Forse ho generato una certa antipatia e diffidenza intitolando questo sito-blog Lettere a nessuno (al femminile), con un calco evidente del titolo di un libro che suscitò discussioni. Quello era un libro; questo è un sito che finisce per contenere un po' di tutto, esposto a eventi, questioni di attualità, contaminazioni, incontri. Per la precisione sarebbe un blog, ma, per via dell'introversione dell'amministratrice, è vissuto quasi come un diario. Uno dei temi di fondo di questo diario pubblico resta l'esclusione, come anticipato appunto nel titolo preso in prestito.
Sappiamo che Antonio Moresco a un certo punto ha avuto fortuna e il suo isolamento dal mondo editoriale (che entra anche nella vicenda degli Esordi, non solamente nelle Lettere a nessuno) non è durato per sempre. Altri scriventi sono rimasti e continuano a restare ingiustamente nell'ombra. Colpa loro? Difficile dirlo.
Consideriamo gli scrittori Mariano Bargellini ed Ezio Sinigaglia, arrivati a un qualche riconoscimento dopo i sessant'anni.
Con Mus utopicus (Gallino, Milano 1999), La setta degli uccelli (Corbo, Ferrara 2010) e Giocare a mangiarsi (Effigie, Milano 2015) Bargellini (anno di nascita: 1936) ha elaborato una prosa densa (neobarocca, a suo dire) e trame fra l'onirico e il fantastico, restando uno scrittore di nicchia. Qualcuno potrebbe obiettare: ma il barocco è un vicolo cieco in questa società frenetica dominata da notizie-flash, slogan, tweet, small talk. E poi il fantastico ha una tradizione esile in Italia, dove in genere ha prevalso il realismo con le sue varianti (per motivi anche politico-sociali, a ben vedere: diffusa criminalità organizzata, scandali, politica corrotta, in cui la realtà sociale chiede da più parti di essere guardata in faccia e descritta senza reticenze; da qui il successo del giornalismo d'inchiesta e dei reportages narrativi tipo Gomorra).
Tuttavia Bargellini sostiene: "La mia scelta ha una lunga tradizione nel Novecento, pensate a Kafka o al Manganelli della Palude definitiva". E aggiunge: "Andate a leggere o rileggere Caos e bellezza di Omar Calabrese: capirete quanto può essere moderno il neobarocco".
Ezio Sinigaglia (anno di nascita: 1948), dopo un esordio intorno ai trent'anni passato inosservato con un corposo romanzo-saggio che s'interroga sulle principali innovazioni stilistiche del Novecento (Il pantarèi, SPS-Sapiens, Milano 1985), trascorre decenni di vita appartata dedicandosi alla stesura di testi rimasti nel cassetto, tranne un breve romanzo di stampo più tradizionale, pubblicato da una casa editrice che comincia a dargli visibilità (Eclissi, Nutrimenti, Roma 2016). Finalmente, con la ristampa di quel primo romanzo degli anni ottanta, ottiene molti apprezzamenti. Con questa nuova apparizione del Pantarèi nel 2019 (grazie alla coraggiosa casa editrice Terrarossa di Bari) è come appena nato nella società delle lettere.
Il suo caso è emblematico: più di trent'anni di sepoltura di un testo vivo e ricco che affronta un tema rimosso negli ultimi decenni, quello del confronto con la prosa più innovativa del Novecento. Nel cimentarsi con la sua opera d'esordio in un genere, quello del romanzo, considerato in crisi e da alcuni ormai dato per morto, il protagonista Stern, alter-ego dell'autore, attraversa e testa su di sé (su diverse parti della vicenda) gli stili che hanno rivoluzionato il modo di narrare dei secoli precedenti.
Scrive Angelo Di Liberto in una recensione al Pantarèi: "Viviamo nell'epoca del godimento che è sempre a scapito della responsabilità. Ciò che importa è la fruizione spicciola, l'illusione emotiva, la crosta sulfurea di un'epidermide sottoposta ad agenti esterni ad alta virulenza d'insignificanza. La coscienza nana ha sostituito la natura morale e intellettuale e a seppellire ogni guizzo creativo ci pensa il mercato delle classifiche. Perché nella quantità si esperisce lo scopo aziendale, dato che la qualità è indigesta speculazione al rialzo di consapevolezza. Ad aggiungersi alla consunzione vi è l'idea, ormai radicata, che la lettura abbia perso autorevolezza e centralità (...) I dati statistici sono emblema di un settore in disfacimento, senza transustanziazione del caso (...) A fare i conti con la situazione letteraria della sua giovinezza, dato che la prima pubblicazione del libro è della metà degli anni ottanta del secolo scorso, è un autore che instilla nuova linfa vitale alla quercia centenaria della letteratura, cimentandosi in un florilegio stilistico degno dei grandi autori passati alla posterità (...) Come un moderno Zeno si aggira per casa, vaga per le stanze e invoca i suoi fantasmi, attribuendo alla letteratura una funzione terapeutica così da restituire senso e valore alla vita." (Morte (e resurrezione) del romanzo, la Repubblica, Palermo 4.4.2019).
Bargellini e Sinigaglia sono entrambi rappresentanti di una scrittura meditata, di ricerca, che si fa carico della problematica eredità del secolo che abbiamo alle spalle, senza respingerla a priori perché troppo complessa.
Solo un accenno a un terzo scrittore: Luigi Di Ruscio (anno di nascita: 1930). Autore lasciato sempre un po' ai margini, nel solco di quello svantaggio iniziale che decise il suo destino di povero emigrante e lo caratterizzò per lunghi anni nelle patrie lettere sostanzialmente come poeta operaio, scoperto e riscoperto nelle fasi storiche più aperte al quarto stato, anni cinquanta e settanta, è ancora adesso poco conosciuto nonostante la carica energetica che sprigiona dal suo romanzo Cristi polverizzati (Le Lettere, Firenze 2009), pubblicato a settantanove anni, due anni prima della morte, esempio di un flusso di coscienza sociale di rara intensità. Per ricordarlo, trascrivo una sua dichiarazione tratta dal volume, in cui non si fa distinzione tra prosa e poesia: "Questo lavoro poetico è lavoro altamente scientifico, scopriamo le nuove particelle che danno nuovo senso al mondo e se il linguaggio quotidiano è molto stanco e smorto specie in questi periodi cadaverici e reazionari io poeta accelero vertiginosamente tutto ponendo il verbo alle alte velocità e faccio un casino peggio del casino dell'acceleratore di Ginevra." (pag 106).
Sappiamo che Antonio Moresco a un certo punto ha avuto fortuna e il suo isolamento dal mondo editoriale (che entra anche nella vicenda degli Esordi, non solamente nelle Lettere a nessuno) non è durato per sempre. Altri scriventi sono rimasti e continuano a restare ingiustamente nell'ombra. Colpa loro? Difficile dirlo.
Consideriamo gli scrittori Mariano Bargellini ed Ezio Sinigaglia, arrivati a un qualche riconoscimento dopo i sessant'anni.
Con Mus utopicus (Gallino, Milano 1999), La setta degli uccelli (Corbo, Ferrara 2010) e Giocare a mangiarsi (Effigie, Milano 2015) Bargellini (anno di nascita: 1936) ha elaborato una prosa densa (neobarocca, a suo dire) e trame fra l'onirico e il fantastico, restando uno scrittore di nicchia. Qualcuno potrebbe obiettare: ma il barocco è un vicolo cieco in questa società frenetica dominata da notizie-flash, slogan, tweet, small talk. E poi il fantastico ha una tradizione esile in Italia, dove in genere ha prevalso il realismo con le sue varianti (per motivi anche politico-sociali, a ben vedere: diffusa criminalità organizzata, scandali, politica corrotta, in cui la realtà sociale chiede da più parti di essere guardata in faccia e descritta senza reticenze; da qui il successo del giornalismo d'inchiesta e dei reportages narrativi tipo Gomorra).
Tuttavia Bargellini sostiene: "La mia scelta ha una lunga tradizione nel Novecento, pensate a Kafka o al Manganelli della Palude definitiva". E aggiunge: "Andate a leggere o rileggere Caos e bellezza di Omar Calabrese: capirete quanto può essere moderno il neobarocco".
Ezio Sinigaglia (anno di nascita: 1948), dopo un esordio intorno ai trent'anni passato inosservato con un corposo romanzo-saggio che s'interroga sulle principali innovazioni stilistiche del Novecento (Il pantarèi, SPS-Sapiens, Milano 1985), trascorre decenni di vita appartata dedicandosi alla stesura di testi rimasti nel cassetto, tranne un breve romanzo di stampo più tradizionale, pubblicato da una casa editrice che comincia a dargli visibilità (Eclissi, Nutrimenti, Roma 2016). Finalmente, con la ristampa di quel primo romanzo degli anni ottanta, ottiene molti apprezzamenti. Con questa nuova apparizione del Pantarèi nel 2019 (grazie alla coraggiosa casa editrice Terrarossa di Bari) è come appena nato nella società delle lettere.
Il suo caso è emblematico: più di trent'anni di sepoltura di un testo vivo e ricco che affronta un tema rimosso negli ultimi decenni, quello del confronto con la prosa più innovativa del Novecento. Nel cimentarsi con la sua opera d'esordio in un genere, quello del romanzo, considerato in crisi e da alcuni ormai dato per morto, il protagonista Stern, alter-ego dell'autore, attraversa e testa su di sé (su diverse parti della vicenda) gli stili che hanno rivoluzionato il modo di narrare dei secoli precedenti.
Scrive Angelo Di Liberto in una recensione al Pantarèi: "Viviamo nell'epoca del godimento che è sempre a scapito della responsabilità. Ciò che importa è la fruizione spicciola, l'illusione emotiva, la crosta sulfurea di un'epidermide sottoposta ad agenti esterni ad alta virulenza d'insignificanza. La coscienza nana ha sostituito la natura morale e intellettuale e a seppellire ogni guizzo creativo ci pensa il mercato delle classifiche. Perché nella quantità si esperisce lo scopo aziendale, dato che la qualità è indigesta speculazione al rialzo di consapevolezza. Ad aggiungersi alla consunzione vi è l'idea, ormai radicata, che la lettura abbia perso autorevolezza e centralità (...) I dati statistici sono emblema di un settore in disfacimento, senza transustanziazione del caso (...) A fare i conti con la situazione letteraria della sua giovinezza, dato che la prima pubblicazione del libro è della metà degli anni ottanta del secolo scorso, è un autore che instilla nuova linfa vitale alla quercia centenaria della letteratura, cimentandosi in un florilegio stilistico degno dei grandi autori passati alla posterità (...) Come un moderno Zeno si aggira per casa, vaga per le stanze e invoca i suoi fantasmi, attribuendo alla letteratura una funzione terapeutica così da restituire senso e valore alla vita." (Morte (e resurrezione) del romanzo, la Repubblica, Palermo 4.4.2019).
Bargellini e Sinigaglia sono entrambi rappresentanti di una scrittura meditata, di ricerca, che si fa carico della problematica eredità del secolo che abbiamo alle spalle, senza respingerla a priori perché troppo complessa.
Solo un accenno a un terzo scrittore: Luigi Di Ruscio (anno di nascita: 1930). Autore lasciato sempre un po' ai margini, nel solco di quello svantaggio iniziale che decise il suo destino di povero emigrante e lo caratterizzò per lunghi anni nelle patrie lettere sostanzialmente come poeta operaio, scoperto e riscoperto nelle fasi storiche più aperte al quarto stato, anni cinquanta e settanta, è ancora adesso poco conosciuto nonostante la carica energetica che sprigiona dal suo romanzo Cristi polverizzati (Le Lettere, Firenze 2009), pubblicato a settantanove anni, due anni prima della morte, esempio di un flusso di coscienza sociale di rara intensità. Per ricordarlo, trascrivo una sua dichiarazione tratta dal volume, in cui non si fa distinzione tra prosa e poesia: "Questo lavoro poetico è lavoro altamente scientifico, scopriamo le nuove particelle che danno nuovo senso al mondo e se il linguaggio quotidiano è molto stanco e smorto specie in questi periodi cadaverici e reazionari io poeta accelero vertiginosamente tutto ponendo il verbo alle alte velocità e faccio un casino peggio del casino dell'acceleratore di Ginevra." (pag 106).
Si tratta di scrittori molto diversi, che non amerebbero essere accostati come sto facendo qui. Che cosa li accomuna tuttavia?
Accanto alla più nota emarginazione legata all'estrazione sociale o al luogo di nascita o alle circostanze più o meno favorevoli, vediamo che può essere scontata al prezzo di una grande solitudine la scelta stilistica.
A tutte queste forme di emarginazione si deve aggiungere inoltre una questione abitualmente sottaciuta: la questione del riconoscimento. Di Ruscio ebbe la chance nel periodo rivitalizzato, percorso da nuove energie, del dopoguerra di essere apprezzato da Fortini e Quasimodo ("Io non credo in Dio, è lui che crede in me," scriverà in seguito, alludendo ai momenti fortunati della sua esistenza, il poeta operaio emigrato in Norvegia); fu poi riscoperto da Majorino, Cepollaro, Antonio Porta e, grazie alla sua lunga vita, ebbe il tempo di mostrare a Cortellessa uno scartafaccio tenuto insieme da un elastico che quest'ultimo lo aiutò a dare alle stampe. L'incontro coi critici in vari momenti della sua vita fu decisivo.
E anche la buona volontà giovanile che può albergare in alcune scrittrici, se vogliamo allargare il discorso ("Io mi riconosco da sola," scriveva qualche tempo fa una giovane autrice su facebook), può risolversi in nulla. Meglio fermarci qui, se no dovremmo accennare ad altre questioni irrisolte, nonostante le apparenze, il che porterebbe via troppo tempo.
P.S. - Elementi macroscopici che possono fare la differenza nella vita di uno scrittore: l'estrazione familiare e sociale; la città dove avviene la formazione e dove si risiede (solo un piccolo esempio: nell'antologia La terra della prosa - L'orma editore, Roma 2014 - dei trenta autori considerati fra gli esordienti degli anni zero, undici, quindi più di un terzo, sono romani); il sesso (secondo le statistiche il maggior numero di persone che leggono in Italia sono donne, mentre scrittori ed editor restano in prevalenza uomini). Sono segnali spesso rimossi con l'alibi condiviso che dopotutto esistono le tipografie, gli editori a pagamento, la Rete, tutte occasioni democratiche che in passato ci si poteva soltanto sognare, quando poeti e artisti, pochissimi, dipendevano esclusivamente da mecenati e potenti. Tutti sanno però che un romanzo non commentato da nessuno è come se non fosse mai esistito.
Nessun commento:
Posta un commento