domenica 20 gennaio 2013

Ex cavalieri, ex viaggiatori, ex flaneur


Che cosa è diventato il cavaliere in cerca d'avventure nella narrativa contemporanea? Il vagabondo beckettiano, il relitto umano che si sposta con le  stampelle o vive simbioticamente con i bidoni della spazzatura, l'alcolizzato disperato, lo scarto sociale.
Caduti i miti e le possibilità stesse del grande viaggio, in un pianeta diventato villaggio globale, della meravigliosa avventura, della quete più o meno mistica, della ricerca del Graal; divenuto sempre più raro l'atteggiamento non meno affascinante del flaneur, il passeggiatore rilassato e solitario, scopritore di piccole epifanie nella realtà quotidiana; resistono gli inquieti divoratori di strade cittadine vuote e notturne, gli emarginati dormienti sulle panchine dei giardinetti, le mosche da bar (mi scuso per flaneur senz'accento circonflesso).
L'uomo che dorme di Georges Perec (Un uomo che dorme, 1967, Quodlibet, Macerata 2009) si autoesclude dai rapporti sociali perché non li regge più. Sono troppo pesanti da sopportare: "Se solo l'appartenenza alla specie umana non fosse accompagnata da quest'insopportabile frastuono, se solo i pochi, ridicoli, passi avanti compiuti nel regno animale non si dovessero pagare con questa perpetua indigestione di parole, progetti, grandi partenze. Ma il prezzo è troppo salato per due pollici opponibili, una stazione eretta e una non completa rotazione della testa sulle spalle, questo gran calderone, questa fornace, questa graticola che chiamiamo vita, questi miliardi di intimazioni, incitamenti, moniti, esaltazioni e disperazioni, questo mare di obblighi a non finire, quest'eterna macchina per produrre, macinare, scialacquare, trionfare su ogni insidia e ricominciare da capo, questo dolce terrore che vuole regolare ogni giorno e ogni ora della tua esile esistenza!" (pp 44-45). 


Così comincia il suo deambulare senza meta: "Camminare lungo il fiume, rasente ai muri. Perdere tempo. Tenersi lontano da ogni progetto, da ogni smania. Essere senza desideri, senza risentimenti, senza ribellione." (p 54); "Camminata interminabile, instancabile. Cammini come un uomo che porta valigie invisibili, cammini come un uomo che segue la propria ombra. Cammini come un cieco, come un sonnambulo, incedi con passo meccanico. interminabilmente, fino a dimenticare che stai camminando. Flaneur minuzioso, nictòbata perfetto…" (p 94). Salvo poi scoprire che la sua ribelle rinuncia non porta a qualcosa di eroico e comunque interiormente gratificante: "La trappola: quest'illusione pericolosa di essere - come dire? - inespugnabile, di non offrire alcuna presa al mondo esterno, di scivolare sulle cose, intoccabile, gli occhi sbarrati che guardano avanti, tutto percependo, fino ai minimi particolari, ma nulla conservando." (p 113); "Toccare il fondo, non significa niente. Né il fondo della disperazione né il fondo dell'odio, né il fondo della decadenza etilica o della solitudine orgogliosa." (p 139); "Non hai imparato niente, tranne che la solitudine non insegna niente, che l'indifferenza non insegna niente: era un'impostura, una fascinosa e ingannevole illusione. (…) L'indifferenza è inutile. Puoi volere o non volere che importanza ha? (…) La tua neutralità non significa niente. La tua inerzia è altrettanto vana della tua rabbia. Credi di passare, indifferente, lungo le strade principali, andando alla deriva nella città, seguendo la folla, penetrando i giochi delle ombre e delle crepe. Ma niente è accaduto: nessun miracolo, nessuna esplosione." (pp 140-141). "Per molto tempo hai costruito e distrutto i tuoi rifugi: l'ordine o l'inazione, la deriva o il sonno, i giri notturni, i momenti neutri, la fuga delle ombre e delle luci. Forse potresti anche continuare a mentirti, ad abbrutirti e a impegolarti. Ma il gioco è finito, il grande festeggiamento, l'ebbrezza fallace della vita sospesa. Il mondo non si è mosso e tu non sei cambiato. L'indifferenza non ti ha reso indifferente. Non sei morto. Non sei impazzito. I disastri non esistono. Sono altrove." (pp 141-142).
Beckettiano e melvilliano, questo personaggio di Perec, per espresso rimando dell'autore che cita il celebre Bartleby a p 136 del testo. Bartleby è stato spesso interpretato come la figura di un ribelle assoluto, intransigente e inflessibile fino alla follia.
I racconti di  Giorgio Mascitelli Catastrofi d'assestamento (Editrice zona, Arezzo 2011) offrono invece una variante notevolmente umoristica dei personaggi alla Beckett, alla Melville e alla Perec. Camminatori e bevitori sottoccupati o disoccupati, talvolta in amicizia con clochard e handicappati, sono vittime di apocalissi minime e buffe.
Ecco un'immagine di questi passeggiatori: "Pronunziate queste parole, il piacentino tracheotomizzato e la sua discendenza s'allontanarono in una loro fretta claudicante, vagolante, gracchiante…" (p 26). Oppure: "D'una di queste porte provocai persino il suonare d'un antiquato allarme che fu la colonna sonora del mio vagabondaggio (io vagabondo che son io) per la città deserta." (p 48).
Cito testualmente da una recensione di Sergio La Chiusa apparsa su Nazione indiana il 20-10-2011 (“Inganni e autoinganni nell’Italia d’oggidì”):

Il malessere che porta il protagonista di “Traversata della città in festa (scemo di guerra)” a vagare per Milano “con il viso accigliato e con tutti gli altri ammennicoli somatici che ineriscono più strettamente alla depressione” si calma infine in un’agenzia di viaggi. Anche il “dissenso” dai modelli di comportamento dominanti è previsto e regolato dalla macchina sociale, che in luogo di avventurosi viaggi della conoscenza non concede che mediocri viaggi organizzati. Anzi, viaggi virtuali, come quello proposto dal titolare dell’agenzia, che per una “modica somma” invita il cliente a provare il simulatore di volo “Astolfo”, una specie di Google Earth che permette di effettuare sopralluoghi delle località turistiche proiettando sulle pareti immagini aeree e simulazioni di luoghi di vacanza. Il volo di Astolfo, la cavalcata sino alla luna per recuperare il senno d’Orlando, nell’Italia contemporanea non è che un volo simulato, una proiezione d’immagini promozionali che invece di restituire il senno lo va sottilmente erodendo.
Lo “scemo di guerra”, l’io anonimo stordito dalle moderne occasioni di svago, ha per così dire un alibi storico, come chi si è rimbecillito per via di una guerra, anche se si tratta di una guerra senza eserciti contrapposti, pervasiva e non dichiarata.”

In un'altra di queste avventure puerili e sconcertanti, contenuta nel racconto "Un trancio di vita", un ragazzo cede la fidanzata a un amico in cambio di alcune caramelle, spiccioli e biglietti del tram che si trova in tasca al momento dell'imprevedibile transazione:
"Nel prosieguo della serata in un sussulto d'orgoglio vado a mingere. Incredibilmente Roby si reca anche lui al cesso. In quel luogo, da veri uomini va da sé, ci parliamo.
Vendimela, è dolce assai l'amica tua.
Io non ho materialmente il tempo di meravigliarmi che nella meravigliante Milano siano possibili transazioni di tal fatta, perché grato devo afferrare l'ancora di salvataggio che Roby mi porge. Allora contiamo le caramelle, liquirizie, nichel e biglietti del tram concordati. Poi mi infilo la giacca ed esco a riveder le stelle. C'è anche un buono per dieci caffè." (p 118).
Dalla comica abiezione pare non esservi riscatto: "Finalmente sono caduto negli abissi neri di abiezione e posso dunque risollevarmi. Cerco un confessore e gli racconto tutto, cioè abbastanza. Attendo senza impazienza l'assoluzione, se non me la dà, vado da un dottore, e racconto con piacere." (p 119).
Al ritorno dal confessore questi "bofonchia qualcosa di relativo al volontariato e all'immensa bellezza del farsi prossimi gli uni degli altri sacrificandosi. Ora mi inquieto: cosa vuol dire lavorare nel volontariato? Io sono già volontario della mia volontà per la quale lavoro con insistenza e devozione. Io ho passato mille giorni percorrendo le medesime scale e aiutandomi a discenderle. Io ho tirato dritto impavido e conscio di me. Io lavoro già nel volontariato. Io sono volontario della mia propria volontà.
Allora per la prima volta mi pare di essere un uomo pio a cui mancò non il coraggio e lo zelo, ma l'aiuto della sorte. Il confessore però non capisce, perché chiaramente gli manca la metodologia specifica.
Comunque ripasserò per il commiato e i ringraziamenti." (pp 120-121).



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