giovedì 5 dicembre 2019

Un buco nero di silenzio

Un buco nero di silenzio*: è così che a volte si percepisce l'universo. E tuttavia: "sono appassionata di vuoto,"** trovo scritto nel recente romanzo di una esordiente.
Molti romanzi di donne sono introspettivi.
E' cosa da festeggiare, dal momento che capita frequentemente di sfogliare libri e bestseller che sembrano commissionati sulla base di regole troppo commerciali e riproducono quasi in serie note false o stonate; sembrano di plastica pure loro, come le tante merci che ci sommergono. In altre parole, sembrano ingiustificati. Tuttavia l'umanità continua a esistere, con le sue incertezze e sofferenze, e a formulare inquieti interrogativi sull'esistenza, forse timidamente, forse in maniera appena percettibile in mezzo al frastuono di forme mediatiche in altre faccende affaccendate. Ho l'impressione che questa voce sottile ma acuta, portatrice di amore per la verità, sia soprattutto incarnata da donne che scrivono. E' solamente un'impressione, poiché non sono in grado di leggere tutto ciò che si produce, ma ho alcuni riscontri. 
Penso a libri come Il peso minimo della bellezza di Azzurra de Paola (LiberAria, Bari 2016), penso a Metapsicologia rosa di Alessandra Saugo, prematuramente scomparsa (Feltrinelli, Milano 2017), penso al recentissimo Ritmi di veglia di Raffaella d'Elia (Exorma, Roma 2019), dove paiono risuonare antiche massime come "La filosofia è vita da svegli" oppure "Sapere è soffrire" oppure il leopardiano "Tutto è male". Potrei citare anche Maestoso è l'abbandono di Sara Gamberini (Hacca edizioni, Matelica 2018) oppure Disturbi di luminosità di Ilaria Palombi (Gaffi, Roma 2018), più legati a traumi e a esperienze psicotiche vere e proprie. Negli ultimi due testi elencati, così come in Metapsicologia rosa, è significativo il dialogo desiderato/contrastato con lo psicanalista; mentre l'ombra dell'inadeguatezza o di una malattia, invalidante e insieme pungolante, incombe in Ritmi di veglia di Raffaella D'Elia***. Infine, nel Peso minimo della bellezza compare più di una volta, invano, l'esortazione a "trasformare la rabbia in energia pulita" (per es. a pag 119).

Il peso minimo della bellezza è un testo esemplare sull'odio kleiniano, quello primario derivato dal senso d'insufficienza, d'impotenza del bambino di fronte alla madre da cui dipende in tutto e per tutto (matrice, secondo alcune femministe, anche della feroce avversione e aggressività agita da alcuni uomini contro le donne****). Nel romanzo un figlio ripercorre anni di rapporto intenso ma conflittuale con una madre dapprima senza compagno poi accompagnata da un innamorato tenuto però a una certa distanza, perché rifiutato dal figlio. Il rapporto, che potrebbe essere familiare ma non lo diventa mai per l'esigenza d'amore assoluto manifestata dal ragazzo in varie fasi della crescita, è incandescente, e porta allo scoperto un conflitto edipico col patrigno mai attenuato dalla tenerezza che generalmente subentra con un genitore. Il contrasto edipico con un patrigno sarebbe tuttavia scontato. Il romanzo mette in luce uno strato psichico più profondo e rivela, con grande lucidità, un sentimento di odio nei confronti della madre amata che lascia stupefatti i lettori e lo stesso narratore-protagonista: "Aspettavo che ti arrabbiassi, che perdessi la testa, che mi colpissi fino a uccidermi perché ero un bambino cattivo. Perché ero il tuo bambino cattivo. Perché così sarei stato, di nuovo al centro, nel tuo stesso spazio e non in uno spazio per conto mio." (pag 18); "Questo amore è per sempre. Finché morte non vi separi. Amen. Ed è stato proprio così che mi sono sentito quella volta che ti sei girata mentre ti mettevo il detersivo nel piatto sperando che lo mangiassi e che passassi tutta la notte a vomitare." (pag 34). La madre, paziente, assorbe tutta quella negatività: "Mi hai guardato con quel pianto sull'orlo degli occhi che però non scende, non cade, non inonda tutto. Mi hai guardato e sei rimasta ferma. Senza muoverti, senza parlare. E io volevo urlarti di mandarmi via. Di prendermi a schiaffi, di sbattermi al muro. Di picchiarmi fino a uccidermi. Volevo buttarmi ai tuoi piedi e pregarti, supplicarti di odiarmi per sempre. Ma tu hai allungato il braccio e preso il piatto. Sei andata a tavola con la testa alta come una che abbia vinto il trofeo alla giornata più brutta della sua vita. Ti sei seduta in quel tuo insondabile silenzio da cui non esce niente, niente. Il tuo buco nero di silenzio. Ti sei seduta così composta che volevo mettermi a piangere per la disperazione. Sei rimasta ad aspettare finché non mi sono seduto anch'io. E poi con quel sorriso amaro, con quella tristezza senza via d'uscita, hai preso il cucchiaio. Hai preso il cucchiaio con la mano destra. E hai mangiato tutto ringraziandomi di aver cucinato per te." (pagg 34-35). La donna, protagonista di una vita affettiva così travagliata, si toglierà la vita.
In Ritmi di veglia la voce narrante, che affiora, ora in prima ora in terza persona, in momenti di risveglio dall'opaco sonnambulismo in cui ci muoviamo abitualmente cercando di non vedere ciò che ci circonda, registra la bruciante sensazione che "la nostra piccola dose di inferno la calziamo ogni mattina, ma l’alba la confonde con il nascere del giorno e il giorno contribuisce a mescolarla alle nostre attività. La nostra dose di inferno cala sugli obiettivi, sulla forza e la fatica sprigionate per raggiungerli." (pag 54). A pag 44, di fronte a un malessere indefinito e costante, si mette a fuoco l'angoscia: "Non era dolore, non era solo dolore. Era l'impossibilità di stare in mezzo alle cose della giornata senza patimento.". L'angoscia è la difficoltà a stare in mezzo alle semplici cose della giornata, avvertite come un male senza senso. Ed ecco il crollo delle speranze in senso leopardiano: "Il taglio netto del traguardo, – l’affacciarsi alla vita – tranciava di netto la stoffa dei giorni, e lo sparo era quello che accompagnava lo shock. Tutta la ritenzione, lo stare attenti a dove si camminava, dove si posavano i piedi, con lo sterminato paesaggio di speranze e possibilità, un bel giorno (un bel giorno) erano stati trascinati via. Stavano da un’altra parte. Gravitavano ancora da qualche parte – certamente negli animi che ancora non avevano patito lo shock – che però erano altra cosa da noi. La separazione aveva la violenza di uno strappo, la perentorietà degli stati irreversibili, quel contorno di bestialità e incredulità che spesso accompagna i diversi passaggi della vita.". Questo paragrafo potrebbe essere una versione sintetica in chiave moderna e in prosa del canto A Silvia di Leopardi. A più riprese si fa riferimento ai tentativi di sublimazione, al faticoso lavoro su se stessi, necessario ma difficilissimo: "Occorre non sentirlo più, il dolore che fa solo male, occorre sentire anche quello che fa bene, mutato nelle sue segrete iridescenze di benessere, qualità, individualità: un salto più alto, una serie di righe esemplari, un discorso luminoso. Vestirsi d’inferno e andare, un po’ per volta, ogni giorno, senza pensarci troppo, pensarci tantissimo, come aggiustandosi il lembo della sciarpa, il sorriso, la forma del vedere. Come slacciarsi un bottone, fermarsi, riprendere a vivere, respirare." (pag 55). A parlare è un io lirico simile a quello della poesia: un io poco caratterizzato, che potremmo essere tutti; così come i personaggi chiamati in causa prendono forma lentamente e fino a un certo punto. L'imbarazzo per i nomi di persona e di cosa emerge a pag 69, come di fronte a "un destino che cade addosso" e a cui ci si vorrebbe ribellare: "Ma restava il disappunto, quel senso di impotenza di fronte a queste modalità del destino che letteralmente cadeva addosso, nessun filo da segnare, da tagliare, restituire. Nessuna obiezione ragionevole da porre.".
La tendenza alla spersonalizzazione è forte anche in Maestoso è l'abbandono di Sara Gamberini, dove si spinge fino al senso panico e all'animismo: "Mentre l'analisi lavorava per fortificare il mio Io, intuivo che l'Io doveva invece dissolversi..." (pag 21);"Ho pensato che fosse il momento di andare in alto quando ho visto che non sapevo dove appoggiarmi. Dopo aver cercato contenimento ovunque, ho ceduto alla mia evanescenza. L’assenza di base negli anni si è trasformata in una spinta verso la volta celeste." (pag 55); "Chiunque avvicini uno sfumatore ha un'istintiva reazione di fuga. La fuga però è inattuabile perché gli sfumatori non appena qualcuno accenna ad andarsene si fanno lunari, si fanno millepiedi e perturbanti e orsi d'amore, ti avvolge la luce. Tu li sbirci come di fronte alle strade non battute del bosco, da un lato i rovi, i pungitopo, più distante un passaggio che sembra chiuso, sembra finire in una grotta, dentro le capanne immaginarie, vieni da me."
Sono ampie le parti liriche di questi romanzi o sofferti diari, talvolta sgrammaticate per la tensione emotiva sottostante. Qui Alessandra Saugo: "Mi mancano le basi, dottore, la grammatica, non ci credo neanche un po', alla grammatica parigina, la grammatica sognina, romantichina, tentennante tritamente di pioggerellina..." (Metapsicologia rosa, pag 54. Di questo volume ho parlato più diffusamente in un post precedente: http://voltandopagine.blogspot.com/2017/11/la-psicanalisi-e-altri-costumi-secondo.htm ).
Si prende atto che giovani scrittrici crescono e che, nonostante la violenza che ancora raggiunge le donne e il grado di emarginazione o sottovalutazione che ancora le penalizza, sono capaci, in mezzo a tante note false, di levare una voce autentica.


* Espressione tratta dal Peso minimo della bellezza di Azzurra de Paola, LiberAria, Bari 2016. Il brano è citato nelle righe successive.

** Maestoso è l'abbandono di Sara Gamberini, Hacca edizioni-Kindustria, Matelica 2018, pag.115.

*** "Ah, Ida! Dove credevi di andare da bambina, quando aspettavi i giorni di lezione in accademia per liberarti, per disfarti e ricomporti su palcoscenici ancora da esplorare. Ah, Ida! Hai sognato il sogno indossato da bambina, poi cucito addosso fin da quando eri giovinetta, e l’hai scucito tutto, punto a punto, angolo ad angolo, mentre scaraventavi l’infanzia sull’adolescenza sulla giovinezza. Non ne sei più uscita, Ah, Ida!" (pag 77).

**** Lea Melandri, Amore e violenza. Il fattore molesto della civiltà, Bollati Boringhieri, Torino 2011





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