A noi lettori figli del Novecento Horcynus Orca piace di più. Mal sopportiamo le lunghe digressioni sulle tecniche della pesca o sulle navi baleniere. Godiamo delle bellissime descrizioni, dell'alto stile di Melville ma ci affascina maggiormente, credo, la ricca lingua di Stefano D'Arrigo, il suo spettro verbale così ampio, la carica inventiva, quella seducente componente sonora che risulta pressoché intraducibile. Horcynus Orca è un poema del mare: c'è il rumore del mare dentro. Uso il termine "poema" per dare un'idea del livello molto alto di queste opere. Quando dico "poema del mare" intendo un mare gravato di simboli, intendo anche il regno dei morti, in cui sembra spingersi 'Ndria Cambria nei suoi vari incontri.
Moby Dick è invece soprattutto un poema della caccia, con tutte le sfumature di orrore per la violenza e di pietà per la preda che l'Iliade poteva mostrare nella pietà per i guerrieri caduti in battaglia. E non mancano nemmeno naturalmente l'esaltazione, l'entusiasmo febbrile dell'inseguimento, dell'attacco e della vittoria sugli animali uccisi, disturbati nella loro pace oceanica. Pace fino a un certo punto, poiché: "Qua e là in alto guizzavano le ali nivee di piccoli uccelli immacolati: erano i teneri pensieri dell'aria femminea: ma giù negli abissi dell'azzurro infinito da ogni parte si avventavano enormi leviatani e pesci-spada e squali: e queste erano le riflessioni violente, tormentose, assassine di quel mare maschio" (Moby Dick, Garzanti, Milano 1966, vol. II, pag 235).
Non stupisce che questo poema della caccia sia considerato l'epos della letteratura americana, fra le opere più rappresentative di una nazione lanciata alla conquista degli oceani e di un impero marittimo.
Tuttavia non trascuriamo il fatto che sulla furia predatrice dell'uomo nel libro vince la natura.
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