di Claudia Zaggia
Penso a una frase di Nabokov: “La realtà non è né il soggetto né l’oggetto della vera arte, la quale si crea una realtà sua propria”.
Quasi tutto ciò che si trova in libreria oggi viene definito “romanzo”, sarà anche per questo che i più intendono solo un certo tipo di cosa, ci si aspetta una trama, un inizio e una fine e dei personaggi ai quali poter comodamente girare intorno. E una storia ben comprensibile che non lasci molte incertezze soprattutto quando si arriva alla parola fine.
Capita di incontrare opere di un altro tipo e la parola “romanzo” sembra non andar più bene, altri nomi o etichette non ne abbiamo, diciamo questo è un libro e fa parte di quel gran mondo della narrativa, vario e non sempre così rotondo.
Capita che i romanzi uno dopo l’altro si assomiglino tutti, qualcuno è un poco meglio ma dopo un certo tempo tutti si dimenticano. Scritti anche bene, insomma corretti, non molto di più. A volte scritti e basta ed è veramente troppo poco.
L’ottimismo che si trova poi in tanta letteratura, messo in bella mostra, è un prodotto commerciale. Dopo lo scaffale dei cibi in scatola per umani e animali, c’è quello dei libri, ma mi raccomando che non sia triste, che altrimenti non lo digerisco.
Roberta Salardi ha osato molto, fiduciosa di trovare dopo lettori adatti, non so se li ha trovati, non so se io qui sono un lettore adatto, so che mi piace incontrare l’inconsueto, l’azzardo, l’opera che osa senza mai tralasciare quella che si chiama qualità, quella della scrittura prima di tutto, altrimenti potremmo decidere di lasciare, di non continuare a leggere e invece si arriva inquieti e soddisfatti a pag. 352, l’ultima.
Credo che più di tanto non si debba spiegare o cercare di chiarire. In un libro come questo, in questa intrigante Trilogia della scomparsa (che bel titolo, e anche quelli che troviamo dopo promettono bene), sarebbe cosa ben superficiale credere di poter comprendere tutto o addirittura di aver compreso tutto.
C’è molta destrezza intellettuale in quest’opera e incontrarla così spesso fa parte del piacere di leggerla, un piacere pieno di sfumature.
Era da parecchio tempo che non leggevo un libro di narrativa così complesso, ricco, intenso e problematico. Con gli aggettivi potrei continuare ma mi fermo qui. L’abitudine a tanti romanzetti anche di buona qualità ma infine sempre quelli, ci impigrisce, come se la narrativa fosse questo e non altro. Poi un bel giorno l’assolutamente altro arriva e restiamo stregati ma anche un poco travolti. E adesso di quest’opera cosa diciamo? L’opera peraltro è di felicissima lettura, la scrittura è molto bella, non affatica il lettore che procede e procede ma vive anche continui stati di smarrimento.
Di cosa parla questa trilogia, cosa racconta? E chi sono i personaggi? Perché qualcosa racconterà e ci saranno dei personaggi di un qualche tipo. Certamente, anche.
Se si racconta si presuppone un certo ordine e anche un certo realismo. Questo sarebbe fuorviante per un’opera che è affascinante perché accidentata, succede e non succede, è e non è. La trilogia non teme di allontanarsi dal realismo, di giocargli brutti scherzi, di far riapparire quello che è imprevedibile, riapre gli orizzonti, non vuole che il lettore stia comodamente seduto in poltrona.
La forma scelta è quella del diario o dei diari, ma nessuno pensi a qualcosa che già è conosciuto e se poi anche qualcuno di voi tiene un diario: ebbene questa è un’altra cosa, anzi parecchie altre cose.
Mi faccio anche alcune domande sull’autore, un’autrice in qualche modo geniale che non sarà contenta di quello che si dice della sua opera, che vorrebbe ascoltare altro, ma si rende conto questa autrice misteriosa di che cosa ha fatto?
Cerco adesso di mettere ordine non nel libro ma nella mia testa.
I personaggi femminili creano realtà e subito dopo la frantumano, la dissolvono: è vero questo o è vero quello? O forse non è vero niente, solo vince la scrittura. E non fidiamoci troppo dei nomi che dovrebbero fare personaggio; tremende comunque le due sorelle, scrivono diari per modo di dire, s’inventano storie e ci cascano dentro. Le due sorelle scrivono, veramente in questa trilogia scrivono un poco tutti e sono abili affabulatori ma s’ingarbugliano, si aggrovigliano. Perché di solito si scrive un diario? Per ritrovarsi, per stabilizzarsi, anche per cercare di capire, ma i diari di Martina e Fabiola fanno altro. Nella terza parte della trilogia Andrea cerca di far meglio usando anche scritture altrui, autori importanti o anche no, i risultati non sono così rassicuranti, almeno per noi.
Riapro il libro, primo romanzo della trilogia: Il corpo della casa. Quello che già dopo alcune pagine stupisce è come la scrittura ci conduca avanti affascinante e convincente pur avendo a che fare con frammenti, allusioni, appunti e altro. Anche il probabile incontro con i morti perché “loro forse hanno pietà di noi e ogni tanto ci vengono a trovare”. Ad ogni capitolo o quasi una citazione, alcune richiedono una certa attenzione, cerchiamo di legare la citazione con quello che troviamo dopo, una sfida anche questa.
Chi è Fulvio, cosa gli succede? Di lui si sanno cose molto contraddittorie, vorremmo fermarlo da qualche parte: è un artista, è malato, malato come e dove? E poi anche forse muore, forse è anche tutta una cosa immaginaria.
Secondo romanzo della trilogia: Doppio diario. Ecco l’altra sorella: Fabiola, però in questo secondo romanzo scrive anche la figlia di Fabiola, Virginia, Virginia sembra sino a un certo punto la tipica adolescente, forse per questo non così simpatica, ma non semplifichiamo. Lei commenta, interviene, si mostra preoccupata e consapevole dell’attuale stato del pianeta.
Una madre e una figlia: situazione tra le più complicate, che è impossibile chiarire.
Siamo giunti alla terza parte della trilogia, ecco Andrea, lui incidentato, sua madre malata, lui giovane che qualcosa vuole fare, vuole essere e si fa aiutare da autori importanti, quelli che avrà letto durante i suoi studi, e che continua a leggere. Poi nel suo diario c’è anche molto altro, siamo in una sorta di diario-laguna, troviamo veramente molto, isolotti, pantani, percorsi interrotti. Andrea si occupa soprattutto di filosofia. Ci sono anche due racconti: Notturno e La città ctonia. La città ctonia è il racconto di una utopia, un luogo che sembra dover essere molto bello, ma il lettore può benissimo essere di tutt’altro parere.
C’è anche l’altro Andrea, i due sono amici, si scrivono, discutono… sembra prevalere in questa terza parte della trilogia la forma del racconto-saggio, mi piace quando la narrativa incontra la saggistica, è un altro steccato che va giù (anche se occorre maneggiare con cura le proprie conoscenze, non esagerare, non far sembrare che si tratti di un lavoro costruito troppo meccanicamente).
Ma quel dito insepolto che viene portato in giro (conservato forse come i resti degli antenati nei popoli nomadi di un tempo) ci turba o ci fa pensare, non si vorrebbe seppellire i morti, è una cosa troppo definitiva.
C’è un ordine in questa trilogia, ci sono richiami, riferimenti, ben si capisce che l’autrice su questo ha lavorato molto senza però mai voler dare ai lettori un filo per poter ripercorre con una certa sicurezza i labirinti. Se è, come ha detto l’autrice in una intervista, un’opera al limite, cosa potrebbe mai esserci dopo? Resto però convinta che rimanga ben all’interno della narrativa, sicuramente in modi non tranquillizzanti, problematici invece, ma non è forse in buona compagnia? Perché ci sono molte opere del Novecento che, uscendo fuori dai binari più tradizionali, hanno preso altre strade. Forse l’autrice da alcune opere è stata anche influenzata, forse si tratta soprattutto di corrispondenze.
L’autrice ha creato riferimenti, richiami, suggestioni, emozioni che ritornano, niente sembra lasciato al caso, un gran bel lavoro, un’opera complessa, ci sono alcune presenze che più di altre ritornano, a me sembra che soprattutto sia dominante quella dei morti. Il morire, l’essere ammalati, essere scomparsi ma si sa che “i morti non i xe mai morti e i rampa sempre fora dapartuto”. Accanto alla morte, con lei sempre c’è la solitudine e non solo perché si muore soli.
La terza parte della trilogia significativamente si chiama Nell’altra stanza (l’altra stanza è quella dove sta morendo la madre di Andrea). L’altra stanza è titolo evocativo e suggestivo, evitiamo questa altra stanza, passiamo davanti alla porta chiusa, sentiamo dall’altra parte qualcuno che respira. Infine ogni respiro cessa. La madre è morta, ci affidiamo, come sempre, a quello che ci dice il narratore, ma forse non dovremmo, in questa intera trilogia ben lo sappiano che i narratori sono inaffidabili, sono anche logorati da forme di follia più o meno passeggera. Siamo anche tutti noi.
Adesso dovrei concludere e invece mi verrebbe voglia di riaprire tutto. Vengo ripresa da quella prosa frammentata, interrotta, dal ritmo vario… Un ritmo fluido anche, o accidentato.
Scrivere libri così mi sembra voglia dire avere anche molta fiducia nella letteratura, in quello che ancora può essere, malgrado tutto ovviamente. Non salverà il mondo la letteratura, non salverà neppure noi singolarmente presi, però qualcosa abbiamo, e “par che s’ingrandisca l’anima del lettore” come diceva Leopardi. Romanzi lodati sono quelli che anche a scuola, o soprattutto lì, possono andar bene perché sono testimonianze, racconti di cose vissute, sono pezzi di vita da prendere assolutamente sul serio. Gli schemi narrativi non cambiano se vengono raccontati i nuovi fatti e fattacci della nostra attuale situazione di esseri sull’orlo dell’estinzione. Questo è davvero strano. Viviamo in un gran brutto momento e non sto parlando di covid e virus, c’è ben di peggio. Il peggio che ci riguarda tutti è che viviamo in pieno Antropocene. I più, anche tra gli scrittori, fanno finta di niente e continuano a scrivere come sempre. Come sempre non è più possibile, anche per questo c’è questa Trilogia della scomparsa.
Articolo pubblicato su Nazione Indiana il 18.4.2021
Nessun commento:
Posta un commento