Che la Repubblica delle lettere sia un'aristocrazia non
v'è dubbio; molto difficile metterlo in discussione (una democrazia non può essere perché la società è divisa in classi e non tutti hanno lo stesso accesso alla conoscenza, le medesime possibilità di sviluppare i propri talenti eccetera eccetera). Il governo dei migliori,
cioè la loro capacità creativa o critica, è avallato dalla qualità dei testi
prodotti e dal solido legame dimostrato col passato. Perché in sostanza la
selezione dei migliori dovrebbe avvenire in base al confronto col passato (quale altra pietra di paragone abbiamo se non il passato?): se un autore
si dimostra all'altezza di questo confronto, può dialogare coi suoi pari, altrimenti no).
Quando però la selezione avviene in un circolo
vizioso anziché virtuoso, cioè non avviene sulla base di criteri qualitativi
(seppure rivedibili e discutibili nel tempo) ma su altri criteri più legati
alla convenienza, alle alleanze, allo scambio di favori… in questo caso i
migliori non saranno i migliori e la Repubblica avrà il carattere odioso dell'oligarchia.
Al giorno d'oggi non so se qualcuno legga ancora
libri. Il pubblico sembra più interessato ai personaggi, meglio se televisivi,
che al testo prodotto; alle personalità degli autori che agli scritti in sé.
Persino dei premi Nobel molte volte si sente più parlare per quello che hanno
fatto che per quello che hanno scritto, per la loro encomiabile militanza, per
il ruolo simbolico che hanno rivestito, piuttosto che per l'eccezionalità dello
stile. Persino quando nascono le grandi querelle letterarie il conflitto sembra
innescato più da una questione etica che specificamente relativa all'arte. Come
se alla fine fossero i rapporti umani quello che conta più di ogni altra cosa.
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