... una cosa importante. Piace il "realistico consolatorio", scrive, dopo acute, amare considerazioni, degne di altre lettere a nessuno al femminile (come ho lasciato intendere nel post Naufragare non è dolce) la scrittrice Claudia Zaggia, una mia simile, nel suo Naufraganti (Italic Pequod 2015). Le parole precise sono queste alla pagina 43 del romanzo: "Ormai so che cosa piace a quelli che danno i premi, alle giurie piace il realistico consolatorio facilmente detto e con dei buoni propositi, i buoni propositi sono tutto nella cattiva letteratura." (pag 43).
Consolatoria o meno, cattiva o buona letteratura che sia, soffermiamoci ancora una volta sul realismo e limitiamoci a riconoscere che in Italia il realismo di stampo sociologico ha avuto una lunga stagione, che dura tuttora.* Anche alcuni romanzi da me citati e apprezzati sono nati nel suo alveo, l'ho ammesso, sebbene non abbia risparmiato attacchi alle sue forme più tradizionali a mio avviso superate (il narratore extradiegetico, il distacco pseudoscientifico).
Va però riconosciuta una valida giustificazione storico-sociale a questa scelta preminente degli scrittori di adesso: la storia italiana recente, come la nostra stessa contemporaneità, è piena di fatti criminosi riconducibili a importanti ed estese organizzazioni dal potere capillarmente diffuso e ben radicato nel territorio. Oltre ai numerosi traffici illeciti, agli scandali frequenti, che lambiscono ruoli e personalità di spicco del mondo politico-finanziario, oltre insomma alle note mafie che per certi aspetti ci rendono famosi nel mondo, non si possono non ricordare gli anni oscuri dei piani eversivi e delle stragi col relativo insabbiamento delle indagini e poi ancora processi legati a gravi reati (per esempio ambientali), che faticano ad arrivare a sentenza.
Il tale contesto corrotto, violento e opaco è comprensibile che varie persone che aspirano alla giustizia desiderino fare chiarezza, illuminare zone oscure. Questo può essere un ottimo motivo, credo, per lo sviluppo del giornalismo d'inchiesta e delle sue ramificazioni, vedi reportage narrativi o romanzi-saggio, così come è un valido motivo del grande interesse mostrato dal pubblico per tale materia.
Una ragion d'essere più che valida. Ne ho tratto ulteriore conferma leggendo il voluminoso Malastoria. L'Italia ai tempi di Cefis e Pasolini di Giovanni Giovannetti (Effigie, 2020), un libro di ampio respiro sul periodo della strategia della tensione (e non solo**). Fra le altre cose si legge che vi fu "un mandato al silenzio sugli anni bui della Repubblica, da Portella in avanti, alla base del tacito accordo di potere" tra Dc e Pci (pag 545). E ancora: “all’impunità scelleratamente dispensata agli assassini stragisti e ai loro molteplici mandanti Aldo Giannuli fa risalire il successivo proliferare della corruzione politica in Italia (da diffusa qual era a sistemica), i recenti intrecci tra lo Stato e la Mafia, l’impetuosa avanzata dell’economia criminale e, non ultimo, il tangibile logoramento della legalità repubblicana” (pag 565).
Con queste premesse è naturale che la produzione giornalistica sia cresciuta in volume e prestigio fino a fagocitare o semplicemente ibridare altre forme di scrittura, anche se i grandi innovatori della letteratura del Novecento (mi limito a nominare Joyce, Beckett, Kafka, Faulkner) andarono in altre direzioni***.
* Alcune recensioni a romanzi recenti ci fanno ancora una volta presente come i lettori, gli interpreti, i critici, siano molto affezionati al personaggio-maschera sociale. Francesco Forlani in un articolo su Nazione Indiana (“Inno a Lagioia” del 22.11.20) sulla Città dei vivi ricorda un saggio di Clément Rosset (Lontano da me. Saggio sull’identità) “e rileggendolo per questa occasione mi sono reso conto di come La città dei vivi vada letto come un essai/roman sulla questione dell’identità ai tempi dei social. La tesi di Clément Rosset è che, per quanto ci si ostini a pensare ancora all’individuo come una persona la cui ‘vera’ identità è nascosta dalla sua identità sociale, non esiste nessuna identità al di fuori di quella sociale.”; “Nicola Lagioia con uno stile ancor più che neutro direi neutralizzato (…) assolve il compito di costruire un tempo, un luogo, i personaggi di questa vicenda, in poche parole le tessere grazie alle quali sarà possibile per il lettore ‘ricostruire’ le vicende, in un mosaico che è essenzialmente sociale.” Forlani dopo qualche riga fa riferimento con precisione al “determinismo sociale”: le cose sono andare così perché in quel contesto non potevano andare diversamente. Su Antinomie (11.09.20) Filippo Polenchi su Flashover di Giorgio Falco: “Carella Jr. ha in testa solo desideri consumistici: il solito armamentario mimetico di chi i soldi li ha davvero.”; “Il cugino padrone è agìto dal capitale, perché l’indebitamento è ‘forma idolatrica essenza del capitalismo contemporaneo’ ed è funzionale al capitale stesso: Carella è un pupazzo dalle motivazioni opache, surgelato nelle sue opzioni, senza scelta. Carella è una maschera del capitale…”. Giorgio Mascitelli (Nazione Indiana 16.11.20) sui Pellicani di Sergio La Chiusa: “… l’ipocrisia sociale è introdotta linguisticamente nel rapporto tra i due personaggi tramite il fatto che il protagonista mutua nel suo linguaggio le convenzioni e i modelli argomentativi del discorso ufficiale. Il discorso neoliberista, come ricordava Sloterdijk in un suo celebre libro, esorta a cambiare la propria vita ossia a migliorare le prestazioni ed ecco che Pellicani junior fa propri gli obiettivi della società…”.
** Sul Corriere della Sera del 30.11.2020 Paolo di Stefano definisce Malastoria il libro “più completo” tra quelli che, citando Walter Veltroni, provano a offrire "una nuova importantissima chiave di lettura di alcuni episodi misteriosi della storia recente del nostro Paese, non esclusa la morte di Pasolini".
*** Molto esplicito sullo stretto rapporto dei romanzi odierni con il giornalismo d'inchiesta, in particolare con la cronaca nera, è Mario Barenghi nell’articolo “Flashover e La città dei vivi. Falco/Lagioia: i neristi” (Doppiozero 23.12.20), dove, soffermandosi su questi ultimi due lavori di successo, in qualche modo emblematici, osserva che “i narratori raccontano fatti di cronaca rimanendo aderenti alla cronaca, cioè senza trasfigurare i faits divers in un autonomo intreccio romanzesco: orientamento avvalorato dalla puntigliosa conservazione dei nomi reali, inclusi quelli di personaggi pubblici.”; “«Nerista» è un termine corrente nel gergo giornalistico, designa chi si occupa di cronaca nera, crime news.”; “… il riferimento più appropriato per questi libri di Falco e Lagioia credo sia quello che a suo tempo Tom Wolfe definì «New Journalism»: un tipo di narrazione d’inchiesta che non si périta di ricorrere a materiali eterogenei e spurî, brani di interviste, articoli di giornale, documenti – e oggi possiamo aggiungere, sms, email, whatsapp, post sui social.”; “I narratori raccontano fatti di cronaca rimanendo aderenti alla cronaca, cioè senza trasfigurare i faits divers in un autonomo intreccio romanzesco: orientamento avvalorato dalla puntigliosa conservazione dei nomi reali, inclusi quelli di personaggi pubblici.”
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