venerdì 30 maggio 2014

Dialogo su un romanzo puzzle game e altri esperimenti

Intervista a Mariano Bargellini

- So che stai lavorando a un nuovo romanzo. Vuoi dire qualcosa su questo testo che definisci puzzle game?
L’oggetto infinito è un romanzo puzzle game. In senso metaforico e letterale. Anche alla lettera, in quanto che il fabulatore e personaggio della storia, a seguito di un escamotage si direbbe onirico, e dell’annuncio recatogli da Antony Charon, lo scimpanzé sapiente della televisione, il teledivo dell’aperitivo, quasi stesse sognando cade nella trappola di un puzzle game, di cui ignora le regole i meccanismi le leggi. Si trova di colpo, forse prigioniero, in una casa del Sonno e del Silenzio, che lui riconosce: è la casa-labirinto della fanciullezza, arredata come allora e con vestigia recenti degli antichi inquilini, ma deserta e semibuia. L’intero palazzo, oggi assediato da una nebbia fittissima, parrebbe disabitato. E la città stessa, deserta: una Milano-fantasma. Egli s’aggira, ombra di sogno, anzi persona di puntini elettronici, ente digitale, avatar del giocatore sconosciuto alla console per corridoi e stanze di un Labirinto senza uscita, e senza Minotauro. Salvo che il Minotauro, cioè l’avversario computerizzato di questo videogioco, non sia lo scimpanzé parlante, il testimonial dell’aperitivo: Toni Caronte, il suo contubernale di reclusorio-incantesimo. Il quale, sorta di Frégoli, cambia d’abito e di ruolo per tre volte. Di teologo e in veste talare, per esempio, si cambia in predicatore della rivoluzione neofuturista, vestito alla futurBalla. Oltre a questi due personaggi, e ai loro dialoghi subito declamati e voltatisi in controversia, dialoghi da teatro della sorpresa del grottesco e dell’assurdo, risuona talvolta nel teatro vuoto e quasi buio la voce del giocatore e fabulatore invisibile seduto alla console. Continui i colpi di scena. L’ultimo, a suo modo risolutivo, conclude brutalmente L’oggetto infinito, romanzo labirintico neo-novecentista.
 - Si potrebbe azzardare l’ipotesi che tu sia un autore sperimentale non riconosciuto, sei d'accordo con questa definizione?
- Converrà prendere le mosse dalla recensione di Giuliano Gramigna a Mus utopicus (I. M. Gallino editore, Milano 1999) sul Corriere della sera del 13 gennaio 2000: “Racconti fantastici, fabulosi, anticipatori? Per fortuna qualcosa di meglio, e di più peculiare. Bargellini gestisce con outrance il suo manierismo, ostentandolo anziché schermarlo, rifiutandosi di ammettere che una narrazione (almeno la sua narrazione!) sia qualcosa d’altro che una cosa scritta. Ne è un esempio il testo che battezza il volume [ … ]: linguisticamente mescolanza di forme fintonobili, gerghi tecnici, latinismi, macheronea di italiano e milanese, costruttivamente, una sintassi vuoi tacitiana, vuoi ingrovigliata. La beffa convive continuamente con severe, astruse combinazioni di lessico: metafore barocche, come le palpebre bianche «mascherina di cartapecora del sonno», costeggiano il lombardismo «stremiti»; e i piccioni morituri sono «morfemi di Thànatos». Il lettore piluccherà a suo piacimento e divertimento. Ma non si tratta di pura esibizione di virtuosismo. Il racconto più lungo, e impegnativo, «Falconeria da camera», mette in folle non solo la lingua ma le regole narrative, anzi, dell’esistere, con l’omonimia proditoria di narratore e personaggio, e con il piccione ominoso, forse compagno degli uccelli del presidente Schreber (vedi Freud) o messaggero d’Averno o del quiz televisivo… Mi trattengo dal fare nomi di patroni eccellenti per Bargellini: Gadda, Landolfi, magari Dossi. Questo non è il libro di un ingegnoso adepto – di cui si sa ben poco: nato a Torino, vivente a Milano, decorato ora del Bagutta-Opera prima. Non è demandata al recensore la funzione d’astrologo: ma scommetterei di buon grado sul futuro di narratore di Bargellini.”
E dopo? Dopo Giuliano Gramigna? Il silenzio. Il silenzio dei favoreggiatori degli scrittori-senza. La loro distrazione dolosa riguardo a Bargellini. E i boicottaggi (sì, anche i boicottaggi!) mondano-mafiosi del Luna-Park della Vanità e dei suoi teatri d’automi, avversatori velenosi (e truffaldini) del Barigildo. Ma ha che fare, tutto questo, con la letteratura? No, certo. Allora non parliamone.

- Una delle caratteristiche salienti del tuo stile è l'associazione fra tematiche ultramoderne (per esempio la realtà virtuale) e un linguaggio molto elaborato, talvolta arcaicizzante e barocco. Come mai questa associazione, che può suonare stridente?
- La felice contradizione è nata per caso. Il forgiarsi della mia prosa si completa negli anni Settanta. Operette morali è il lontano ma ben presente modello. E si tira dietro i modelli secenteschi a cui guardava Leopardi: Daniello Bartoli, il Magalotti, il Ségneri… Del resto, il racconto fantastico italiano parte di là, da Operette morali. Si legga quel che dice Cortellessa nella raccolta di saggi sul Leopardi delle Operette morali (Le Operette morali e il Novecento italiano, Bulzoni, Roma 2000). Io ho schifato, d’istinto e criticamente, la lingua slombata della comunicazione; e ho scelto “la nostra ricca favella” (Landolfi). Trent’anni più tardi mi ha attraversato l’immaginazione questa metafora e allegoria, di estrema attualità, e gnostica: il computer game. L’uso della lingua letteraria, e ad alta densità retorica, fa che preponderi, forse, il lato metafisico e gnostico nei miei due romanzi puzzle game.

- Recentemente hai scritto due romanzi, ancora inediti, incentrati intorno a due giochi elettronici, Giocare a mangiarsi e L'oggetto infinito. Che cosa ti ha affascinato di quelle situazioni? Ci sono degli elementi comuni? Quali invece le differenze?
- I rimandi alla realtà nuova, detta “virtuale”, e d’altra parte il lancio vertiginoso oltre le frontiere della modernità, indietro nei secoli, fino alla Gnosi: ecco, suppongo, la causa principale della fascinazione; e dell’avere scritto Giocare a mangiarsi, all’inizio del Duemila, e poi L’oggetto infinito. Nel primo romanzo l’Io narrante, il fabulatore, è alle prese con un computer game che, subdolamente, straripa fuori dallo schermo. Nel secondo la situazione si estremizza: il personaggio-narratore, ente digitale, un quidam fatto di pura informazione, un Perelà di puntini elettronici, s’aggira perso in un puzzle game, caduto in non si sa che trappola.

- Che cosa pensi del postmoderno?
- Il romanzo postmoderno è un gioco di società. Scrivere un romanzo è sì un gioco, un gioco aleatorio, ma: lusus serius, iocus severus.

- Il tuo grande nemico è il mercato editoriale?
- Una grande casa editrice, nell’anno 1979, commissionò alla Doxa una ricerca di mercato fra le lettrici di novellistica rosa della fascia medio-bassa. Io ho avuto la fortuna di leggerla. Quella ormai lontana ricerca, si sappia, contiene una sorta di precettistica del romanzo da supermarket impostosi in questi anni. (O meglio: imposto quasi per legge.) Il precetto-base, ricavato dal sondaggio, è il seguente: abolire lo stile. Infatti, dalle interpellate, si considera lo stile ‘un diaframma’ (naturalmente insopportabile) che si frappone al godimento di una storia. Oggi non si sente dire, da gente del mestiere, che lo stile viene spalmato, da certi autori malati d’estetismo, sulla storia? Hanno esultato i (ri)cantastorie, storielle e storiacce. Ma se le cose stanno così, è d’obbligo essere nemici del mercato editoriale.

- Ti ho sentito diverse volte citare la frase di Proust riferita al testo letterario in quanto scritto apparentemente in una lingua straniera.
- Les beaux livres sont écrits dans une sorte de langue étrangère. Questa sentenza di Proust, è singolare e meraviglioso, la incontriamo anche nello Zibaldone, e fu espressa anche da Kafka. Kafka dice che lui, quando parla, usa la lingua materna, quando scrive, una lingua straniera. Eppure è sempre il tedesco! Leopardi, nell’investigare la lingua di Daniello Bartoli, giunge a questa conclusione: le sue parole, tutte, appartengono al tesoro della lingua italiana, e sono note a un filologo. Ciò nondimeno, abbiamo l’impressione di leggere una lingua straniera, ma conosciuta perfettamente da noi, benché non sapremmo scriverla, noi; e che sembra la nostra: è l’italiano di Bartoli. Deleuze, a proposito della frase di Proust, afferma che l’unicità di uno stile e quel suo non sai che di straniero, di non udito prima d’ora, è la sua sintassi, non già l’elocuzione; di Proust, per esempio.

- Ti ho sentito anche citare spesso il Nouveau roman, in particolare Robbe-Grillet sia come romanziere sia come teorico della letteratura. Che cosa ha da insegnarci secondo te?
- Il procedere labirintico della fabula, rotatorio come l’orbita di un pianeta. Non più lineare, ma circonvoluto, labirintico, appunto. È stato detto da qualcuno che tale è la caratteristica del romanzo schiettamente novecentesco: procede, la sua fabula, quasi a spirale. Con degli avvolgimenti e dei ritorni da labirinto. Così i romanzi di Robbe-Grillet.

- E Kafka per la dimensione fantastica…
- Le storie di Kafka, α) divergono all’infinito, non si chiudono in un significato univoco, letterale; β) si ritraggono dal piano della realtà e subiscono un processo di volatilizatio, diventano mentali; γ) il personaggio, spesso, emerge da un passato nebuloso, quasi non ha un passato anzi, ed è gettato subito in un mondo sconosciuto eppure familiare. Il paradigma, sia dei suoi personaggi sia delle sue storie, è il sogno. Una indicazione da seguire, o di cui tenere conto, certo. Purché, dall’inventore di storie fantastiche, non ci si fermi alle suggestioni kafkiane…

- Ci sono altri scrittori che consideri tuoi maestri? Perché?
- Leopardi, d’Annunzio, Pirandello, Landolfi, e, con alcune riserve, Manganelli. Di altre letterature: Kafka, Beckett, e Robbe-Grillet. Tale scelta minima (parecchi scrittori dell’Ottocento e del Novecento dovrei aggiungere all’elenco striminzito) riguarda, è ovvio, me scrittore, non me lettore. Le ragioni? Per ciascuno di loro ne dovrei addurre di particolari. Discorso troppo lungo. Ma ti risponderò ugualmente, in breve. Però, scusami, solo in parte. Manganelli: perché è il paradossologo numero uno della narrativa italiana. Ammirevole il suo romanzo postumo: La palude definitiva. Pirandello: perché ogni sua storia mi pare l’esemplificazione di un’idea, sempre spiazzante, paradossale, o meglio la sua ipostasi dal mondo iperuranio al nostro mondo sublunare; e per la teatralità senechiana (?!), quasi da Lettere a Lucilio, della sua prosa franta. D’Annunzio: un brindisi al musico e antiquario della prosa italiana moderna. Il suo romanzo Forse che sì forse che no (1910), attraversato da una ventata futurista, rimane una delle punte più avanzate del romanzo sperimentale italiano del Novecento. Qualche "intendente di letteratura" se ne sarà reso conto? 

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