Le celebrazioni di classici sempre a noi vicini sono più
che mai opportune. Pensiamo a Dante. Le sue parole, talvolta aspre e sferzanti,
continuano a risuonare cariche di significato in un Paese come il nostro
tutt'oggi ferito dalla piaga della corruzione, della trascuratezza e del
degrado (secondo le stime del 2018, l'Italia occupa tra i peggiori posti in
Europa e il 53° nel mondo per il problema della corruzione).
A distanza di secoli colpisce un senso della giustizia
che non fa sconti alla memoria di personaggi celebri e altolocati, d'arme e di
religione, spesso impegnati in terribili lotte per ricchezza e potere, aperte o
intestine, che insanguinarono l'Italia in un'epoca bassomedievale in cui l'egemonia
dell'Impero (rimpianto da Dante come la forza che favorì l'età d'oro della pax
romana e un'idealizzata età feudale-cavalleresca) era ormai fortemente
contrastata dal sorgere di ricchi feudi, signorie e comuni continuamente
impegnati nel fronteggiarsi a vicenda. Accanto alla feudalità agraria, si
andava sviluppando un ceto arricchito dalle vivaci attività commerciali e
artigianali fiorenti all'interno di numerose città: la situazione era instabile
e caratterizzata da sempre nuove alleanze e contrasti interni alle città-stato
o relativi ai rapporti con le maggiori dinastie europee. Lo stesso Dante pagò
con l'esilio la partecipazione alla vita politica della sua Firenze, "nido
di malizia tanta" (Inferno XV,
v 78). Ma se la violenza e l'inganno sono puniti nei gironi più bassi
dell'Inferno, il non parteggiare per nessuno, proprio degli ignavi, ottiene dal
poeta il massimo disprezzo alle porte degli inferi, là dove un folto numero di
anime indifferenti e vili, che mai non
fur vive, perché non furono animate da impegno e partecipazione, non
vengono considerate né da Dio né dagli uomini, che non serbano di loro alcuna
memoria (III, vv 22-69). La turba
degli indifferenti è uno sfondo che vale per tutti i tempi tuttavia l'età dei
comuni fu tutt'altro che amorfa e monotona. Nel breve frammento qui riportato
della celebre apostrofe all'Italia (Purgatorio
VI, vv 76-151) essa appare lacerata da insanabili discordie e da fazioni ferocemente
avverse persino all'interno delle stesse mura cittadine: "Ahi serva
Italia, di dolore ostello (…) ora in te non stanno sanza guerra/ li vivi tuoi,
e l'un l'altro si rode/ di quei ch'un muro e una fossa serra" (vv 76-84). L'inganno
e il tradimento, tramati senza sosta, possono tendere agguati mortali e
determinare la caduta d'intere città: i traditori sono puniti nel fondo
dell'Inferno, là dove pur brilla l'intelligenza di Ulisse (Inferno XXVI), capace di spingere lui e i compagni alla scoperta
dell'ignoto, di superare ogni limite, ma anche di divenire strumento per
ingannare e colpire l'avversario. Il canto di Ulisse non contiene solo una
verità ma più di una verità: le capacità umane destano in noi orgoglio e ammirazione
ma possono rapidamente portare alla rovina.
I mali degli uomini derivano nella maggior parte dei casi
dalla brama di ricchezze. Strali contro l'avidità attraversano tutto il poema.
Fin dal I canto dell'Inferno la lupa è la fiera che più
spaventa Dante e lo respingerebbe indietro nella selva oscura se non
intervenisse Virgilio; nel XXVII
canto del Paradiso (vv 19-67), non lontano
dall'Empireo, San Pietro tuona contro la corruzione del papato, tema anticipato
già nel canto XVII della stessa
cantica, ove si dice che Roma è il luogo "dove Cristo tutto dì si
merca" (v 51). Nello stesso canto XVII
(vv 124-142) l'antenato Cacciaguida esorta Dante a non tacere le iniquità né i
nomi dei malfattori altolocati e delle loro potenti famiglie, considerata la
funzione esemplare e altamente morale del suo ruolo di scrittore: "Ma
nondimen, rimossa ogne menzogna,/ tutta tua vision fa manifesta;/ e lascia pur
grattar dov'è la rogna" (vv 127-129). Nel canto XI del Paradiso viene esaltata,
per contrasto, l'unione tra San Francesco e Madonna Povertà (28-117) mentre gli
usurai (oggi li chiameremmo semplicemente banchieri), coloro che traggono denaro
da denaro, offendono la bontà divina poiché non vivono del prodotto del loro
lavoro o dei frutti della natura, secondo la legge biblica, bensì degli
interessi sul prestito. Nell'XI
canto dell'Inferno (vv 97-111) è ben
specificato che il lavoro non è da intendersi soltanto come condanna e fatica
ma anche come forma di avvicinamento all'opera di Dio: così come Dio ha creato
il mondo l'essere umano inventa continuamente le proprie attività e produce le
cose di cui ha bisogno. Voler guadagnare senza passare attraverso l'attività e
la creatività è un peccato.
Si susseguono i riferimenti negativi alla cupidità oltre che nel I canto (49-60), in Inferno VI vv 73-75, VII vv
46-48, XII vv 49-51, XV vv 61-78, XVII vv 52-57, XVIII v
63, XIX vv 1-133; Paradiso XV vv 1-3, XVII v 51, XXVII vv 22-66 e 121-148, XXX
vv 129-148. Valga per tutti questo frammento delle parole di Beatrice: "
Oh cupidigia, che i mortali affonde/ sì sotto te, che nessuno ha podere/ di
trarre li occhi fuor de le tue onde!/ Ben fiorisce ne li uomini il volere;/ ma
la pioggia continua converte/ in bozzacchioni le sosine vere." (XXVII vv 121-126). Il desiderio del
bene, che pur fiorirebbe spontaneamente secondo la visione teologica espressa
da Beatrice, viene traviato nell'ambiente corrotto che non ne favorisce lo
sviluppo. Nel canto XIX dell'Inferno un papa (Niccolò
III, cui seguiranno Bonifacio VIII e Clemente V) sta conficcato a testa in giù
per il peccato di simonia, ovvero per la vendita di cose sacre: perso
l’orizzonte del cielo, può guardare e sprofondare solo in basso; i successori
che lo imiteranno lo conficcheranno sempre più giù. Nel XXVII canto (vv 19-67) del Paradiso,
come accennato sopra, un San Pietro furente si scaglia contro la Chiesa
corrotta del tempo; lo accompagnano le parole di Beatrice, più pacate ma
comunque ferme contro il disordine morale causato dalla cupidigia (vv 121-148).
Una luce particolarmente sinistra cade su Bonifacio VIII nel canto XXVII dell'Inferno (vv 61-129): questi, per indurre Guido da Montefeltro ad aiutarlo nel tendere un tranello, lo illude di poterlo assolvere in
anticipo dalla colpa, gli promette cioè l'assoluzione dal peccato prima del peccato
stesso, portando quindi il titubante Guido da Montefeltro, che avrebbe voluto
cambiare vita, alla perdizione: ancora una prova di come l'acutezza e la
sottigliezza del pensiero possano essere male adoperate.
Non uno splendido eloquio ma un'oralità bestiale e
selvaggia appartiene invece a Lucifero, simile a un animale mostruoso secondo
l'iconografia del Medioevo, nel canto XXXIV
dell'Inferno (vv 28-67): nel suo
buco al centro della Terra egli divora con tre bocche Giuda (traditore di
Gesù), Bruto e Cassio (traditori di Cesare). Il canto XXXIII è interamente dominato dal tema della fame. Il conte Ugolino
della Gherardesca, che si alleava ora con gli uni ora con gli altri destreggiandosi
abilmente tra le opposte fazioni di guelfi e ghibellini, prendendo le distanze
in modo molto disinvolto dal proprio partito (ghibellino) a seconda
dell'opportunità, fu tradito dall'arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini,
ghibellino pure lui, e condannato a una morte impietosa, per fame, in una torre-prigione
pisana: a scontare la pena con lui, figli e nipoti ancora giovani e innocenti.
In una bolgia ghiacciata degli inferi Ugolino divora eternamente la testa del
traditore e torturatore suo e dei suoi figli. In questo canto si parla di una
fame crudelmente inflitta per condanna e placata per vendetta, ma l'immagine
del divoramento si ripete. Seppur per metafora, già nel XV canto (vv 70-78) Dante aveva immaginato i fiorentini che lo
attaccavano, che avevano fame di lui,
intenti a divorarsi a vicenda.
Ciò che a livello più elaborato assume le varie forme dell'avidità
di ricchezza e potere, diffusa in ogni tempo e in ogni luogo, nel suo nucleo originario
psichico profondo, rappresentato al centro della Terra con le peggiori
condizioni dei dannati, non è che il gusto del divorare gli altri, pulsione
orale bruta e semplice, struttura arcaica della psiche secondo la psicanalisi.
Queste immagini restano nel tempo, attraversano i secoli
per ricordarci una natura pulsionale avida e spietata, sostenuta da
un'intelligenza che ci porta al di là dei nostri limiti, affascinante ma
pericolosa, non di rado usata per piegare e sottomettere.
Dobbiamo fare i conti con tendenze accaparratrici e
violente che ci spingono continuamente al conflitto e alla prevaricazione:
"Oh cieca cupidigia e ira folle,/ che sì ci sproni nella vita corta,/ e ne
l'etterna poi sì mal c'immolle!" (Inferno
XII vv 49-51).
Rapportando il discorso ai giorni nostri, la sfida che
abbiamo di fronte è il controllo di questa voracità smodata che si vorrebbe
mangiare l'intero pianeta senza considerare che è l'unico che abbiamo: non ci
sarà un pianeta B, come gridano da ogni parte i giovani e tutte le persone
impegnate nel movimento per il clima, ovvero per una società impostata su valori
che non siano il consumo ingordo e distruttivo dei beni comuni.
P.S. - Ci avviciniamo al 2021, settimo centenario della morte di Dante e il sommo poeta comincia a essere commemorato: letture
della Divina commedia iniziate nel
febbraio di quest'anno che si concluderanno proprio nel 2021 in una libreria
milanese del centro (Libreria del tempo ritrovato con lettura e commento di
Alberto Cristofori); recitazione di passi dell'Inferno con atmosfere create dal
sound design alla fermata di Repubblica della metropolitana di Milano (con la
compagnia Micronecta Sholtzi) a fine marzo; altre pubblicazioni e letture.
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