Che
cos’hanno in comune testi tanto lontani nel tempo? L’elemento macroscopico è
che entrambi sono segnati dalla presenza di un diffuso maschilismo e
patriarcato duro a morire. Il racconto di De Stefani, presessantottino ma già
femminista, dipinge il quadro di una società patriarcale, contadina, in cui le
donne portano sulle spalle il peso dei parti, degli aborti clandestini, delle
gravidanze indesiderate, di amori più
o meno imposti come un destino cui non si può sfuggire, violentate o rudemente
sedotte per brevi avventure ancora molto giovani e sprovvedute, specie se di
classe inferiore. Il romanzo dell’esordiente Piccinni, in chiave più moderna, rimanda
a una gioventù postsessantottina ma ancora e sempre bruciata, che si macera
nell’immobilismo e nella saudade di un
Suditalia abbandonato a se stesso, rassegnato ai suoi mali inguaribili: è
ambientato a Taranto, dove si dà per scontato che nulla possa cambiare nella
situazione industriale e ambientale così come nella vita privata dei singoli,
mentre permangono antiche cerimonie religiose di celebrazione collettiva del
dolore. Alle ragazze anche più trasgressive, poco sottomesse a scuola e in
famiglia, che fumano e bevono birra coi loro coetanei fin da adolescenti, viene
riservato comunque un ruolo passivo: “Hai voluto fare parte di tre vite. Le hai
volute distruggere tutte e tre. Prima prendendo due donne e consumandole, poi
uccidendo me. Mi hai preso, anche se non ti ho voluto. Sei entrato nella mia
vita e, dall’interno, hai iniziato a scardinarmi. Hai dilaniato la mia vita e
mi hai fatto impazzire. Mi hai costretta a essere tua.” (pag 130).
Colpisce
la quantità di violenza che le due protagoniste sono costrette ad assorbire,
pur essendo molto giovani e proprio per questo probabilmente prescelte dai loro
seduttori.
Nel
Viaggio di una sconosciuta
l’oppressione di classe e di genere è registrata a ogni passo della ragazza che
attraversa la città col suo fardello di colpa e di pena, il bambino morto che
porta chiuso in valigia. La giovane si è macchiata di un delitto, ma la
violenza sociale che affiora da ricordi, pensieri, incontri la designa come vittima
più che come colpevole. In misura maggiore della sofferenza per il parto, per
la ragazza è stata pesante la gravidanza, nascosta continuando a lavorare
ininterrottamente stretta in un busto: “Tutto quel sangue, nel letto e in
terra. Si partorisce così, le donne, le pecore, le cavalle, tutte in un modo
(…) Tanto sangue. Non è questo il male. Il male era passato: quegli ultimi mesi
trascorsi nella strettoia del busto, perché i padroni e il resto della gente
non si accorgessero di nulla. Faticando come al solito; anzi, di più. Per
scacciare i sospetti, se mai ci fossero stati.” (pag 10). A più riprese
affiorano i ricordi dei rimproveri e delle esortazioni a correre e lavorare da
parte della signora presso cui la ragazza è a servizio, per non parlare del
tono spesso offensivo e sprezzante con cui le si rivolgono sia l’amante sia gli
sconosciuti in cui s’imbatte per la strada (per esempio a pag 45: “… buffa
davvero. Be’, adesso, fine dello spettacolo. Siediti, su, che resti a fare
impalata. Giù a cuccia, buona buona.”).
In
Adesso tienimi c’è un passaggio
particolarmente duro: “… ti avevo detto che volevo dirlo a tua mogie, a tutti,
che ero al limite. Allora avevi lasciato cadere il cucchiaio e avevi cominciato
a urlare. Dicevi che ero una puttana, che non mi dovevano venire in mente delle
cose del genere, che cazzo mi credevo? Avevo attaccato a piangere e tu, allora,
avevi preso il coltello grosso dal cassetto e me lo avevi puntato in faccia,
poi alla gola. Avevi detto che sarebbe stata quella la punizione se mi fossi
azzardata. Avevo annuito e tu lo avevi lasciato cadere per terra. Poi mi avevi
spinto, mi avevi cacciato di casa. Ero rimasta delle ore sugli scalini, davanti
alla porta, aspettandoti per chiederti scusa. Ma eri rimasto dentro tutta la
notte, da solo.” (pag 108). Eppure, nonostante tutto: “Avevo imparato a volerti
bene con il tempo, come le spose bambine, e quel ricatto iniziale non esisteva
più. Pensavo solo che non sarei stata all’altezza, anche se erano mesi che
offendevi il mio corpo.” (pag 55). Il
riferimento alle spose bambine di altre culture è molto centrato: anche se le
protagoniste in questione sono diciottenni (ma le storie d’amore cui
alludono sono durate mesi, quindi potrebbero essere iniziate che non erano
neppure diciottenni), colpisce il fatto che i rispettivi seduttori approfittino
di una situazione di evidente disparità fra loro e le ragazzine. Flavia Piccinni
sottolinea maggiormente il tema dell’infanzia importunata o violata in un episodio a
pagina 98. L’uso/abuso delle due protagoniste dei racconti è accentuato
rispetto alla media, tuttavia la condizione delle donne nei rapporti normali non è tanto diversa: “Le vedove della città vecchia portano il lutto tutta la
vita. Non importa quanto fossero ubriaconi e selvaggi i loro mariti, come le
facessero soffrire e quante volte le avessero tradite.” (pag 19). Pure i
tradizionali pranzi di famiglia, narrati a più riprese in Adesso tienimi, sono marchiati dallo stampo patriarcale, sebbene
l’ultima generazione, a parole, se ne consideri fuori.
Nonostante
qualche tentativo di comunicazione da parte dei genitori moderni di Martina,
l’isolamento della ragazza col suo problema irrisolto, con la sua storia di
abbandono e di lutto, resta costante in tutto il romanzo: “Hanno rinunciato a
capirmi quando mi hai lasciato. Si sono resi conto che sarebbe stato più facile
ignorarmi. Fare finta, come con gli handicappati, che vada tutto bene,”
rifletterà la ragazza a pagina 28, pensando a tutti coloro, parenti e docenti, che la vedono sparire in bagno per ore senza notare nemmeno la cosa o facendo finta che non vi sia niente di strano. Entrambe le protagoniste non riescono a comunicare a nessuno il loro problema. A parlare
per ognuna di loro sarà il proprio suicidio. Il suicidio diventa l’unico atto
esplicativo, rivelatore. La servetta degli anni cinquanta-sessanta s’immergerà
nel fiume con le spoglie del proprio bambino ucciso; la liceale violentata e
sedotta dal professore inscenerà una dichiarazione al mondo di quanto successo
andando a tagliarsi le vene nella casa estiva di lui, loro nido d’amore.
In
Viaggio di una sconosciuta la ragazza
non riesce a chiedere aiuto a nessuno per la sua gravidanza indesiderata così
come non riesce a richiamare l’attenzione dei passanti per la strada quando è
importunata da un altro profittatore. Il fatto-tabù di essere rimasta incinta
fuori dal matrimonio non si può rivelare; da sola non riuscirà ad affrontare
razionalmente la questione e quel fatto finirà per condurla alla morte. Martina
di Adesso tienimi non riesce a
parlare con la madre né con le compagne né con gli amici della sua relazione
ambivalente con il professore. E’ vero che fin da adolescente aveva preso una
china da ragazza difficile, scegliendo una giovinezza all’insegna della
trasgressione con alcool, fumo e disinteresse per la scuola, ma quello stile di
vita un po’ trasgressivo, comune a diversi suoi coetanei, non l’avrebbe certo
portata alla morte prima dei vent’anni e magari nel tempo sarebbe rientrato o
si sarebbe attenuato.
La
loro storia d’amore e violenze (varie) le ha uccise: due protagoniste di racconti
distanti quasi mezzo secolo, come se ben poco fosse cambiato.
Ciò
non deve sorprenderci: l’ondata di dichiarazioni on-line Me Too (2017) dimostra
quanto ancora ai giorni nostri siano diffusi violenza, sopraffazione e ricatti
verso le donne a vari livelli.
Nessun commento:
Posta un commento