giovedì 19 gennaio 2012

Giocare a mangiarsi

Incipit di un romanzo apocalittico di Mariano Bargellini

Su questo tormentone del videogioco degl’insetti, chiamato confidenzialmente “giocare a mangiarsi”, su questa febbre contagiosa (e perniciosa per la nostra società), finora le televisioni e i giornali ci hanno detto il meno, mi sembra. Ah sì? Vuoi scherzare! E gl’indugi raccapriccianti della telecamera sulle pozze di sangue negl’interni della gente normale, nelle case di famiglie tranquille, felici, e talora la veduta persino (benché rapida, da guardoni timidi) di quei corpi stritolati (orrore!) da avvinghiamenti spinosi, da abbracci irti d’aculei, o dai colpi di mandibola di un microcosmo zoologico ingranditosi a scala umana, e le facce delle vittime sfigurate gonfie livide per i baci maritali filiali fraterni, non già dati, dardeggiati inferti con il pungiglione e il veleno? Insomma, non siamo informati ancora abbastanza? Gl’imitatori degli insetti e i discepoli dell’arte di uccidere loro propria sono seguiti e quasi adulati, semmai, dalle televisioni e dai giornali. E godono di spazi televisivi e hanno dei ritagli da sventolare (le sbrodolate degli opinion makers) più che qualsiasi seguace d’altre mode e setta d’assassini convenzionali. Come si fa a sostenere che i mass media occultano la verità? O una parte. E che ci abbiano detto il meno su certe conseguenze delittuose (entro le mura domestiche, principalmente) della passione nazionale, della mania dilagante inarrestabile per questo videogioco degl’insetti: che a chiamarlo “giocare a mangiarsi” adesso vengono davvero i brividi. Purché si sia immuni, ancora, da un contagio furioso. Purché si sia ancora, oltracciò, dotati di coscienza umana, non dell’istinto infallibile di un automa qual è l’insetto, virtuale, siamo d’accordo, ma diventato nostro padrone, nostro pilota cibernetico, dacché abbiamo deciso, stolti, di chiuderci nella sua corazza e di aprire un sito (scusate il bisticcio di parole), d’aprire (tra gli insetti!) un sito-internet, e, va da sé, di chiuderci (noi uomini!) in quelle loro corazze d’ombra. Là, nel Theatro degli entòmati. Là, nel Theatro degli autòmati.
Ma sì, io non lo nego: c’informano e ci ragguagliano sempre (con meticolosità morbosa, giusto), ogniqualvolta un omicidio, o anche, come spesso avviene, l’eccidio d’un’intera famiglia, eccetto uno dei figli, cioè a dire l’assassino, magari (macché magari, purtroppo!), sia facile ricondurlo ed ovvio addebitarlo al videogioco degli insetti. Ogniqualvolta dei deboli di mente privi di Super-Ego e giocatori accaniti, allucinati, di un wargame da microcosmo di tutti contro tutti agiscono nella realtà l’impulso a predare valevole nella finzione, si mascherano da insetti e s’armano degli arnesi loro da guerra (stante la dismisura, micidiali), e nell’appartamento, ben arredato e provveduto d’ogni comfort, entra una ventata di follia dalla finestrella elettronica; dopo arrivano i cronisti e l’occhio della telecamera comincia a curiosare zumando in lungo e in largo sulle rovine, sulle pozze di sangue di uno scannatoio senza bottino. Ma sì, dài, lo so, la guardo anch’io la televisione, li leggo anch’io i giornali. Va da sé: io non mi riferivo a questo buco nell’informazione. Ma quale buco, quale blackout? È vero: ci somministrano, semmai, un’overdose settimanale (e anzi giornaliera, talvolta) di simili atrocità commesse dalle maschere, quasi, di un nefando continuo carnevale. E dunque? E dunque bisognava mangiar la foglia: se io mi sono interrotto, da me, villanamente, e mi son tolto la parola, già alla terza riga, coprendo la mia stessa voce colla prolissa obiezione da ventriloquo, è che mi proponevo di aumentare la sorpresa, di suscitare un senso di sbigottimento, quando avrei comunicato, di lì a poco, nel paragrafo successivo, la mia scoperta. Ho scoperto che degli insetti disegnati al computer, e cioè virtuali, hanno il potere, inspiegabile e insidioso, di uscire da un habitat immaginario, dalle nicchie e dai siti di un videogioco deleterio, destabilizzante, e di rovesciarsi all’esterno, d’invadere il mondo, se qualcuno non li fermerà. Saltano fuori dal monitor di un computer, qualora siano delle pulci o delle cavallette; nel caso che, invece, sia uno scarafaggio, noi lo vediamo zampettare, a mo’ di bauletto semovente di lacca nera, prima sul nostro tavolino e sulla stessa tastiera, quindi sul pavimento: allora sì, i tasti conculcati, schiacciati, mai più t’ubbidirèbbero, e cederèbbe il tavolino, sotto il peso del mostro, e il portatile si spaccherèbbe, ahi!, con tutto ciò che ha in memoria, piombando rovinosamente per terra; dato che ha la corporatura di un nano a carponi, però fatticcio, obeso, codesta controfigura entomologica va a saper di chi; ma per fortuna è un ente virtuale, privo di peso, imponderabile. Un calabrone, naturalmente, si fionderà fuori dallo schermo con il suo volo focoso. E così via, tralascio altri esempi. 
Ehi te, lettore babbuasso o babbaccione, e te, gentile lettrice babbalocca o tarlocca, che cosa speri, di divertirti alle mie spalle, di ridere di me? Smorza il tuo ghignetto, oh babbalea, oh babbeo. Non sono pazzo, disilluditi. Io non confondo le mie fantasie con ciò che vedo. E sono pronto a confessarlo: dicendo che gl’insetti del forsennato videogioco han cominciato a saltare fuori, ingigantiti, dal monitor del mio computer (del mio e dei vostri), sì, a saltarne fuori, o a volare, o a zampettare, insetti da delirio, sul pavimento della nostra stanza; non a caterve, non a sciami, ma alla chetichella, isolati; così dicendo, lo confesso, esageravo. Ho fatto uso, credo, d’un’iperbole. E forse, anche, d’un’allegoria. Per quanto, hem, però… basta, è prematuro parlarne. Per il momento conviene limitarsi all’indubitabile, relazionare (pardon) su dei fenomeni provati, benché difficili da rilevare; e tali che, difatti, io solo li ho rilevati, a quanto sembra. Televisioni e giornali vanno prosciolti, dunque, da quell’accusa di abbondare in dettagli raccapriccianti, in scene truculente, tarantolati come sono dal dèmone dell’audience, ma nel contempo, si sospetta, qual diversivo, per una volontà d’occultamento trasmessagli dall’alto, dalle superne sfere o stanze del potere? Non mi pronuncio. È mio costume di scrittore, la penna qui sul foglio, dipoi i tasti del computer, adoperarli esclusivamente per la ricerca della verità. A salti io procedo, ma con prudenza. E quel che scrivo, le mie antenne l’hanno già vagliato. La fantasia matta io preferisco tenerla legata. 
Stavo dicendo, ammesso pure che l’evasione alla spicciolata degli insetti (o meglio, dei nostri alter ego nel videogioco degl’insetti) dal loro habitat virtuale e dai monitor dei nostri computers sia un’iperbole immaginosa e un’allegoria azzardata (almeno per adesso), c’è non per tanto di che allarmarsi, mi sembra. Un quidam giovane e trionfante, un single, uno yuppy, all’improvviso lo vedi strascinare una gamba, mentre spinge il carrello al supermarket, e brancolare in un modo strano, levando dal manubrio del carrello ambo le mani, come se risalisse a fatica su per la galleria della sua tana sotterranea, sgranchendosi le dita con l’impacciato zampettio d’un curculione ammaccato. E che, salticchia su un piede solo? Che fa? Niente di strano: egli rivive e somatizza un infortunio immaginario. Una sua zampa, di fatto, la zampa destra del terzo paio, quello di dietro, sì, una sua leva di saltatore, lui ieri notte l’ha persa: gliel’ha trinciata, a ‘sto grillo, la mantide venuta a trovarlo. Sicché, ortottero, non coleottero, non curculionide, l’amico, lo yuppy: fanatico d’un videogioco i cui rovesci e danni virtuali hanno ripercussioni nella vita e strascichi. 
La morte d’inedia, davanti al suo computer rimasto acceso, di quell’ingegnere miliardario che viveva solo, condannatosi per avarizia agli arresti domiciliari, voi non lo sapete, ma è stato un delitto consumatosi tra gli insetti, perpetrato in Theatro insectorum. Non credete ai giornali! Il quidam (un ragno nero, un ragno delle cantine) abbiamo letto che per seguire in tempo reale tutte le borse del pianeta Terra, da New York a Babilonia, in breve, là dove a Satanasso gli pare, viveva in clausura, acceso sempre il computer, giorno e notte. Aveva smesso di lavarsi e di cambiarsi, puzzava come un barbone, tale e quale anche nell’aspetto: la barba squallida, infeltrita, sporca; non mica trascurata per vezzo, conforme all’immagine (al look) del vip italico guancia di putto irsuto. Guancia a somiglianza di natica lanosa, il vip nostrano, da quel montone ch’egli è della sua mamma Kybebe, la Grande Dea Madre degl’italiani. Morto d’inedia, di fame, è vero, col frigo pieno di cibarie, il disgraziato. Ma per un altro motivo da quello divulgato e ufficiale. Il sordido avaro e giocatore asceta in borsa, ragno delle cantine nel videogioco degl’insetti, lo ha fottuto una vespa, al termine di un astuto convulso match. Di modo che il predone, vinto e declassato a preda, paralizzato s’aggiunga dal colpo di pungiglione del suo competitor, si è lasciato portar via da lui, tirare per una zampa verso il sito del suo pugnalatore. Il cui pugnale o dardo, o la siringa che gli arma la bocca, e che gli ha trafitto la pancia a quell’anacoreta in casa propria, s’è moderata con il veleno e astenuta dall’infierire: perché la cacciagione conviene conservarla fresca, e anzi viva. Sì, in Giocare a mangiarsi, ciascun insetto di puntini elettronici, ciascun insetto digitale, ripete i comportamenti del suo modello. Eccetto che, dietro la maschera entomologica, ci siamo noi al postutto. Perciò il ragno nero (che dico: l’ingegnere) ha chiuso il wargame, ha oscurato il suo sito, ha ammainato il suo stemma, Aracne tessitrice, e si è messo a guardare i titoli in borsa (in quale piazza?, chiedetelo a Satanasso), senza vedere niente, stravolto e annichilito; e ha deciso stoicamente di chiudere colla vita: causa l’insopportabile scacco subito tra gli insetti, nel videogioco più micidiale che un nemico dell’umanità potesse mai inventare. 
Nella sua vita secolare, di uomo, codesto ragno delle cantine (intendasi l’ingegnere) soffriva d’insicurezza fuori dal buco materno. Simboleggiato da tre ripari, da tre tane, una mobile due fisse: la casa in città, nel verde, a Milano 2; un comodo monolocale in un villaggio turistico della Sardegna; e una prestigiosa automobile. Fuori dai suoi tre buchi, gli sguardi della gente, pungiglioni. In pratica soffriva di agorafobia. Il suo sito in Giocare a mangiarsi s’ispirava all’architettura razionale di un ragno nero. Ricalcava, press’a poco, una tana di Segestria perfida. I suoi visitatori, da azzannare alla nuca, sia che sventati o presuntuosi e protervi ardissero cacciarsi nel suo bunker, in questo suo monolocale a due ingressi, sia che fossero incappati in una delle ragnatele, e vi si dibattessero, meschini, e vi si impigliassero più stretto, lui, l’ingegnere, li aspettava sulla soglia, ben rintanato e nascosto, ma con levate fuori, a mo’ di candelabro a sei bracci, leste ad abbrancare, tutte e sei le zampe anteriori; il quarto paio, le due posteriori, dentro il buco, puntate saldamente sulle pareti della tana: che un competitor, non si sa mai, stringendogli la mano (tra le mandibole, a tradimento), non lo cavasse fuori dal suo buco, scagliandolo per aria. Appena accendeva il suo computer e iniziava una partita del videogioco nefasto, tornata a illuminarsi al neon quella temuta insegna di Aracne nell’insettario virtuale, l’agorafobico ingegnere stava già lì in agguato, a casa sua, nell’attitudine che s’è detta. Era un tubo il suo appartamento: un modulo spaziale in forma di cilindro sembrava, o una ciminiera libratasi nel vento, una volante ciminiera dipinta da Magritte. Larga quanto bastava per rigirarvisi. Aveva due ingressi: di sicurezza entrambi; e dove mettersi alla posta. Muniti di segnale d’allarme. Le ragnatele del predone, concave, a imbuto, davan l’idea al visitatore di vortici di fumo trasparente, brillante. Tese, le quattro ragnatele, a lato degl’ingressi, dell’inferiore e del superiore, ai due estremi della ciminiera: appiccicate al nulla, dei vortici radiosi, diafani, come formatisi nell’atmosfera di un altro pianeta. 
Da notare, le mandibole del ragno nero (specie di paraurti micidiale) sono di un verde luccicante, come verniciate e metallizzate. Un verde moscone, che richiama il metallico splendore del suo coupé. “Suo”, cerchiamo di capire, non del ragno, “suo” dell’ingegnere. Forse per ciò, come sua maschera entomologica da indossare segretamente nel videogioco degli insetti, lui s’era scelto un tale ragno. Non era il suo buco preferito, da uomo, il suo coupé? 
Nessun competitor venuto a curiosare, e messosi a gironzolare saltare o volicchiare davanti al suo sito-fortezza, l’aveva attaccato finora. La tattica dei suoi visitatori, alquanto sempliciotta, si riduceva agli assalti simulati, alle provocazioni, alle sfide: nel tentativo, gl’ingenui, di stanarlo. Dopo qualche minuto di quelle finte e di quelle manfrine, visto che l’ingegnere non ci cascava, che era impossibile cavar il ragno dal buco, l’insetto, chiunque fosse, come che sia armato, levava un assedio inconcludente. Match nullo, di solito. Però, talvolta, il trabocchetto delle ragnatele aveva funzionato. E non soltanto con delle mosche. Un calabrone ci s’era impigliato. Per storditaggine, o presumendo di lacerarla, per sfregio dunque, o per inavvertenza, s’era fiondato nella trappola appesa a entrambi i lati del doppio ingresso d’un monolocale inviolabile. In un imbuto di fili dalla radiosa tenuità, nel mulinello di fumo grigio lieve e diafano come l’aria s’impigliò il visitatore. Allo scossone e al dibattersi furioso, inviluppandosi del tutto, ecco che scivola lungo un filo, accoccolato, un velocissimo funambolo. Mi fermo qui, io. Mi preme, cambiato argomento, di raccontare la fine dell’ingegnere-nel-buco. 
Gli era sempre andata bene nel videogioco degli insetti, non che nel gioco in borsa. Finché non venne a fargli visita quella funerea vespa. Nella sua posa di Segestria perfida, ovvero acquattato nel suo monolocale cilindrico dal pavimento a scivolo in voraginoso pendio, sbirciando fuori con i suoi occhiacci, nascosto, l’ingegnere aspettava dei visitatori. Quando ne vede atterrare uno, alato, davanti al suo sito, si turba l’ingegnere. E anziché sentirsi l’acquolina in bocca, e affluirgli il veleno agli uncini, prova un senso di ribrezzo. La vespa è parata a lutto, nera, anche le ali di un nero luttuoso; lungo i bordi, soltanto, hanno la lucida trasparenza d’un organo per volare del tipo che si usa da noi insetti: color del ghiaccio e dell’aria. L’inquieta e gli ripugna ch’essa le tenga rialzate sul dorso, sbattendole l’una contro l’altra in segno di gioia diabolica e quale applauso a se stessa, con fremebondo tripudio. Come sicura della vittoria. Giratosi nel buco, sceso a precipizio giù da basso, quasi calandosi per un camino, spazzacamino killer, egli la guata dalla soglia, come da una botola. To’, il ronzino della Morte, ma ha sbalzato dalla groppa madama con la falce, tenta di svalutarla intimidito l’ingegnere. La sfotte, ridacchiando. Senonché è proprio lei la Morte: non ha bisogno del cavallo (lasciamolo ai suoi trionfi negli affreschi medievali), e quanto alla falce, la vespa nera, che assomiglia a un purosangue, tra parentesi, e che passeggia elegante (la passerella all’ippodromo, nel così detto tondino, del fuoriclasse “no betting”, dato a quote infinitesimali), la vespa nera, non meno elegante e superba, ha il pungiglione al posto della falce. Passeggia superbiosa e pensierosa, alta sui trampoli delle sei zampe esilissime, con l’incedere del grande favorito prima della corsa. Piombata dal cielo nel sito dell’ingegnere. All’improvviso, l’agevolezza di un elicottero, vola in verticale verso la sommità di quella torre, verso l’ingresso superiore della ingegneresca tana. Rimane lì surplace, guardando negli occhi il suo competitore, ch’è risalito in fretta e furia. La sua esilità, invece di rassicurarlo, aumenta l’inquietudine del povero ingegnere. Vuol dire ch’è famelica, si dice, smaniosa di mangiarmi. Competitiva e vincente nata. Che stia cercando di ipnotizzarmi? Ha formulato appena l’ipotesi, ipnotizzato davvero davanti allo schermo del suo computer, dove la Morte ronza surplace sopra l’ingresso della sua tana, non digita, svelto, un tasto quale che sia della tastiera, non sa che fare con il mouse, lo stringe con la mano contratta, ed ecco, in un subito, giù in picchiata la vespa nera. È un assalto di prova, tocca e fugge, scatta indietro, una fulminea retromarcia nell’aria, da elicottero, ma le mandibole della maschera funebre, odiosa confidenza demoniaca, hanno sfiorato una sua zampa. Per brevità, questi assalti di prova, al chiaro scopo di demoralizzarlo, li ripeté una decina di volte quell’ippogrifo luttuoso e presentandosi ora a un ingresso ora all’altro, di modo che il ragno delle cantine, ovvero l’ingegnere-nel-buco, per dieci volte rinculò, si rigirò nel suo monolocale-fortezza, salì, discese, con crescente affanno. Sempre la Morte gli pendeva sopra, o sottostandogli lo minacciava. La quale, finalmente, venuta la sua ora nel videogioco degl’insetti, cava il ragno dal suo buco. Gli stringe una mano, una delle sei zampe anteriori, nella tenaglia delle mandibole, la scuote con furore, vince la sua opposizione, il puntellarsi alle pareti tubolari col quarto paio, l’estrae, come un dente marcio, come un tappo gonfio e bloccato, lo fa volare all’esterno e mentre lui ribaltato sul dorso s’accinge alla timida difesa e si rannicchia e si fa piccolo, le zampe tutt’e otto riunite imbelli a ripararsi dalla vespa nera, essa, la Morte, lo ha già calcato trionfalmente, gli ha confitto il suo pungiglione nel ventre. Lo ha paralizzato con poche gocce di veleno. 

… 

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