidia, mi rivolgo a te non solo perché hai scritto questo libro sui teatri occupati (Lotta di classe sul palcoscenico, Alegre, Roma 2014), ma anche perché hai conosciuto e vissuto molte storie appartenenti al popolo della sinistra… In questo libro infatti parti da lontano, fai una doverosa premessa storica nel capitolo intitolato "C'era una volta il Novecento" con una digressione sul movimento operaio: "Si è chiamato movimento operaio l'insieme sinergico che in Europa e nel mondo aveva costretto il capitalismo a cambiare per non morire e quell'insieme aveva solo in parte a che fare con una classe. Certo la classe operaia, soprattutto quella dei grandi complessi industriali, era stata il nucleo intorno al quale si era aggregato tutto il resto. Ma il prodotto finale era stata una costruzione storica, socio-politica e culturale molto più ampia e complessa, dai contorni incerti, fortemente differenziata e conflittuale al proprio interno ma appunto sinergica. Essa era composta da una classe di notevole forza strutturale e capace di farsi centro del conflitto sociale; da strutture burocratiche e clientelari, che concedevano agi e poteri ai settori della piccola borghesia più ambiziosi e dinamici; da entità statali con il loro potere economico e militare, da movimenti di liberazione di Paesi colonizzati, interessati a mettersi sotto l'ala protettrice dell'URSS e che talvolta si avventuravano nella creazione di socialismi nazionali più o meno credibili; da intellettuali creativi attratti dai miti progressivi costruiti sulle vicende rivoluzionarie del secolo; da socialdemocrazie che mantenevano aperti gli spazi in cui i rivoluzionari potevano continuare ad agire e da rivoluzionari che punzecchiavano ai fianchi le socialdemocrazie e gli apparati politici, costringendoli a scatti per recuperare i rapporti con la propria base sociale; da mobilitazioni occasionali e da spessi sedimenti organizzativi, da basi elettorali, da compagni di strada e da alleati… Ora gran parte delle componenti di questo insieme o non esiste più o ha mantenuto nomi a cui non corrispondono le stesse realtà del passato oppure ha subìto dinamiche di disaggregazione, che hanno isolato ciascuno dei pezzi residui dell'insieme demolito negli ultimi trenta ingloriosi anni." (p 20-21).
Parti dunque dalla presa d'atto di una profonda disgregazione del tessuto sociale che in passato aveva consentito l'ottenimento d'importanti risultati, conquiste sempre più soggette a erosione in tutti i campi, dal lavoro alla qualità della vita, dai diritti ai beni collettivi. Tuttavia osservi che "un'inedita capacità di autorganizzazione è l'altra faccia della frammentazione e delle sconnessioni del corpo sociale. Si tratta di una capacità non universale e che riguarda alcuni settori e non altri, ma innegabile e conseguenza logica dell'impoverimento dell'ex-piccola borghesia intellettualizzata, delle maggiori quantità di conoscenze di cui si serve il profitto e dell'ampliarsi delle possibilità di comunicazione." (p 23). Con la crisi è il caso di dire che siano iniziati più decisi momenti di risveglio?

martedì 22 luglio 2014

Andare a piedi o in seggiovia

Dev'essere un po' come prendere la seggiovia: staccarsi da terra stando comodamente seduti, con posto singolo però, un posto solo per te; non come in aereo dove ci sono tanti posti. La maggior parte di noi deve compiere a piedi i percorsi in salita, impiegando tempo e fatica per raggiungere la meta. Qualcuno invece improvvisamente si trova in seggiovia, è baciato dalla fortuna, il destino viene mutato miracolosamente per intervento di qualche deus ex machina, il cui nome resta nell'ombra. E' raro che gli scrittori scendano nei particolari di come è avvenuta la loro pubblicazione decisiva, quella che li ha resi famosi. Un giorno il libro appare in libreria e questo è tutto ciò che vi è da sapere. Forse maggiori dettagli emergeranno in una futura biografia in caso di autori passati alla storia.
Ecco, penso che così avvenga per quasi tutti gli scrittori. Improvvisamente pubblicano, sono baciati dalla fortuna. Nessuna parola sul deus ex machina.

Bio in spiccioli

Per estrazione sociale, secondo la definizione marxiana, sarei proletaria, in quanto figlia di lavoratori salariati e io stessa salariata. Loro tuttavia, i genitori, classe lavoratrice agevolata dal boom economico, hanno potuto usufruire di alcuni vantaggi e godere di qualche soddisfazione pure in ambito lavorativo. Io invece, avendo trovato un lavoro che non ha nessuna relazione coi miei studi o col titolo di laurea, ho fatto un passo indietro anziché in avanti, in questo pienamente parte del mio tempo. 

giovedì 17 luglio 2014

Microtraumi

Dei grandi traumi, magari accaduti in epoca remota e infantile, è difficile parlare perché il linguaggio con cui narrarli risulterebbe presumibilmente alterato, sconnesso, lacunoso, minacciato da amnesie e rimozioni, poco razionale, difficilmente referenziale. I grandi traumi si prestano idealmente al racconto spostato, camuffato e deformato della narrativa, dell'invenzione, della "menzogna" letteraria.
Al contrario dei piccoli traumi, di cui forse è costellata la vita di molti, si può parlare in maniera più disinvolta. Il mio piccolo grande trauma dell'età adulta è stato il lavoro. Ebbi un licenziamento, o meglio un'interruzione improvvisa del rapporto di lavoro, emotivamente quasi paragonabile, per come la vissi personalmente, a un licenziamento in tronco, a ventinove anni, dopo due anni che lavoravo stabilmente, continuativamente in una casa editrice. Mi si disse semplicemente che non si aveva più bisogno di me da un momento all'altro. Non ero regolarmente assunta, ma una collaboratrice che si recava in sede tutti i giorni e faceva orario d'ufficio come se fosse assunta allo stesso modo degli altri, fatto un po' anomalo ma non poi tanto se confrontato con la vasta gamma di particolarità offerte dal lavoro irregolare che contraddistingueva l'editoria già nel passato. La mia situazione era sempre stata "appesa a un filo", tuttavia con le speranze tipiche dei giovani pensavo che le cose si sarebbero sistemate col tempo, nonostante avessi assistito pur in quel breve periodo a un caso di licenziamento vero e proprio, e fossi al corrente del fatto che il settore editoriale era già in piena ristrutturazione, con la progressiva esternalizzazione di redattori approdati prematuramente alla pensione o decisi a mettersi in proprio, che avevano costituito services editoriali e continuavano a lavorare a pieno ritmo con l'azienda. Anni novanta.

domenica 29 giugno 2014

Nipotine di Virginia

Si tende a dire che le scrittrici sono meno sperimentali degli scrittori, per costituzione (femminile) più conservatrici, meno portate all'esplorazione, all'avventura, al nuovo. C'è del vero, per questioni antropologiche e storiche.
Non mancano tuttavia le eccezioni, come quella della celebre Virginia.
Mi è già capitato, su questo sito e altrove, di citare per gli aspetti sperimentali Marosia Castaldi (nel post Inventio) e il brillante caso della giovane Heather Mc Gowan (nel post Splendidi tessuti).
Inoltre, felice scoperta, sfogliando le opere delle ultime generazioni (italiane!) mi è capitato d'imbattermi nella notevole originalità stilistica di Emmanuela Carbé. (Mi scuso con le autrici che non ho letto, che non mi è accaduto d'incrociare mai su riviste, antologie o nella grande e dispersiva rete, autrici che sicuramente esistono, stanno sperimentando, stanno lavorando magari con risultati interessanti ma che nessuno o pochi sono arrivati a conoscere.) Si sarebbe detto che, soprattutto a causa del potente influsso conformistico del mercato editoriale, oltre che per la situazione storica di particolare stallo, immobilismo, riflusso, gli ultimi decenni non avrebbero potuto produrre grande innovazione. Invece qualche fermento c'è, magari non proprio sotto i riflettori offerti dalle maggiori case editrici, come dimostra l'ampia e articolata antologia La terra della prosa, curata da Andrea Cortellessa e uscita per i tipi dell'Orma (Roma 2014), che pesca abbondantemente da medi e piccoli editori.

domenica 15 giugno 2014

Nuclei libidici

Sono convinta (e non sono la sola) che nelle opere letterarie e artistiche vi siano dei "nuclei libidici", dei centri emotivi nevralgici che rendono attraente il testo sia per lo scrittore sia per i lettori.
Prendiamo in considerazione un autore generalmente considerato molto freddo, Italo Calvino. Nelle Città invisibili (Einaudi, Torino 1972) la fantasia subliminale potrebbe essere quella della donna fatta a pezzi disseminati in ordine sparso. Ai cavalieri inesistenti e ai visconti dimezzati nell'immaginario calviniano ben s'accompagnano le donne invisibili, o meglio le donne multiformi, inafferrabili, evanescenti evocate in uno dei romanzi più sibillini e affascinanti dell'autore in questione. Nel groviglio urbano di un mitico, favoloso impero cinese medievale il filo che si dipana e s'insegue nei vicoli esotici e misteriosi appartiene al gomitolo dell'eterno femminino. Dietro la metafora della città si cela il fantasma della donna.
L'esempio più lampante della stretta parentela fra città e femmina è rappresentato da Zobeide, la città-gomitolo: "Questo si racconta della sua fondazione: uomini di nazioni diverse ebbero un sogno uguale, videro una donna correre di notte per una città sconosciuta, da dietro, coi capelli lunghi, ed era nuda. Sognarono d'inseguirla. Gira gira ognuno la perdette. Dopo il sogno andarono cercando quella città; non la trovarono ma si trovarono loro; decisero di costruire una città come nel sogno." (p 51). Si trovarono loro, gli uomini; la donna resta separata, a parte. Così in Armilla. Non lontano si trova Armilla, fatta di sole tubature, le cui padrone sono ninfe e naiadi: "Può darsi che la loro invasione abbia scacciato gli uomini, o può darsi che Armilla sia stata costruita dagli uomini per ingraziarsi le ninfe offese per la manomissione delle acque". (p 56).

martedì 3 giugno 2014

Il romanzo sperimentale col senno di poi

Se pensiamo ad alcune eminenti espressioni del romanzo sperimentale anni sessanta, recentemente rievocato e riattraversato da letture critiche nel ricco volume Gruppo 63. Il romanzo sperimentale. Col senno di poi (L'orma editore, Roma 2013), per esempio a Hilarotragoedia di Manganelli, Partita di Antonio Porta o Tristano di Balestrini, osserviamo che tendevano a privilegiare, per molti validi motivi in quel periodo storico, una posizione scissa, schizoide, violentemente frammentata del narrare e dello scrivere. 
L'esempio estremo di rottura è offerto dalle opere e dalle osservazioni di Giorgio Manganelli, che hanno l'aggressività e la virulenza in qualche caso di veri e propri attacchi al legame, o attacchi al seno (al seno-romanzo e al seno-fiaba*), se vogliamo usare una terminologia psicanalitica. Si legga quest'osservazione di Fausto Curi riportata a p 245: "... l'oltranza della scrittura in Manganelli  ha una profonda radice psicologica e biologica, una violenza vitale e mortuaria. Manganelli scrive per vendicarsi, le impennate, gli attorcigliamenti, gli ingorghi del linguaggio hanno qualcosa di acre e di furente, la pagina è insaziatamente amara, cinicamente compiaciuta." 

venerdì 30 maggio 2014

Dialogo su un romanzo puzzle game e altri esperimenti

Intervista a Mariano Bargellini

- So che stai lavorando a un nuovo romanzo. Vuoi dire qualcosa su questo testo che definisci puzzle game?
L’oggetto infinito è un romanzo puzzle game. In senso metaforico e letterale. Anche alla lettera, in quanto che il fabulatore e personaggio della storia, a seguito di un escamotage si direbbe onirico, e dell’annuncio recatogli da Antony Charon, lo scimpanzé sapiente della televisione, il teledivo dell’aperitivo, quasi stesse sognando cade nella trappola di un puzzle game, di cui ignora le regole i meccanismi le leggi. Si trova di colpo, forse prigioniero, in una casa del Sonno e del Silenzio, che lui riconosce: è la casa-labirinto della fanciullezza, arredata come allora e con vestigia recenti degli antichi inquilini, ma deserta e semibuia. L’intero palazzo, oggi assediato da una nebbia fittissima, parrebbe disabitato. E la città stessa, deserta: una Milano-fantasma. Egli s’aggira, ombra di sogno, anzi persona di puntini elettronici, ente digitale, avatar del giocatore sconosciuto alla console per corridoi e stanze di un Labirinto senza uscita, e senza Minotauro. Salvo che il Minotauro, cioè l’avversario computerizzato di questo videogioco, non sia lo scimpanzé parlante, il testimonial dell’aperitivo: Toni Caronte, il suo contubernale di reclusorio-incantesimo. Il quale, sorta di Frégoli, cambia d’abito e di ruolo per tre volte. Di teologo e in veste talare, per esempio, si cambia in predicatore della rivoluzione neofuturista, vestito alla futurBalla. Oltre a questi due personaggi, e ai loro dialoghi subito declamati e voltatisi in controversia, dialoghi da teatro della sorpresa del grottesco e dell’assurdo, risuona talvolta nel teatro vuoto e quasi buio la voce del giocatore e fabulatore invisibile seduto alla console. Continui i colpi di scena. L’ultimo, a suo modo risolutivo, conclude brutalmente L’oggetto infinito, romanzo labirintico neo-novecentista.

mercoledì 21 maggio 2014

Il postmoderno sotto il vetrino

In un Quaderno di critica dal titolo Volponi e la scrittura materialistica, autori F. Bettini, M. Carlino, A. Mastropasqua, F. Muzzioli, G. Patrizi (Lithos, Roma 1995), ho trovato una frase illuminante: "...affermare la possibilità dell'avanguardia nella teoria e nella prassi, e la sua stringente attualità come strumento e luogo di opposizione e di polemica, atto a contrastare nello specifico, resistendogli e demistificandolo, il falso ecumenismo con il quale l'ideologia del postmoderno copre la sua resa alla brutalità dell'esistente." (p 18)

giovedì 8 maggio 2014

Reddito universale vs difesa posti di lavoro in settori in declino

A proposito del dibattito emerso intorno al 1° maggio su reddito di cittadinanza vs difesa del posto di lavoro in settori di produzione in declino, ecco che si potrebbe aprire un campo vastissimo di azione per molti operatori della conoscenza, tutto un lavoro educativo ad ampio spettro tale da convertire un'istruzione in larga misura finalizzata strettamente al lavoro per la maggioranza della popolazione, fino a poco tempo fa destinata a vite di lavoro in fabbrica o negli uffici con giornate intere prive di tempo libero, a un'educazione a lavorare sul proprio tempo, cioè a trasformare l'ozio in creatività. Ciò che spaventa molte persone, oltre ai problemi concreti di sopravvivenza legati al baratro che si apre attualmente per i senza-lavoro in una società abituata a fare dei disoccupati solamente un esercito di riserva per tenere bassi i costi del lavoro o da utilizzare nel lavoro sommerso o nel largo giro degli affari illeciti, è anche il vuoto del tempo libero, l'angoscia che può sommergere chi si trovi improvvisamente di fronte a cambiamenti radicali di vita e di abitudini con molte ore prive di occupazione. Invece di un'educazione finalizzata al lavoro, un'educazione in sostanza a stare rinchiusi lunghe ore in luoghi coercizionari, a stare al proprio posto, a ripetere a memoria le lezioni, a recepire passivamente le nozioni, a vivere con le orecchie tappate, con una sensibilità ridotta e quindi più adatta allo sfruttamento, come direbbe Adorno nella Dialettica dell'illuminismo (ai lavoratori-rematori compagni di Ulisse sono state tappate le orecchie affinché non odano il canto delle sirene; cfr anche mio post su questo sito http://voltandopagine.blogspot.it/2013/10/il-canto-delle-sirene.html) ci sarebbe tutta un'altra prospettiva da mostrare: il vasto mondo dell'arte e della cultura, finora rimasto in larga misura inaccessibile a chi non poteva permettersi di non lavorare. C'è tutta una mentalità da cambiare, tutta un'educazione da rifare; discorso che vale a cominciare da noi stessi.

venerdì 2 maggio 2014

L'ultimo romanzo di Luigi Di Ruscio

A tre anni dalla morte dell'autore, i romanzi di Luigi Di Ruscio approdano finalmente a un editore importante, Feltrinelli, che raccoglie in un'unica edizione i maggiori testi in prosa, Di Ruscio. Romanzi (Milano 2014).
Fin dal titolo, Neve nera (ancora più esplicito nella prima edizione, Ediesse 2010: La neve nera di Oslo),  il terzo romanzo contenuto nel volume si presenta come il libro in prosa che maggiormente dovrebbe essere incentrato sul tema del lavoro in fabbrica, luogo dove lo scrittore effettivamente fu occupato per trentasette anni dopo l'emigrazione in Norvegia. Lo è ma con scatti e puntualizzazioni anche ribelli, di chi capisce di non poter essere incasellato o inumato in una posizione troppo circoscritta, com'era già avvenuto in passato per le poesie neorealiste: "Catalogato come ero tra i poeti operai però sono anche bipede, sono anche cerebrale avendo anche un cervello, sono planetario abitando un pianeta galattico, abitando in una galassia e sono l'operaio più circondato da barattoli Cirio di tutta la storia della rivoluzione industriale del mondo intero." (p 400)

lunedì 21 aprile 2014

Guardarsi l'ombelico

Guardarsi l'ombelico è un'operazione tutt'altro che banale, scontata, insignificante, dal momento che il cordone ombelicale è sociale.

venerdì 18 aprile 2014

No autore

"Bisogna fare opere che sfuggano al controllo dell'autore perché l'autore poi porta a spasso se stesso."
Antonio Rezza in una intervista

domenica 9 febbraio 2014

Splendidi tessuti sintattici

Antonio Lobo Antunes, Che farò quando tutto brucia? (2001, Feltrinelli, Milano 2004)

"- Tuo nipote nonnina 
mia nonna nel salotto buio coronata di immaginette e di candele mi allungava le orecchie e mi aumentava i denti, avrebbe finito per divorarmi e per sparpagliarmi a terra come fanno i maiali, le dita smettevano di colpo intrecciandosi in grembo, una domanda polverosa si faceva strada tra i fazzoletti neri
vestita a lutto fino all'anima
- quale nipote figliola? 
rivolgendosi non a mia madre, a un pollo che si frugava sotto le ali con una frenesia di calcinaccio, le palme delle mani separavano tenebre, desistevano
- quale nipote figliola?
mentre mi ricomponeva il profilo con gesti affrettati, se abitassi a Bico da Areia correrei più veloce degli infermieri, dei cavalli, mia nonna cercava mia madre, le misurava il volto con i pollici 
- sei dimagrita Judite
un giorno o l'altro vado a trovarla al paese fra gli olmi, sfuggendo alle ortiche, ai topi, i suoi occhi mi indovinano i passi senza udirli, le dita impastavano il vuoto incuriosite, si diceva che il mio defunto nonno apparisse di notte con la zappa in resta
- Camélia 
alzando il coperchio delle padelle con la fame dei morti e l'alito ammuffito, desideravamo vivere, non riuscivamo a fuggire e tutto tranquillo intorno, la maestra passeggiava sulla strada del cimitero dopo scuola, api e ancora api nei tronchi dei pioppi, mia nonna alla zappa
- Non verrai mica a rubare, vero?
non vengo a derubarti nonna…" (pagg 18-19).
Ampio esempio di flusso di coscienza (ininterrotto per tutto il romanzo) intarsiato da frammenti di dialoghi ricordati, riportati frammezzo ai pensieri; stream of consciousness intagliato, arabescato, nuovo. 

martedì 21 gennaio 2014

Mannequins: commenti suscitati

Mariano Bargellini, in una nota speditami il 16-1-2014:
"Il lettore intendente di letteratura, letto 'Top model d'oltretomba', racconto d'apertura di Mannequins di Roberta Salardi, si interroga su un mistero o enigma la cui soluzione è alla sua portata, essendo letterario, non da detective e lasciato irrisolto, tale enigma o mistero. Che cosa ti fa dire: questo racconto è bello e levigato come Enora e Nell e le altre ragazze-statue? Su quali virtù dello stile e dell'immaginazione si fonda la tua sentenza? Allora, per le spicce: la pipistrella Salardi, grazie al suo radar, ha evitato tutti gli ostacoli mortiferi contro i quali, viceversa, va a sbattere il romanzo italiano d'oggi, postmoderno. Ossia? Beh, la Roberta ha evitato le puerilità del plot, i personaggi stancati (loffi), industria idiota di figurinai e figurinaie, il ricalco (la stracca mimesi) di nient'altro se non la buccia della realtà, i luoghi comuni gli stereotipi le convenzioni dettate dagli editori, e poi tutto quello scrivere così maledettamente male ecc. O anche, detto altrimenti, grazie al suo radar ha imbroccato fenestram evasionis. E' evasa dalla casa del Sonno. Cioè dalle angustie e dal soffoco del romanzo italiano d'oggi, postmoderno e postletterario. Qui, in 'Top model d'oltretomba', circola l'intelligenza (in ogni frase), un pensiero immaginativo articolato e sottile, e il senso del testo è complesso, naturalmente ambiguo, starei quasi per dire multivoco (non mica univoco e piatto, come sapete spremerlo voi dalle vostre storie, voi che non nomino). E sempre qui in 'Top model', per una scrittura così precisa nitida evidente, com'è questa di Roberta Salardi, volevo dire, la parola stilista, per l'autrice, può essere usata, tranquilli. Ritolta ai griffatori e restituita a certi scrittori e a certe scrittrici."

Giorgio Mascitelli, in un messaggio inviatomi il 3-6-2013:
"Mi sembra che sotto lo scintillante mondo delle modelle e l'altrettanto fastoso, ma in senso diverso, universo pulp si nascondono le meditazioni sulla vita offesa e su quanto ci passa il convento in questi tempi di speciosa abbondanza, ormai forse anch'essa superata. In questo senso mi restano impressi più facilmente quei personaggi come la commessa del negozio alla stazione Centrale ('La cubista prigioniera del cubo'), il triangolista desideroso di entrare nella coppia lesbo e disposto, in nome della realizzazione del proprio sogno proibito, ad accettare anche in camera da letto la propria minorità sociale e lavorativa ('Centottanta secondi'), o la fidanzata mancata del racconto finale col suo disperato e disperante razionalismo a fronte della marea montante della solitudine ('Passeggiata al cimitero'), insomma l'umanità dolente che risuona del proprio dolore senza enfasi."


Il commento di Luigi Grazioli, reperibile sul blog A spasso nella caverna (http://grazioliluigimario.blogspot.it/2014/01/libri-di-amici-1-4-marco-ercolani.html), era già stato riportato su questo sito nel post del 25-8-2013 "Una recensione apparsa su Facebook".

Silvio Bernelli, in uno scambio di messaggi su Facebook del 25-9-2013 suggerisce, per un'eventuale prossima raccolta, di calarla in una cornice, al fine di darle più omogeneità e più forza. Consiglia anche di ponderare bene l'uso degli aggettivi e degli avverbi, che, se troppo precisi, rischiano di dare l'impressione di essere usati come scorciatoie per dire tutto velocemente, lasciando magari fuori qualcosa.

mercoledì 8 gennaio 2014

Sorpresa per la mancanza di sorpresa

Ricercatrice universitaria occupatasi più volte di letteratura novecentesca, con frequenti incursioni in testi sperimentali e d'avanguardia, trattati in chiave tematica (In luoghi ulteriori. Catabasi e parodia da Leopardi al Novecento, Giardini, Pisa 2005) o con particolare attenzione alla struttura (Polemiche letterarie. Dai Novissimi ai lit-bolg, Carocci, Roma 2012, dove celebri romanzi degli anni sessanta, Hilarotragoedia, Capriccio italiano, Tristano, Il serpente e L'anonimo lombardo, vengono messi decisamente in primo piano), Gilda Policastro compie scelte completamente opposte nei propri romanzi (Il farmaco e Sotto, Fandango, Roma 2010 e 2013). Considerate le premesse, ci si sarebbe aspettati strutture narrative alternative e perfino spiazzanti, o perlomeno una soluzione di compromesso che accostasse elementi tradizionali a tentativi meno convenzionali. Nella narrativa Policastro invece sceglie un impianto ottocentesco, con il tradizionale succedersi di scene narrate da un narratore extradiegetico; un recupero dunque del ruolo di un narratore-dio che osserva dall'alto i suoi personaggi e li manovra come marionette.
D'altra parte in una presentazione a Milano del suo ultimo libro (un evento di Bookcity del 22-11-2013) è lei stessa a dichiarare: "Riscriverei Madame Bovary"!
Ovviamente non si pretendono da nessuno spericolatezze innovative, semmai sorprendono piacevolmente quando si trovano. Tuttavia l'impressione che si riceve è simile a quella che avrebbero potuto provare i compagni dell'Ulisse dantesco se, dopo l'esortazione al folle volo (Inferno, Canto XXVI), egli avesse detto loro: "Restiamocene a casa".


  • P.S. - Sorpresa per la sorpresa. Ricevo invece incoraggianti impressioni a un primo approccio alla lettura del nuovo romanzo di Gilda Policastro, Cella (Marsilio 2015). Con questo romanzo mi pare che l'autrice, sganciandosi decisamente dalla struttura tradizionale dei romanzi precedenti (narratore extradiegetico), abbia finalmente trovato se stessa, o la sua vena migliore.