Il cammino ecologista e culturale di Repubblica nomade quest'anno (2019) mira a percorrere un cuore dell'Italia fatto dei valori di rettitudine,
sobrietà, solidarietà, lucidità di pensiero trasmessi nel tempo dalle
personalità fondatrici di Dante, Francesco d'Assisi e Leopardi.
Le celebrazioni di classici sempre a noi vicini sono più
che mai opportune. Pensiamo a Dante. Le sue parole, talvolta aspre e sferzanti,
continuano a risuonare cariche di significato in un Paese come il nostro
tutt'oggi ferito dalla piaga della corruzione, della trascuratezza e del
degrado (secondo le stime del 2018, l'Italia occupa tra i peggiori posti in
Europa e il 53° nel mondo per il problema della corruzione).
A distanza di secoli colpisce un senso della giustizia
che non fa sconti alla memoria di personaggi celebri e altolocati, d'arme e di
religione, spesso impegnati in terribili lotte per ricchezza e potere, aperte o
intestine, che insanguinarono l'Italia in un'epoca bassomedievale in cui l'egemonia
dell'Impero (rimpianto da Dante come la forza che favorì l'età d'oro della pax
romana e un'idealizzata età feudale-cavalleresca) era ormai fortemente
contrastata dal sorgere di ricchi feudi, signorie e comuni continuamente
impegnati nel fronteggiarsi a vicenda. Accanto alla feudalità agraria, si
andava sviluppando un ceto arricchito dalle vivaci attività commerciali e
artigianali fiorenti all'interno di numerose città: la situazione era instabile
e caratterizzata da sempre nuove alleanze e contrasti interni alle città-stato
o relativi ai rapporti con le maggiori dinastie europee. Lo stesso Dante pagò
con l'esilio la partecipazione alla vita politica della sua Firenze, "nido
di malizia tanta" (Inferno XV,
v 78). Ma se la violenza e l'inganno sono puniti nei gironi più bassi
dell'Inferno, il non parteggiare per nessuno, proprio degli ignavi, ottiene dal
poeta il massimo disprezzo alle porte degli inferi, là dove un folto numero di
anime indifferenti e vili, che mai non
fur vive, perché non furono animate da impegno e partecipazione, non
vengono considerate né da Dio né dagli uomini, che non serbano di loro alcuna
memoria (III, vv 22-69). La turba
degli indifferenti è uno sfondo che vale per tutti i tempi tuttavia l'età dei
comuni fu tutt'altro che amorfa e monotona. Nel breve frammento qui riportato
della celebre apostrofe all'Italia (Purgatorio
VI, vv 76-151) essa appare lacerata da insanabili discordie e da fazioni ferocemente
avverse persino all'interno delle stesse mura cittadine: "Ahi serva
Italia, di dolore ostello (…) ora in te non stanno sanza guerra/ li vivi tuoi,
e l'un l'altro si rode/ di quei ch'un muro e una fossa serra" (vv 76-84). L'inganno
e il tradimento, tramati senza sosta, possono tendere agguati mortali e
determinare la caduta d'intere città: i traditori sono puniti nel fondo
dell'Inferno, là dove pur brilla l'intelligenza di Ulisse (Inferno XXVI), capace di spingere lui e i compagni alla scoperta
dell'ignoto, di superare ogni limite, ma anche di divenire strumento per
ingannare e colpire l'avversario. Il canto di Ulisse non contiene solo una
verità ma più di una verità: le capacità umane destano in noi orgoglio e ammirazione
ma possono rapidamente portare alla rovina.
I mali degli uomini derivano nella maggior parte dei casi
dalla brama di ricchezze. Strali contro l'avidità attraversano tutto il poema.
Fin dal I canto dell'Inferno la lupa è la fiera che più
spaventa Dante e lo respingerebbe indietro nella selva oscura se non
intervenisse Virgilio; nel XXVII
canto del Paradiso (vv 19-67), non lontano
dall'Empireo, San Pietro tuona contro la corruzione del papato, tema anticipato
già nel canto XVII della stessa
cantica, ove si dice che Roma è il luogo "dove Cristo tutto dì si
merca" (v 51). Nello stesso canto XVII
(vv 124-142) l'antenato Cacciaguida esorta Dante a non tacere le iniquità né i
nomi dei malfattori altolocati e delle loro potenti famiglie, considerata la
funzione esemplare e altamente morale del suo ruolo di scrittore: "Ma
nondimen, rimossa ogne menzogna,/ tutta tua vision fa manifesta;/ e lascia pur
grattar dov'è la rogna" (vv 127-129). Nel canto XI del Paradiso viene esaltata,
per contrasto, l'unione tra San Francesco e Madonna Povertà (28-117) mentre gli
usurai (oggi li chiameremmo semplicemente banchieri), coloro che traggono denaro
da denaro, offendono la bontà divina poiché non vivono del prodotto del loro
lavoro o dei frutti della natura, secondo la legge biblica, bensì degli
interessi sul prestito. Nell'XI
canto dell'Inferno (vv 97-111) è ben
specificato che il lavoro non è da intendersi soltanto come condanna e fatica
ma anche come forma di avvicinamento all'opera di Dio: così come Dio ha creato
il mondo l'essere umano inventa continuamente le proprie attività e produce le
cose di cui ha bisogno. Voler guadagnare senza passare attraverso l'attività e
la creatività è un peccato.