venerdì 2 gennaio 2015

In che senso dico che i miei romanzi sono anoressici?

Rifiutano di nutrirsi, di lievitare, di diventare voluminosi. Come? Per esempio, disdegnando l'accumulo di particolari. Non amo i cosiddetti dettagli, considerati dagli estimatori del cosiddetto realismo segnali determinanti per ancorare il testo alla realtà (o meglio, all'apparenza visibile, poiché che cosa sia veramente la realtà non so fino a che punto interessi al narratore comune). Non si tratta di un semplice gusto o capriccio. Un certo numero di particolari mi paiono proprio inutili e assurdi. Prendiamo questa frase di Charles D'Ambrosio, autore americano contemporaneo per molti aspetti di talento, un buon autore tradizionale (cito lui perché gli appartiene il libro che sto leggendo adesso, ma gli esempi sono dappertutto, soprattutto nelle innumerevoli narrazioni extradiegetiche): "Drummond portava un vecchio cappello di feltro con una penna rossa sulla fascia, e un cappotto beige chiuso con la cinta." (Il museo dei pesci morti, Minimum fax, Roma 2014, p 50). Che cosa può voler dire questa frase? L'abbigliamento descritto a me non suggerisce alcuna informazione in più sul personaggio. Non mi dice niente, perdipiù riferito a un ambiente sociale, quello occidentale contemporaneo, in cui le persone più conformiste possono vestirsi in modo eccentrico o strano così come persone fuori dal comune o addirittura folli possono presentarsi nella maniera più ordinaria. Oltretutto, moda a parte, non crediamo più nella fisiognomica.
Saltato completamente il maquillage e tutto il solito posticcio finto realismo di cui sono infarcite tante scene narrative, tipo descrizioni dell'aspetto fisico dei personaggi, descrizione di questo o di quel particolare che possa dare un senso di realtà… (per non parlare dell'abolizione completa della presentazione classica dell'ambiente sociale, il milieu ottocentescamente determinato/deterministico)… ecco che le pagine sono già un bel po' scarnite...
Inoltre la soppressione dei gesti minimi della vita quotidiana, che occupa così tanta parte di molti romanzi (egli si alzò, si sedette, prese il bicchiere, si versò, preparò, andò alla finestra, vide, uscì, si diresse, rincasò, si coricò eccetera) significa anch'essa disfarsi di una certa zavorra.  
Queste continue elisioni e alleggerimenti comportano ovviamente un considerevole dimagrimento della narrazione nel suo complesso. La carenza di abbondanti rivestimenti descrittivi, a mio avviso superflui ma che danno corpo all'insieme, e di un'ossatura collaudata, offerta per esempio, come ho detto, dai gesti della vita quotidiana, va a incidere pure sullo scheletro del romanzo (questi fattori vengono percepiti maggiormente nel romanzo che nel racconto in quanto nella forma lunga una trama debole e il venir meno dei consueti appigli che facilitano la lettura, e perfino ne costituiscono il supporto, si avvertono in modo ben chiaro). Non mi sfugge che i summenzionati appigli, descrizione dell'aspetto dei personaggi e riferimenti alla vita quotidiana, costituiscano una buona difesa dall'horror vacui, da quell'angoscia che con molta probabilità soggiace a livello profondo alle attività sia della scrittura sia della lettura. La maggior parte dei romanzi dunque si limita a creare fondamentalmente una barriera contro l'angoscia e altri elementi profondi della psiche di ognuno di noi senza indagare, senza lasciar emergere troppe domande o inquietudini. Ogni angolo viene riempito, ogni lacuna è satura di parole, i media s'insinuano in ogni spazio; mentre resta, vastissimo, il vuoto metafisico (il silenzio nudo di Leopardi). 
A me piace lasciar emergere quel grido silenzioso; lasciare che affiori lo spazio bianco, l'assenza di parole capaci di ricucire continuamente, frase dopo frase, paragrafo dopo paragrafo, i bordi dell'ignoto o del caos che ci circonda.
Nessuna robustezza di trama, niente solidità di cliché troppo spesso ripetuti, ma un movimento talvolta pensoso, talvolta onirico, un fluire che come quello di un corso d'acqua, ai lati, può perdersi in piccoli mulinelli o gorghi più ampi.

Si fa per dire. Ogni romanzo è diverso e va considerato nello specifico. A proposito, sono mai usciti i miei romanzi? No, non sono mai stati pubblicati. Tranne uno, il primo, che considero una mia prova giovanile e nemmeno nomino come mio esordio; si tratta di Arance in insalata, Effedue, Piacenza 2003, un romanzo ironico-sentimentale. Editrice sparita, romanzo introvabile.

P.S. - A distanza di tempo da queste riflessioni sulla mia anoressia scrittoria, leggo una teoria di Kundera, riportata da Massimo Rizzante in Un dialogo infinito (Effigie 2015), a proposito di stile della vecchiaia, stile dell'essenziale e stile dell'astratto per "contrappeso ai mali ipertrofici del mondo" (p 178).

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