Se pensiamo ad alcune eminenti espressioni del
romanzo sperimentale anni sessanta, recentemente rievocato e riattraversato da letture critiche nel ricco volume Gruppo 63. Il romanzo sperimentale. Col senno di poi (L'orma editore, Roma 2013), per
esempio a Hilarotragoedia di
Manganelli, Partita di Antonio Porta o Tristano di Balestrini, osserviamo che tendevano a privilegiare,
per molti validi motivi in quel periodo storico, una posizione scissa,
schizoide, violentemente frammentata del narrare e dello scrivere.
L'esempio estremo di rottura è offerto dalle opere e dalle osservazioni di Giorgio Manganelli, che hanno l'aggressività e la virulenza in qualche caso di veri e propri attacchi al legame, o attacchi al seno (al seno-romanzo e al seno-fiaba*), se vogliamo usare una terminologia psicanalitica. Si legga quest'osservazione di Fausto Curi riportata a p 245: "... l'oltranza della scrittura in Manganelli ha una profonda radice psicologica e biologica, una violenza vitale e mortuaria. Manganelli scrive per vendicarsi, le impennate, gli attorcigliamenti, gli ingorghi del linguaggio hanno qualcosa di acre e di furente, la pagina è insaziatamente amara, cinicamente compiaciuta."
Ma il tema del conflitto sta molto a cuore ai neoavanguardisti in generale. Si veda la teoria di Sanguineti a proposito dell'opera letteraria come contestazione della forma romanzesca attuale, borghese, e sabotaggio della lingua, dove sperimentazione e contestazione dovrebbero andare di pari passo: "Immaginiamo infine che si debba definire romanzo sperimentale quello che non riflette passivamente il modificarsi delle strutture di base, ma, pur operando ovviamente nell'orizzonte dell'omologia borghese, tenta dall'interno di questo orizzonte medesimo un'operazione di contestazione: non subisce passivamente i contraccolpi della modificazione strutturale ma cerca di prenderne attivamente coscienza; ossia (...) rende possibile nel romanzo la sperimentazione-contestazione." (p 117). E si legga l'osservazione di Giorgio Patrizi col senno di poi a p 298-299: "E' la qualità dell'attitudine critica come chiave di approccio all'esistente e di definizione di futuro. Modo del conflitto con un presente insoddisfacente e della proiezione in una utopia di mondo rinnovato. Un modo di accostarsi alla letteratura, rileggendone i significati più complessi, in una rinnovata fiducia per la sua capacità di scavare nel reale ed emblematizzare gesti, voci, personaggi."
Nello stesso tempo è proprio Sanguineti infatti a farsi carico, con alcuni altri, della rifondazione del romanzo, di un altro romanzo possibile, quando, appoggiandosi agli interventi di Leonetti, Curi e Giuliani, soprattutto di Giuliani, riapre il discorso sui temi dell'educazione sentimentale e della radice mitologica/antropologica del narrare (p 116).
Il concetto è ripreso, a distanza di anni, dai postumi Massimiliano Manganelli e Giancarlo Alfano: "A Palermo non s'intendeva distruggere il genere, bensì rifondarlo (...) Giuliani aveva messo in luce 'l'inconscio letterario' del romanzo italiano (...) Insomma a Palermo si voleva affermare unicamente che un altro romanzo è possibile." (Massimiliano Manganelli a p 343); "Superare lo sperimentalismo: fu dunque questa la posta in gioco nella discussione di cinquanta anni fa sul romanzo sperimentale. O forse dichiarare l'impossibilità dello sperimentalismo. Lo disse Barilli nella prima relazione introduttiva. Lo disse Guglielmi. Lo disse Sanguineti, proponendo ancora una volta la via dell'approfondimento, ma per via antropologica, della mitologia..." (Giancarlo Alfano a p 345).
E come non sentire il fascino del richiamo di Elio Pagliarani (p 102) all'innervazione lirica della prosa italica, all'origine, in epoca medievale costituita anche da componimenti misti di prosa e di versi? O del discorso di Angelo Guglielmi (p 37), che su un limite di mancato sviluppo del romanzo italiano rispetto ai modelli europei fa perno per lanciare una sfida a fare, proprio in virtù di una differenza sostanziale, qualcosa di diverso e potenzialmente migliore?**
Secondo diversi critici e scrittori di tutto quell'interrogarsi, valutare, soppesare, problematizzare... non è rimasto niente (Di Marco, Vasio, Trevisan). E Gianluigi Simonetti precisa: "... scegliere lo sperimentalismo letterario, in realtà, non rappresenta di per sé un gesto politico. Non solo non lo è oggi, ma non lo era neppure allora. Dal '65 ai giorni nostri, in più, la fede o la speranza in un mondo radicalmente diverso si è molto logorata; oggi che alla rivoluzione non crede nessuno - almeno in questa parte del pianeta - e che la libertà ci fa più che altro paura, siamo ancora meno disposti di prima a pensare che cambiare il linguaggio significhi cambiare il mondo. Si tratta di una pretesa molto nobile, ma comunque niente più che una pretesa, fondata sulla riduzione arbitraria del mondo al linguaggio, e dello scrittore a scrivente, a tecnico, a chirurgo." (p 367).
Per quella che può essere la mia personale esperienza di scrittura, facendo doverosi e comunque cauti confronti, ritengo di non possedere l'aggressività di alcuni esponenti della neoavanguardia (ma neppure la sua declinazione in tono minore, la goliardia di taluni loro epigoni postmoderni, anni novanta***) e di aspirare invece a una maggiore integrazione fra le parti dell'opera cui mi sto dedicando, a una posizione più elaborativa, depressiva se vogliamo usare una terminologia psicanalitica alla Melanie Klein. Nel mio scritto (inedito) Trilogia del lutto, uno scritto comunque di ricerca, non vi è un attacco alla forma e al senso che si possa paragonare agli esempi posti all'inizio di quest'articolo.
Se attacchi vi sono, non manca tutto un lavoro del negativo, un lavoro del lutto appunto.
* Il fastidio per i generi romanzo e fiaba (si veda anche l'attacco alle fiabe contenuto in Hilarotragoedia) è riferito in larga parte alla questione della trama. Il personaggio forse si salva, è la trama che salta, per il suo implicare sostanzialmente i rapporti con gli altri. Se il personaggio è l'uomo, le trame sono i rapporti fra gli uomini, i legami fra loro e conseguentemente con la società e la cosiddetta realtà. Sul concetto di realtà si può dire molto ovviamente, e proprio per questo non può certo essere rinchiusa in un plot stereotipato e neppure in una visione schematica, programmatica, che si pretende uguale per tutti. Ma osserva Massimo Raffaeli a p 312: "... la barriera del naturalismo è diventata la barriera del realismo. Il romanzo sperimentale si è progressivamente spento andando in folle, dopo avere chiuso gli occhi e voltato le spalle a quella cosa indefinibile eppure immanente, invadente, che i mortali chiamano realtà. Alla realtà delle cose si è silenziosamente e/o rumorosamente sostituita la realtà di un linguaggio autocentrato, autosufficiente e, per così dire, autotelico...".
** A questo proposito ottime risposte potrebbero essere quelle di Mariano Baino (L'uomo avanzato, Le Lettere, Firenze 2008), romanzo statico e molto lirico, o proprio un testo dell'antiromanzesco Manganelli, La palude definitiva (Adelphi, Milano 1991), scritto alla fine del suo percorso, anch'esso quasi privo di trama ma di grande spessore a livello immaginario, evocativo e linguistico.
*** Al contrario considero un capolavoro, seppure successivo ai fertili anni sessanta, Le mosche del capitale di Paolo Volponi, uscito nel 1989 da un autore non ascritto al gruppo neoavanguardista (sperimentale a sua volta, frammentario anch'esso a modo suo, ma entro certi limiti; e in più visionario come pochi romanzi riescono a essere). Rasenta il capolavoro a mio parere quell'opera che per complessità, per multistratificazione, si oppone a ciò che invece, per comodità, per esigenze commerciali o altro, risulta troppo semplificato, troppo facile.
Gli scrittori "padri" degli anni sessanta, così importanti per la formazione di chi come me nacque proprio in quegli anni, sono a mio avviso stati traditi o dimenticati da molti. Considero la mia elaborazione al contrario una forma di fedeltà, pur nella distanza.
L'esempio estremo di rottura è offerto dalle opere e dalle osservazioni di Giorgio Manganelli, che hanno l'aggressività e la virulenza in qualche caso di veri e propri attacchi al legame, o attacchi al seno (al seno-romanzo e al seno-fiaba*), se vogliamo usare una terminologia psicanalitica. Si legga quest'osservazione di Fausto Curi riportata a p 245: "... l'oltranza della scrittura in Manganelli ha una profonda radice psicologica e biologica, una violenza vitale e mortuaria. Manganelli scrive per vendicarsi, le impennate, gli attorcigliamenti, gli ingorghi del linguaggio hanno qualcosa di acre e di furente, la pagina è insaziatamente amara, cinicamente compiaciuta."
Ma il tema del conflitto sta molto a cuore ai neoavanguardisti in generale. Si veda la teoria di Sanguineti a proposito dell'opera letteraria come contestazione della forma romanzesca attuale, borghese, e sabotaggio della lingua, dove sperimentazione e contestazione dovrebbero andare di pari passo: "Immaginiamo infine che si debba definire romanzo sperimentale quello che non riflette passivamente il modificarsi delle strutture di base, ma, pur operando ovviamente nell'orizzonte dell'omologia borghese, tenta dall'interno di questo orizzonte medesimo un'operazione di contestazione: non subisce passivamente i contraccolpi della modificazione strutturale ma cerca di prenderne attivamente coscienza; ossia (...) rende possibile nel romanzo la sperimentazione-contestazione." (p 117). E si legga l'osservazione di Giorgio Patrizi col senno di poi a p 298-299: "E' la qualità dell'attitudine critica come chiave di approccio all'esistente e di definizione di futuro. Modo del conflitto con un presente insoddisfacente e della proiezione in una utopia di mondo rinnovato. Un modo di accostarsi alla letteratura, rileggendone i significati più complessi, in una rinnovata fiducia per la sua capacità di scavare nel reale ed emblematizzare gesti, voci, personaggi."
Nello stesso tempo è proprio Sanguineti infatti a farsi carico, con alcuni altri, della rifondazione del romanzo, di un altro romanzo possibile, quando, appoggiandosi agli interventi di Leonetti, Curi e Giuliani, soprattutto di Giuliani, riapre il discorso sui temi dell'educazione sentimentale e della radice mitologica/antropologica del narrare (p 116).
Il concetto è ripreso, a distanza di anni, dai postumi Massimiliano Manganelli e Giancarlo Alfano: "A Palermo non s'intendeva distruggere il genere, bensì rifondarlo (...) Giuliani aveva messo in luce 'l'inconscio letterario' del romanzo italiano (...) Insomma a Palermo si voleva affermare unicamente che un altro romanzo è possibile." (Massimiliano Manganelli a p 343); "Superare lo sperimentalismo: fu dunque questa la posta in gioco nella discussione di cinquanta anni fa sul romanzo sperimentale. O forse dichiarare l'impossibilità dello sperimentalismo. Lo disse Barilli nella prima relazione introduttiva. Lo disse Guglielmi. Lo disse Sanguineti, proponendo ancora una volta la via dell'approfondimento, ma per via antropologica, della mitologia..." (Giancarlo Alfano a p 345).
E come non sentire il fascino del richiamo di Elio Pagliarani (p 102) all'innervazione lirica della prosa italica, all'origine, in epoca medievale costituita anche da componimenti misti di prosa e di versi? O del discorso di Angelo Guglielmi (p 37), che su un limite di mancato sviluppo del romanzo italiano rispetto ai modelli europei fa perno per lanciare una sfida a fare, proprio in virtù di una differenza sostanziale, qualcosa di diverso e potenzialmente migliore?**
Secondo diversi critici e scrittori di tutto quell'interrogarsi, valutare, soppesare, problematizzare... non è rimasto niente (Di Marco, Vasio, Trevisan). E Gianluigi Simonetti precisa: "... scegliere lo sperimentalismo letterario, in realtà, non rappresenta di per sé un gesto politico. Non solo non lo è oggi, ma non lo era neppure allora. Dal '65 ai giorni nostri, in più, la fede o la speranza in un mondo radicalmente diverso si è molto logorata; oggi che alla rivoluzione non crede nessuno - almeno in questa parte del pianeta - e che la libertà ci fa più che altro paura, siamo ancora meno disposti di prima a pensare che cambiare il linguaggio significhi cambiare il mondo. Si tratta di una pretesa molto nobile, ma comunque niente più che una pretesa, fondata sulla riduzione arbitraria del mondo al linguaggio, e dello scrittore a scrivente, a tecnico, a chirurgo." (p 367).
Per quella che può essere la mia personale esperienza di scrittura, facendo doverosi e comunque cauti confronti, ritengo di non possedere l'aggressività di alcuni esponenti della neoavanguardia (ma neppure la sua declinazione in tono minore, la goliardia di taluni loro epigoni postmoderni, anni novanta***) e di aspirare invece a una maggiore integrazione fra le parti dell'opera cui mi sto dedicando, a una posizione più elaborativa, depressiva se vogliamo usare una terminologia psicanalitica alla Melanie Klein. Nel mio scritto (inedito) Trilogia del lutto, uno scritto comunque di ricerca, non vi è un attacco alla forma e al senso che si possa paragonare agli esempi posti all'inizio di quest'articolo.
Se attacchi vi sono, non manca tutto un lavoro del negativo, un lavoro del lutto appunto.
* Il fastidio per i generi romanzo e fiaba (si veda anche l'attacco alle fiabe contenuto in Hilarotragoedia) è riferito in larga parte alla questione della trama. Il personaggio forse si salva, è la trama che salta, per il suo implicare sostanzialmente i rapporti con gli altri. Se il personaggio è l'uomo, le trame sono i rapporti fra gli uomini, i legami fra loro e conseguentemente con la società e la cosiddetta realtà. Sul concetto di realtà si può dire molto ovviamente, e proprio per questo non può certo essere rinchiusa in un plot stereotipato e neppure in una visione schematica, programmatica, che si pretende uguale per tutti. Ma osserva Massimo Raffaeli a p 312: "... la barriera del naturalismo è diventata la barriera del realismo. Il romanzo sperimentale si è progressivamente spento andando in folle, dopo avere chiuso gli occhi e voltato le spalle a quella cosa indefinibile eppure immanente, invadente, che i mortali chiamano realtà. Alla realtà delle cose si è silenziosamente e/o rumorosamente sostituita la realtà di un linguaggio autocentrato, autosufficiente e, per così dire, autotelico...".
** A questo proposito ottime risposte potrebbero essere quelle di Mariano Baino (L'uomo avanzato, Le Lettere, Firenze 2008), romanzo statico e molto lirico, o proprio un testo dell'antiromanzesco Manganelli, La palude definitiva (Adelphi, Milano 1991), scritto alla fine del suo percorso, anch'esso quasi privo di trama ma di grande spessore a livello immaginario, evocativo e linguistico.
*** Al contrario considero un capolavoro, seppure successivo ai fertili anni sessanta, Le mosche del capitale di Paolo Volponi, uscito nel 1989 da un autore non ascritto al gruppo neoavanguardista (sperimentale a sua volta, frammentario anch'esso a modo suo, ma entro certi limiti; e in più visionario come pochi romanzi riescono a essere). Rasenta il capolavoro a mio parere quell'opera che per complessità, per multistratificazione, si oppone a ciò che invece, per comodità, per esigenze commerciali o altro, risulta troppo semplificato, troppo facile.
Gli scrittori "padri" degli anni sessanta, così importanti per la formazione di chi come me nacque proprio in quegli anni, sono a mio avviso stati traditi o dimenticati da molti. Considero la mia elaborazione al contrario una forma di fedeltà, pur nella distanza.
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