domenica 12 maggio 2019

Perché Dante

Il cammino ecologista e culturale di Repubblica nomade quest'anno (2019) mira a percorrere un cuore dell'Italia fatto dei valori di rettitudine, sobrietà, solidarietà, lucidità di pensiero trasmessi nel tempo dalle personalità fondatrici di Dante, Francesco d'Assisi e Leopardi.
Le celebrazioni di classici sempre a noi vicini sono più che mai opportune. Pensiamo a Dante. Le sue parole, talvolta aspre e sferzanti, continuano a risuonare cariche di significato in un Paese come il nostro tutt'oggi ferito dalla piaga della corruzione, della trascuratezza e del degrado (secondo le stime del 2018, l'Italia occupa tra i peggiori posti in Europa e il 53° nel mondo per il problema della corruzione).
A distanza di secoli colpisce un senso della giustizia che non fa sconti alla memoria di personaggi celebri e altolocati, d'arme e di religione, spesso impegnati in terribili lotte per ricchezza e potere, aperte o intestine, che insanguinarono l'Italia in un'epoca bassomedievale in cui l'egemonia dell'Impero (rimpianto da Dante come la forza che favorì l'età d'oro della pax romana e un'idealizzata età feudale-cavalleresca) era ormai fortemente contrastata dal sorgere di ricchi feudi, signorie e comuni continuamente impegnati nel fronteggiarsi a vicenda. Accanto alla feudalità agraria, si andava sviluppando un ceto arricchito dalle vivaci attività commerciali e artigianali fiorenti all'interno di numerose città: la situazione era instabile e caratterizzata da sempre nuove alleanze e contrasti interni alle città-stato o relativi ai rapporti con le maggiori dinastie europee. Lo stesso Dante pagò con l'esilio la partecipazione alla vita politica della sua Firenze, "nido di malizia tanta" (Inferno XV, v 78). Ma se la violenza e l'inganno sono puniti nei gironi più bassi dell'Inferno, il non parteggiare per nessuno, proprio degli ignavi, ottiene dal poeta il massimo disprezzo alle porte degli inferi, là dove un folto numero di anime indifferenti e vili, che mai non fur vive, perché non furono animate da impegno e partecipazione, non vengono considerate né da Dio né dagli uomini, che non serbano di loro alcuna memoria (III, vv 22-69). La turba degli indifferenti è uno sfondo che vale per tutti i tempi tuttavia l'età dei comuni fu tutt'altro che amorfa e monotona. Nel breve frammento qui riportato della celebre apostrofe all'Italia (Purgatorio VI, vv 76-151) essa appare lacerata da insanabili discordie e da fazioni ferocemente avverse persino all'interno delle stesse mura cittadine: "Ahi serva Italia, di dolore ostello (…) ora in te non stanno sanza guerra/ li vivi tuoi, e l'un l'altro si rode/ di quei ch'un muro e una fossa serra" (vv 76-84). L'inganno e il tradimento, tramati senza sosta, possono tendere agguati mortali e determinare la caduta d'intere città: i traditori sono puniti nel fondo dell'Inferno, là dove pur brilla l'intelligenza di Ulisse (Inferno XXVI), capace di spingere lui e i compagni alla scoperta dell'ignoto, di superare ogni limite, ma anche di divenire strumento per ingannare e colpire l'avversario. Il canto di Ulisse non contiene solo una verità ma più di una verità: le capacità umane destano in noi orgoglio e ammirazione ma possono rapidamente portare alla rovina.
I mali degli uomini derivano nella maggior parte dei casi dalla brama di ricchezze. Strali contro l'avidità attraversano tutto il poema. Fin dal I canto dell'Inferno la lupa è la fiera che più spaventa Dante e lo respingerebbe indietro nella selva oscura se non intervenisse Virgilio; nel XXVII canto del Paradiso (vv 19-67), non lontano dall'Empireo, San Pietro tuona contro la corruzione del papato, tema anticipato già nel canto XVII della stessa cantica, ove si dice che Roma è il luogo "dove Cristo tutto dì si merca" (v 51). Nello stesso canto XVII (vv 124-142) l'antenato Cacciaguida esorta Dante a non tacere le iniquità né i nomi dei malfattori altolocati e delle loro potenti famiglie, considerata la funzione esemplare e altamente morale del suo ruolo di scrittore: "Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,/ tutta tua vision fa manifesta;/ e lascia pur grattar dov'è la rogna" (vv 127-129). Nel canto XI del Paradiso viene esaltata, per contrasto, l'unione tra San Francesco e Madonna Povertà (28-117) mentre gli usurai (oggi li chiameremmo semplicemente banchieri), coloro che traggono denaro da denaro, offendono la bontà divina poiché non vivono del prodotto del loro lavoro o dei frutti della natura, secondo la legge biblica, bensì degli interessi sul prestito. Nell'XI canto dell'Inferno (vv 97-111) è ben specificato che il lavoro non è da intendersi soltanto come condanna e fatica ma anche come forma di avvicinamento all'opera di Dio: così come Dio ha creato il mondo l'essere umano inventa continuamente le proprie attività e produce le cose di cui ha bisogno. Voler guadagnare senza passare attraverso l'attività e la creatività è un peccato.

Si susseguono i riferimenti negativi alla cupidità oltre che nel I canto (49-60), in Inferno VI vv 73-75, VII vv 46-48, XII vv 49-51, XV vv 61-78, XVII vv 52-57, XVIII v 63, XIX vv 1-133; Paradiso XV vv 1-3, XVII v 51, XXVII vv 22-66 e 121-148, XXX vv 129-148. Valga per tutti questo frammento delle parole di Beatrice: " Oh cupidigia, che i mortali affonde/ sì sotto te, che nessuno ha podere/ di trarre li occhi fuor de le tue onde!/ Ben fiorisce ne li uomini il volere;/ ma la pioggia continua converte/ in bozzacchioni le sosine vere." (XXVII vv 121-126). Il desiderio del bene, che pur fiorirebbe spontaneamente secondo la visione teologica espressa da Beatrice, viene traviato nell'ambiente corrotto che non ne favorisce lo sviluppo. Nel canto XIX dell'Inferno un papa (Niccolò III, cui seguiranno Bonifacio VIII e Clemente V) sta conficcato a testa in giù per il peccato di simonia, ovvero per la vendita di cose sacre: perso l’orizzonte del cielo, può guardare e sprofondare solo in basso; i successori che lo imiteranno lo conficcheranno sempre più giù. Nel XXVII canto (vv 19-67) del Paradiso, come accennato sopra, un San Pietro furente si scaglia contro la Chiesa corrotta del tempo; lo accompagnano le parole di Beatrice, più pacate ma comunque ferme contro il disordine morale causato dalla cupidigia (vv 121-148). Una luce particolarmente sinistra cade su Bonifacio VIII nel canto XXVII dell'Inferno (vv 61-129): questi, per indurre Guido da Montefeltro ad aiutarlo nel tendere un tranello, lo illude di poterlo assolvere in anticipo dalla colpa, gli promette cioè l'assoluzione dal peccato prima del peccato stesso, portando quindi il titubante Guido da Montefeltro, che avrebbe voluto cambiare vita, alla perdizione: ancora una prova di come l'acutezza e la sottigliezza del pensiero possano essere male adoperate.
Non uno splendido eloquio ma un'oralità bestiale e selvaggia appartiene invece a Lucifero, simile a un animale mostruoso secondo l'iconografia del Medioevo, nel canto XXXIV dell'Inferno (vv 28-67): nel suo buco al centro della Terra egli divora con tre bocche Giuda (traditore di Gesù), Bruto e Cassio (traditori di Cesare). Il canto XXXIII è interamente dominato dal tema della fame. Il conte Ugolino della Gherardesca, che si alleava ora con gli uni ora con gli altri destreggiandosi abilmente tra le opposte fazioni di guelfi e ghibellini, prendendo le distanze in modo molto disinvolto dal proprio partito (ghibellino) a seconda dell'opportunità, fu tradito dall'arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini, ghibellino pure lui, e condannato a una morte impietosa, per fame, in una torre-prigione pisana: a scontare la pena con lui, figli e nipoti ancora giovani e innocenti. In una bolgia ghiacciata degli inferi Ugolino divora eternamente la testa del traditore e torturatore suo e dei suoi figli. In questo canto si parla di una fame crudelmente inflitta per condanna e placata per vendetta, ma l'immagine del divoramento si ripete. Seppur per metafora, già nel XV canto (vv 70-78) Dante aveva immaginato i fiorentini che lo attaccavano, che avevano fame di lui, intenti a divorarsi a vicenda.
Ciò che a livello più elaborato assume le varie forme dell'avidità di ricchezza e potere, diffusa in ogni tempo e in ogni luogo, nel suo nucleo originario psichico profondo, rappresentato al centro della Terra con le peggiori condizioni dei dannati, non è che il gusto del divorare gli altri, pulsione orale bruta e semplice, struttura arcaica della psiche secondo la psicanalisi.
Queste immagini restano nel tempo, attraversano i secoli per ricordarci una natura pulsionale avida e spietata, sostenuta da un'intelligenza che ci porta al di là dei nostri limiti, affascinante ma pericolosa, non di rado usata per piegare e sottomettere.
Dobbiamo fare i conti con tendenze accaparratrici e violente che ci spingono continuamente al conflitto e alla prevaricazione: "Oh cieca cupidigia e ira folle,/ che sì ci sproni nella vita corta,/ e ne l'etterna poi sì mal c'immolle!" (Inferno XII vv 49-51).
Rapportando il discorso ai giorni nostri, la sfida che abbiamo di fronte è il controllo di questa voracità smodata che si vorrebbe mangiare l'intero pianeta senza considerare che è l'unico che abbiamo: non ci sarà un pianeta B, come gridano da ogni parte i giovani e tutte le persone impegnate nel movimento per il clima, ovvero per una società impostata su valori che non siano il consumo ingordo e distruttivo dei beni comuni.

P.S. - Ci avviciniamo al 2021, settimo centenario della morte di Dante e il sommo poeta comincia a essere commemorato: letture della Divina commedia iniziate nel febbraio di quest'anno che si concluderanno proprio nel 2021 in una libreria milanese del centro (Libreria del tempo ritrovato con lettura e commento di Alberto Cristofori); recitazione di passi dell'Inferno con atmosfere create dal sound design alla fermata di Repubblica della metropolitana di Milano (con la compagnia Micronecta Sholtzi) a fine marzo; altre pubblicazioni e letture.


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