venerdì 27 gennaio 2012

Intervista a Effe di Self Publishing Lab

Ho scoperto il sito di Self Publishing Lab seguendo in rete alcune discussioni sul self publishing. Innanzitutto un chiarimento: che cosa offre questo “laboratorio” a un aspirante scrittore? 

Il sito del Self Publishing Lab (http://www.selfpublishinglab.com/un-laboratorio-per-autori-e-lettori/ ) NON è il sito di un’agenzia di servizi editoriali o di Print On Demand; noi non pubblichiamo assolutamente nulla, ma ci “riuniamo” in Rete per discutere ed approfondire le tematiche (e le pratiche) legate al self publishing. Si tratta di un “lab”, appunto, di un workshop permanente, di un luogo di formazione e diffusione culturale, che nelle nostre intenzioni vuole offrire delle conoscenze e delle competenze a quegli autori che volessero far da sé, cercando di coniugare l’autonomia operativa con una costante ricerca di qualità editoriale. 

L’editoria digitale è destinata a cambiare il volto dell’editoria tradizionale? Si può azzardare l’ipotesi che sottrarrà il monopolio della produzione libraria alle attuali case editrici? 

L’editoria digitale non cambia solo il volto dell’editoria, ma anche della stessa esperienza di lettura. Questo significa che la diffusione del sapere passa per nuovi canali ed esperisce nuove modalità: un processo a cui bisogna prestare grande attenzione. L’editoria italiana attuale - caratterizzata, alle sue estremità, dalla presenza deformante di pochi giganti che controllano tutta la filiera produttiva, e da una miriade di editori a pagamento - può sicuramente trovare nel digitale la possibilità per creare nuovi spazi a favore di tanti altri soggetti. Il digitale però ha una sua grammatica, richiede delle competenze e soprattutto un cambio di visione: non si può più vivere di rendite (materiali e simboliche) ma bisogna comprendere che sono mutati gli stessi concetti di qualità, di autorità, d’intermediazione. 


Quale aspetto delle nuove proposte (e-book, supporti digitali, pubblicazione diretta su siti Web) vi sembra più degno di attenzione? 

Il recente arrivo del Kindle Store di Amazon fa ben sperare in merito alla diffusione di dispositivi di lettura, un pre-requisito imprescindibile per qualsiasi ragionamento sulla diffusione della lettura e dell’editoria digitale. Ora, sono due le cose che stanno accadendo e ci paiono degne di attenzione: la prima è che si passa – lentamente – dall’idea di libro al concetto di “medium”, cioè di veicolo, ampiamente inteso, di contenuti. La seconda è che si stanno seriamente mettendo in discussione i modelli classici di business – vale a dire di promozione e diffusione libraria – a tutto vantaggio di forme più includenti e facilmente accessibili: l’accessibilità, la reperibilità e le possibilità di condivisione dei contenuti digitali costituiscono ottime occasioni di promozione della cultura. Ma vanno tenute lontane da qualsiasi tentativo di monopolizzazione. 

Parlando di libro come “medium” per associazione mi hai richiamato alla mente una riflessione di Walter Siti pubblicata su Le parole e le cose il 31 ottobre 2011. Ne riporto alcuni passi: 

“Mi interessa quel che dicevo a proposito della letteratura-intrattenimento e della spinta culturale dei tempi nuovi a polverizzare la struttura conoscitiva del romanzo; mi sembra che da allora le cose si siano chiarite e aggravate. Ora l’operazione parte già nella fase di elaborazione della scrittura, nelle officine degli editori che programmano un romanzo mettendolo in sinergia con la sua futura visibilità, organizzando le campagne di lancio in base alla quantità di elementi di richiamo extra-letterari che il romanzo stesso può convogliare o di cui può essere l’innesco. Il romanzo è poco più di un pretesto per parlare di cronaca, di politica, di sesso, di rapporti generazionali, di musica e di cinema; il testo di intrattenimento che si propone al pubblico è in realtà un macrotesto in cui convergono frammenti di giornale, interviste, il chiacchiericcio della Rete, l’appeal dell’autore – e anche una ‘cosa scritta’, una specie di mattoncino che a nessuno verrebbe in mente di leggere due volte. Il romanzo propriamente detto si disperde in una nebulosa di sensibilità verbale ed emotiva che getta i suoi rizomi e può anche fruttificare molto; ma che è complementare al bisogno della politica, della storia, del giornalismo, della sociologia eccetera di darsi un’aria artistica, infarinando i dati certi con quello che Adorno chiamava ‘il basso desiderio delle vette’. Questo fascio macro-testuale ha sostituito quasi del tutto lo spessore del romanzo inteso come coerenza formale di diversi livelli: dal disegno narrativo al gioco dei personaggi e fino all’attenzione per la grammatica e la fonetica. Alla lingua quasi nessuno ci pensa più…”; 

“Nelle società occidentali la maggior parte della popolazione va a scuola per molti anni e ha molto più tempo libero di prima; quindi è molto aumentato il bisogno di divertimenti ‘intelligenti’. La letteratura ha obbedito a questo bisogno sociale e sta diventando, sempre di più, una forma di entertainment di massa. L’ambizione, rinascimentale e poi romantica, che la letteratura fosse una forma di educazione, sta scomparendo, e questo in parte è un bene perché libera la letteratura dal dovere di essere didascalica e comme il faut. Ma le forme dell’entertainment si sono modificate, con l’affermarsi definitivo della civiltà dei media. Si potrebbe dire che si sta perdendo la ‘fisionomia individuale’ del prodotto di intrattenimento, e che sempre di più si impone una ’estetica del flusso’, per cui il divertimento consiste nell’essere bombardati da una moltitudine non-strutturata di informazioni che ci danno l’illusione di possedere la varietà del mondo (quindi confermano il nostro privilegio di consumatori), e nello stesso tempo ci esimono dalla responsabilità di interpretarlo. Il mondo intero è lo spettacolo, anche le situazioni sono avvenimenti e la realtà diventa ‘attualità planetaria’. Proprio mentre sembra che non esista più un ‘altrove’, e che in tutto il mondo siamo vicini di casa, proprio adesso si osserva un enorme bisogno di esotismo: sono esotici i romanzi del Terzo Mondo, letti da noi, sono esotiche le situazioni di estrema povertà ed emarginazione, sono esotiche le azioni ‘forti’ come la guerra e l’omicidio. La pubblicità di una libreria romana dice ‘pochi titoli per assaggiare il mondo’. La letteratura diventa un accessorio del turismo. (…) La letteratura viene quindi ‘polverizzata’, distrutta nella sua essenza di struttura complessa e irripetibile; anche perché ci si annoia del tempo che sarebbe necessario per afferrarla. Invece di una identificazione con le strutture del testo, ci si accontenta di una pre-fruizione rapida: ci si appropria in fretta degli elementi che ci seducono e ci consolano, e si passa ad altro. Si agisce con la letteratura esattamente come si agisce con le tragedie della realtà.”; 

“È come se anche per la letteratura potessimo utilizzare lo zapping che utilizziamo per la televisione. Uno zapping mentale, che permette di scavalcare la coerenza del singolo testo. Questo porta a una conseguenza anche sul piano morale: porta al fatto che tutti i testi diventano ugualmente inoffensivi, che tutto può essere detto perché da tutto si può svicolare e nulla ha conseguenze. È questa la particolare forma di censura che è caratteristica dei governi democratici: mentre nei regimi totalitari si vieta alla letteratura di parlare di certi argomenti, nei governi democratici si annulla qualsiasi argomento nel rumore, la trasgressione viene affogata nello spettacolo.” (articolo intitolato “Il romanzo come autobiografia di fatti non accaduti”, questo il link http://www.leparoleelecose.it/?p=1704 ). 

La riflessione di Siti è piuttosto critica e preoccupata per le possibili conseguenze dei cambiamenti in atto. Tu come valuti le sue perplessità per questa nuova forma antropologica di lettura? 

L’analisi di Siti è condivisibile nel suo aspetto descrittivo, ma solo se si assume il suo punto di vista, quello di un letterato, di un romanziere. Spesso mi capita di osservare, nell’universo delle discussioni letterarie in Rete, questa erronea equazione: editoria = letteratura. Eppure è evidente che i prodotti editoriali vanno ben al di là dei romanzi, grandi o piccoli che siano, di genere o di nicchia. Trovo interessante e stimolante interrogarsi su come evolva l’idea stessa di romanzo, e gli ultimi tempi (soprattutto dopo la pubblicazione del memoriale NIE da parte di Wu Ming) hanno visto un dibattito molto intenso su tali argomenti. 
Ma gli interrogativi dei letterati toccano solo una parte dell’industria editoriale italiana e molto spesso hanno il grande limite dell’autoreferenzialità. Le discussioni che ne nascono – in Rete come sulla stampa – riguardano un numero esiguo di addetti ai lavori, e spesso finiscono per generare chiusure, antipatie, fastidi invece di aprire a nuove voci, nuovi contributi. Si guardi il commentarium in calce al testo di Siti, per esempio, o anche le regole che lo stesso Le parole e le cose ha dovuto ribadire per l’uso dei commenti ( http://www.leparoleelecose.it/?p=2783 ) ! O quanto, in maniera provocatoria ma non lontana dal vero ha sostenuto di recente Alessandro Bertante: http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/01/07/seminatori-dodio/181944/ . Quelle discussioni, oltre ad avvilupparsi in una spirale di rancori, hanno il grande difetto di ignorare i lettori comuni, che in fondo sono l’ossatura su cui si fonda la stessa pratica editoriale: esisterebbero i libri se non esistessero i lettori? 
Ora, che la lettura – generalmente intesa – sia mutata e stia continuando a mutare è cosa nota, da quando gli schermi dei computer (e poi dei monitor sparsi ovunque, dei cellulari, dei tablet…) hanno invaso il nostro quotidiano. Che essa segua un movimento talvolta incontrollato e incontrollabile su un piano orizzontale (lo zapping a cui fa riferimento Siti) invece di scendere nella profondità di un solo testo, è anch’esso un fenomeno osservato da tempo; oltre agli studiosi, se n’è accorto anche un divulgatore come Baricco, nel suo I barbari. Ma del resto la fruizione di un testo può prodursi a più livelli, o, detto altrimenti, non tutti i lettori sono critici letterari o filologi. 
Eppure le direttrici di quest’evoluzione non sono né predeterminate né immutabili: qui sta la grande sfida di tutte quelle pratiche di liberazione (il self publishing per gli autori, il social reading per i lettori, l’editoria digitale) che le tecnologie digitali consentono: coniugare la molteplicità dei contenuti con la ricerca della qualità, in primis editoriale e poi, perché no, letteraria. Se i letterati cominciassero ad alfabetizzarsi sulla grammatica del digitale e a sporcarsi le mani nel confronto con il mezzo tecnico magari avrebbero modo di ritrovare – o di ricostruire – quello spessore perduto di cui tanta nostalgia sembrano avere. 

Si può ipotizzare uno scenario futuro in cui i vari scrittori dialogheranno in Rete con altri scrittori o con i lettori, pubblicando direttamente i loro testi su siti e blog personali (o collettivi) senza la mediazione di alcun editore? 

Questo scenario, a dire il vero, esiste già: dai pionieri Wu Ming a Giuseppe Genna, dai romanzi on-line ai social network letterari, le conversazioni in Rete tra scrittori e lettori non sono certo una novità. Il ruolo dell’editore, oggi, dovrebbe essere quello di favorire queste conversazioni, non di controllarle, ma di disseminarle viralmente. Di fronte al processo di disintermediazione che sta caratterizzando l’editoria, l’unica strada a nostro modo di vedere percorribile per continuare a fare il mestiere di editore è quella di puntare a un dialogo condiviso con gli autori e i lettori, affinché la qualità di una pubblicazione sia il frutto di un accordo tra tutte le parti. 

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