mercoledì 13 dicembre 2017

Petrovic di Underground, uno scrittore che non scrive ma ascolta

Ci troviamo fra i numerosi corridoi intersecantesi di una grande casalbergo alla periferia di Mosca negli anni di transizione fra il passato sovietico e la Perestrojka, in un periodo di carenza abitativa e di passaggio alle privatizzazioni di spazi, come questo, fino ad allora almeno in parte considerato riparo per senzatetto e gente di passaggio: corridoi che, nella dilatazione della loro immagine, diventano immagine del mondo intero (p 28). “Attualmente ho il dono di percepire, anche attraverso le porte, l’odore robusto che si spande, che stilla dai fragranti metri abitativi e il viceversa debole, e ahimé effimero segnale, che dalla loro superficie promana la sostanza uomo. (…) Io li vedo. Li percepisco (i metri quadri) al di là del muro e della porta: avverto i loro odori.  Li aspiro e li riconosco. Odorosi metri abitativi, sono essi ormai a costituire per me il volto sfaccettato del mondo.” (p 30-31)
Il narratore-protagonista dal nome dimezzato, solo patronimico, Petrovic, di Underground ovvero un eroe del nostro tempo (traduzione italiana Jaca Book, Milano 2012), capolavoro dell’autore russo Vladimir Makanin recentemente scomparso, è uno scrittore che ha smesso di scrivere non essendo mai stato pubblicato, ritiratosi ai margini della società come semialcolizzato clochard filosofo, che sbarca il lunario rendendosi utile nella grande casalbergo in qualità di guardiano ora di questo ora di quell’appartamento lasciato vuoto temporaneamente dai proprietari. Nella sua posizione di saltuario custode, aiutante di anziani e donne sole in difficoltà, egli si guadagna il rispetto degli altri (salvo rischiare di perderlo in alcuni momenti critici delle privatizzazioni, quando abusivi e senzacasa fino ad allora tollerati vengono buttati fuori): “Il mio status riconosciuto di guardiano già mi trasformava; in particolare il viso e l’andatura. (Proprio allora ho cominciato a percorrere i corridoi a passo lento, misurato, tenendo le mani in tasca). Curiosamente, a partire dal momento in cui mi sono scoperto guardiano e qualificato come tale, la gente ai vari piani della casalbergo ha cominciato a considerarmi scrittore. Come spiegarlo? Qualcosa è scattato in loro (nei loro cervelli). Ormai ai loro occhi ero lo Scrittore, vivevo da Scrittore. Eppure sapevano e vedevano che non scrivevo una riga. A quanto pare uno scrittore poteva farne a meno.” (p 190). 

Egli prosegue in qualche modo la sua attività di scrittore nell’ascolto delle confidenze dei diversi abitanti dell’edificio, di occasionali compagni di sbornie, dei numerosi amici artisti a loro volta ignorati oppure casualmente divenuti famosi ma oppressi da inquietudine e tormenti, di donne disperate che gli si gettano fra le braccia. In una famiglia gli viene addirittura rivelato che il loro vicino d’appartamento aveva rinunciato al suicidio grazie al fatto di avergli potuto parlare tutte le volte che voleva. Non manca, in alcuni casi, il sarcasmo, per esempio nei confronti di scrittori affermati: “Rimane tuttavia in lui una segreta inquietudine, comune a molti altri personaggi divenuti famosi, i quali sanno che le loro parole e testi, e la loro notorietà (ed essi stessi per giunta) sono effimeri e insignificanti e che solo il piccolo schermo trasforma la loro nullità in qualche cosa. (…) Lo schermo televisivo come gigantesca lente d’ingrandimento di un moscerino di passaggio.” (p 212). Egli vive di incontri, continui racconti, ospitalità altrui e sentimenti talvolta ricambiati. L’ascolto, l’osservazione attenta di se stesso e degli altri, il confronto coi grandi personaggi della letteratura, memoria vivente, viene a far parte intrinsecamente della sua scrittura, puramente mentale ma costante, della propria vita. Egli non verga più romanzi, giudicati dalle case editrici enigmaticamente opere di altro tipo, ma si attiene rigorosamente a un proprio codice morale, derivato dalla grande letteratura, legato al rispetto dell’uomo e privo nel modo più radicale di compromessi col potere: “Il solo giudice collettivo al cui alto verdetto provo il bisogno di sottopormi è quello stesso che ha colmato il mio spirito nel corso di quasi venticinque anni, la Letteratura russa…” (p 184); “E da una delle tasche era saltato fuori un volumetto, la prima parte de I demoni, quasi un lascito da scrittore a scrittore.” (p 459). Per non scendere mai a patti e per non essere giudicato un venduto dai propri concittadini e dalla Storia fa molte rinunce e non esita nemmeno a uccidere. Commette due delitti, il primo in qualche modo ascrivibile alla legittima difesa, il secondo legato al greve ambiente di spie e delazioni che s’infiltra ovunque, compreso l’underground di artisti incompresi, falliti, emarginati, alcolizzati che lo circonda. Dopodiché dovrà fare i conti con Dostoevskij: “ ‘Non trasgredire il divieto di uccidere’: questa lezione straordinariamente essenziale – per esempio in Dostoevskij – resta per noi viva e attuale. Ma vive in quanto idea, astrazione artistica energicamente espressa. In queste vecchie e geniali parole (indubbiamente profetiche per il loro tempo) traspare già il tabù a venire. La letteratura possiede una grande forza di persuasione. E’ un virus potente. (Quella letteratura continua a lavorare dentro di noi.) Ma il non uccidere vergato sul foglio bianco può non diventare il non uccidere su un campo innevato.” (p 191). A dispetto del suo vitalismo, cercherà inconsciamente un proprio castigo: un periodo di Purgatorio (un Inferno limitato nel tempo; si è riconosciuto delle attenuanti) nel reparto per individui ritenuti pericolosi di un ospedale psichiatrico, trovando così il modo di vivere pure lui la sorte toccata allo sfortunato e brillante fratello Venja, rovinato una ventina d’anni prima da funzionari di regime che indagavano sull’arte underground. La sua esuberanza e una punta d’insolenza giovanile si era attirata l’ira di un personaggio suscettibile, a quei tempi autorizzato alla piena libertà d’azione da un potere estremamente repressivo. Un po’ per punizione dei delitti commessi un po’ per il desiderio d’identificarsi con il fratello dalla mente distrutta rimasto incorrotto dalla vita e dalla Storia, anche Petrovic prova la terribile esperienza di un io che a suon di pillole e iniezioni viene “disciolto come nell’acido…” (p 403).
Come tutti gli intellettuali Petrovic  dispone di un io ipertrofico, immerso in se stesso: “… io ero sotto terra, nel sottosuolo dell’underground, chiuso a doppia mandata in me medesimo…” (p 197), in più con la tardiva amarezza di essere rimasto per sempre al palo (p 213). “Da me ci si può aspettare di tutto. Un guardiano, uno scroccone della casalbergo, e nient’affatto un professore a domicilio (Zykov lo sapeva, lo sapeva!), nient’affatto uno scrittore, e per giunta una nullità, uno zero, un senza fissa dimora, ma… ma che non ha svenduto il proprio ‘io’.” (p 540) . “A spaventarmi non era tanto l’idea di essere preso (prima o poi sarebbe successo) ma di sentire calunniare la mia non facile esistenza, così amorevolmente costruita, con gli epiteti di assassino, maniaco, schizofrenico, per loro due più due… Dal loro punto di vista, non avevo nessuna possibilità di uscire dal circolo vizioso. Nella loro variante migliore e più clemente diventavo un caso clinico. Ma quale duello? Quale Puskin sulla neve? Un uomo del Rinascimento? E poi cos’altro?...” (p 334). Infine vorrebbe uscirne, non ne può quasi più di se stesso: “Ecco: avrei necessità di un’idea, un’idea nuova ed efficace, ah, come ne avrei bisogno, qui e ora. Dovrei nuovamente (come l’altra volta!) uscire dal mio soggetto. Come si esce dal vagone del metrò (continuate pure senza di me). Come si cambia paese. Il mio ‘io’ si prendeva troppe libertà (troppa autonomia), era opportuno imbrigliarlo e disciplinarlo. Troppo ‘io’ in giro…” (p 334).
Diversi anni prima ha smesso di lavorare, di far parte attiva di una società dove troppi continuano a venire spossessati di se stessi per salire al mattino sul filobus già stanchi prima di cominciare. Divenuto aghé lievemente inferocito, gli resta la preziosa capacità di apprezzare la semplice ma ricca prosa della vita, come quando in una notte in gattabuia pensa a Malevic. Nel Quadrato nero di Malevic, riflette, da qualche parte fuori campo c’è la luna. “La prosa della vita, devo ammetterlo, era dolce. Essa, come prometteva, donava anche, tra le altre cose, un suono protratto e come eterno, che mi ninnava l’udito con dolci ondulazioni ritmiche dell’aria. In parole più semplici si trattava di un leggero ronfo. Il mio. Era l’esistenza stessa, avvolta nelle fasce del dolce e suadente suono, a cullarmi. Dormivo. A distanza - come un’eco – giungeva da dietro la porta il fresco, giovane russare del druzinnik-piedipiatti, il nostro custode. Lui ronfava, io rispondevo. Prima e seconda voce…” (p 87-88).

Pubblicato su Anobii il 12.12.2017


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