Rifiutano
di nutrirsi, di lievitare, di diventare voluminosi. Come? Per esempio, disdegnando
l'accumulo di particolari. Non amo i cosiddetti dettagli, considerati dagli estimatori
del cosiddetto realismo segnali determinanti per ancorare il testo alla realtà (o meglio, all'apparenza visibile,
poiché che cosa sia veramente la realtà
non so fino a che punto interessi al narratore comune). Non si tratta di un semplice gusto o capriccio. Un certo numero di particolari mi paiono proprio inutili e assurdi. Prendiamo questa frase di Charles D'Ambrosio, autore americano contemporaneo per molti aspetti di talento, un buon autore tradizionale (cito lui perché gli appartiene il libro che sto leggendo adesso, ma gli esempi sono dappertutto, soprattutto nelle innumerevoli narrazioni extradiegetiche): "Drummond portava un vecchio cappello di feltro con una penna rossa sulla fascia, e un cappotto beige chiuso con la cinta." (Il museo dei pesci morti, Minimum fax, Roma 2014, p 50). Che cosa può voler dire questa frase? L'abbigliamento descritto a me non suggerisce alcuna informazione in più sul personaggio. Non mi dice niente, perdipiù riferito a un ambiente sociale, quello occidentale contemporaneo, in cui le persone più conformiste possono vestirsi in modo eccentrico o strano così come persone fuori dal comune o addirittura folli possono presentarsi nella maniera più ordinaria. Oltretutto, moda a parte, non crediamo più nella fisiognomica.
Saltato
completamente il maquillage e tutto il solito posticcio finto realismo di cui
sono infarcite tante scene narrative, tipo descrizioni dell'aspetto fisico dei
personaggi, descrizione di questo o di quel particolare che possa dare un senso di realtà… (per non parlare
dell'abolizione completa della presentazione classica dell'ambiente sociale, il milieu ottocentescamente
determinato/deterministico)… ecco che le pagine sono già un bel po' scarnite...
Inoltre
la soppressione dei gesti minimi della vita quotidiana, che occupa così tanta
parte di molti romanzi (egli si alzò, si sedette, prese il bicchiere, si
versò, preparò, andò alla finestra, vide, uscì, si diresse, rincasò, si coricò
eccetera) significa anch'essa disfarsi di una certa zavorra.
A me piace lasciar emergere quel grido silenzioso; lasciare che affiori lo spazio bianco, l'assenza di parole capaci di ricucire continuamente, frase dopo frase, paragrafo dopo paragrafo, i bordi dell'ignoto o del caos che ci circonda.
Nessuna
robustezza di trama, niente solidità di cliché troppo spesso ripetuti, ma un
movimento talvolta pensoso, talvolta onirico, un fluire che come quello di un
corso d'acqua, ai lati, può perdersi in piccoli mulinelli o gorghi più ampi.
Si fa
per dire. Ogni romanzo è diverso e va considerato nello specifico. A proposito, sono mai usciti i miei romanzi? No, non sono mai stati pubblicati. Tranne uno, il primo, che considero una mia prova giovanile e nemmeno nomino come mio esordio; si tratta di Arance in insalata, Effedue, Piacenza 2003, un romanzo ironico-sentimentale. Editrice sparita, romanzo introvabile.
P.S. - A distanza di tempo da queste riflessioni sulla mia anoressia scrittoria, leggo una teoria di Kundera, riportata da Massimo Rizzante in Un dialogo infinito (Effigie 2015), a proposito di stile della vecchiaia, stile dell'essenziale e stile dell'astratto per "contrappeso ai mali ipertrofici del mondo" (p 178).
P.S. - A distanza di tempo da queste riflessioni sulla mia anoressia scrittoria, leggo una teoria di Kundera, riportata da Massimo Rizzante in Un dialogo infinito (Effigie 2015), a proposito di stile della vecchiaia, stile dell'essenziale e stile dell'astratto per "contrappeso ai mali ipertrofici del mondo" (p 178).
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