Conversazione con Lidia Cirillo sui teatri occupati
R Lidia, mi rivolgo a te non solo perché hai
scritto questo libro sui teatri occupati (Lotta
di classe sul palcoscenico, Alegre, Roma 2014), ma anche perché hai conosciuto
e vissuto molte storie appartenenti al popolo della sinistra… In questo libro
infatti parti da lontano, fai una doverosa premessa storica nel capitolo
intitolato "C'era una volta il Novecento" con una digressione sul
movimento operaio: "Si è chiamato movimento operaio l'insieme sinergico
che in Europa e nel mondo aveva costretto il capitalismo a cambiare per non
morire e quell'insieme aveva solo in parte a che fare con una classe. Certo la
classe operaia, soprattutto quella dei grandi complessi industriali, era stata
il nucleo intorno al quale si era aggregato tutto il resto. Ma il prodotto
finale era stata una costruzione storica, socio-politica e culturale molto più
ampia e complessa, dai contorni incerti, fortemente differenziata e
conflittuale al proprio interno ma appunto sinergica. Essa era composta da una
classe di notevole forza strutturale e capace di farsi centro del conflitto
sociale; da strutture burocratiche e clientelari, che concedevano agi e poteri
ai settori della piccola borghesia più ambiziosi e dinamici; da entità statali
con il loro potere economico e militare, da movimenti di liberazione di Paesi
colonizzati, interessati a mettersi sotto l'ala protettrice dell'URSS e che
talvolta si avventuravano nella creazione di socialismi nazionali più o meno
credibili; da intellettuali creativi attratti dai miti progressivi costruiti
sulle vicende rivoluzionarie del secolo; da socialdemocrazie che mantenevano
aperti gli spazi in cui i rivoluzionari potevano continuare ad agire e da
rivoluzionari che punzecchiavano ai fianchi le socialdemocrazie e gli apparati
politici, costringendoli a scatti per recuperare i rapporti con la propria base
sociale; da mobilitazioni occasionali e da spessi sedimenti organizzativi, da
basi elettorali, da compagni di strada e da alleati… Ora gran parte delle
componenti di questo insieme o non esiste più o ha mantenuto nomi a cui non
corrispondono le stesse realtà del passato oppure ha subìto dinamiche di
disaggregazione, che hanno isolato ciascuno dei pezzi residui dell'insieme
demolito negli ultimi trenta ingloriosi anni." (p 20-21).
Parti dunque
dalla presa d'atto di una profonda disgregazione del tessuto sociale che in
passato aveva consentito l'ottenimento d'importanti risultati, conquiste sempre
più soggette a erosione in tutti i campi, dal lavoro alla qualità della vita,
dai diritti ai beni collettivi. Tuttavia osservi che "un'inedita capacità
di autorganizzazione è l'altra faccia della frammentazione e delle sconnessioni
del corpo sociale. Si tratta di una capacità non universale e che riguarda
alcuni settori e non altri, ma innegabile e conseguenza logica
dell'impoverimento dell'ex-piccola borghesia intellettualizzata, delle maggiori
quantità di conoscenze di cui si serve il profitto e dell'ampliarsi delle
possibilità di comunicazione." (p 23). Con la crisi è il caso di dire che
siano iniziati più decisi momenti di risveglio?
L Gli
effetti della disgregazione del movimento operaio si comprendono, se diventa
chiaro il significato dell’espressione, che non può essere intesa attraverso
l’analogia con altre simili. Per esempio “movimento degli studenti” significa
movimento di giovani che frequentano le scuole superiori o università;
“movimento delle donne” significa movimento di persone di sesso femminile. Il
movimento operaio del Novecento è stato invece altro e tu hai citato il passo
in cui ho cercato di spiegare la natura di quella entità complessa e composita.
Di quella entità non si può dare un giudizio univoco perché ha indicato il
contenitore di eventi straordinari di liberazione (la rivoluzione russa, per
esempio) e di pure e semplici aberrazioni come la partecipazione delle
socialdemocrazie alle guerre imperialiste o lo stalinismo nelle sue molteplici
versioni. Certo è che questo insieme era riuscito per un certo periodo a fare
da argine alle contraddizioni e alle dinamiche distruttive del capitalismo. In
questa realtà avevo scelto una posizione specifica: quella di un marxismo
legato alla rivoluzione d’Ottobre e fortemente critico nei confronti della sua
degenerazione burocratica. E’ una posizione che ancora oggi rivendico, ma che
ha perso senso politico con il venir meno dell’insieme di cui era parte. Credo
che oggi bisogna prima di tutto sforzarsi di comprendere il presente a partire
a partire dalle modalità in cui si manifestano le molteplici e frammentarie
resistenze al dominio dei possessori di capitali. In fondo anche Marx comincia
di lì, dalle lotte appunto. Quando decide di sposarne la causa, la classe
operaia industriale sostiene ormai da decenni una lotta durissima ed è a
partire da quella lotta che egli cerca di comprendere la logica dei conflitti
di classe del suo tempo. Io però non parlerei di risveglio. Il conflitto di
classe in Europa non ha mai smesso di esistere, solo che la mutazione o
dissoluzione delle istituzioni delle classi subalterne l’ha reso scarsamente
visibile. Se si facesse un censimento, ci si renderebbe conto che migliaia di
resistenze, sconnesse e quindi incapaci di fare massa, hanno attraversato
l’Italia e la parte dell’Europa con una storia più simile alla nostra.
R Una delle occupazioni più significative,
quella che ha ottenuto maggiore visibilità, l'occupazione del teatro Valle di
Roma, avviene all'indomani della vittoria del referendum sull'acqua pubblica,
dunque contro le privatizzazioni, e fa leva, per giustificare se stessa e per
imporsi, sul tema dei beni comuni. Una delle parole chiave, capace di
coinvolgere molte persone, diventa BENE COMUNE. La novità degli ultimi anni è
che anche la cultura rientra tra i beni comuni, proprio come l'acqua…
Ci sono state le
privatizzazioni e, nello specifico, i tagli alla scuola, alla cultura, al
patrimonio artistico durati molti anni (per tacere dei crolli di edifici
importanti per la società civile, come le scuole, o del degrado di significativi
monumenti che il mondo intero ci invidia, come Pompei). Tu interpreti la famosa
frase di Tremonti anche come un attacco ben determinato al pensiero critico:
"Con la cultura non si mangia
può anche significare che lui e quelli come lui non mangiano, non godono degli
agi e dei poteri a cui aspirano, se la capacità di critica si rafforza e si
diffonde." (p 27) E i giovani intervistati rincarano: "Si è affermata
e radicata in questo periodo un'attitudine diffusa di disprezzo verso tutto ciò
che è intellettuale, tutto ciò che è creazione e conoscenza. Viviamo un tempo
lungo di egemonia controculturale, di diffidenza verso le attività di studio,
di produzione di pensiero critico, di ricerca artistica, di innovazione
linguistica, come se fossero improduttive perché non monetizzabili, non
traducibili in termini di mercato."
(p 92) Molti hanno percepito la
sensazione che sia stato arrecato un grave danno a un patrimonio
artistico-culturale prezioso e l'indignazione è cresciuta, creando un ampio
consenso intorno ai giovani che decidevano di occupare uno spazio di valore
artistico per salvarlo dalla
dismissione e dal degrado. La cultura e l'arte, in un territorio ricco come
quello italiano, sono entrate direttamente nel campo dei beni da salvaguardare
anche agli occhi dei cittadini e dei non addetti ai lavori. Personalmente ho
anche notato una forte componente femminile fra i partecipanti. Almeno per
quanto riguarda le giovani generazioni, ciò può dipendere dalla svalorizzazione
degli studi umanistici, cui le ragazze si dedicano in maggior numero rispetto
ai coetanei maschi, o forse perché continuano a venire escluse dai ruoli di
maggior rilievo in tutti i campi… Insomma per un'estromissione sociale più
marcata e un senso di frustrazione diffuso… Ci sono altre risposte secondo te?
L Il
capitale si è sempre mosso su un doppio binario. Quando prevalgono i moventi
economici può valorizzare la cultura perché sa che può esserne a sua volta
valorizzato. Naturalmente il termine cultura dice poco, perché i suoi rami e le
sue funzioni sono molteplici e distanti. Ma qui comunque non è il caso di fare
distinzioni e lo userò in senso generale e generico. Con la cultura si mangia,
eccome! Non è un caso che a Tremonti l’abbia ricordato il Sole 24 Ore con
argomenti dal suo punto di vista fondati. Ma i possessori di capitali non hanno
solo esigenze economiche immediate, hanno anche esigenze di controllo politico
e di dominio. E possono quindi mettersi nelle mani di politici a cui
l’esperienza ha fatto maturare una forte diffidenza nei confronti degli
intellettuali, soprattutto di quelli provenienti da studi umanistici o di
scienze umane, da cui talvolta emergono i rompiscatole che vogliono cambiare il
mondo e agiscono sotto la spinta di bisogni qualitativi. Si tratta di una
diffidenza che già Marx aveva notata e che non è quindi recente. Tremonti per
altro ha semplicemente unito la sua voce a quella dei ministri democristiani
ostili al “culturame” e al cinema italiano del secondo dopoguerra. Bisogna però
evitare una distinzione troppo netta tra moventi economici e di controllo
politico. La cultura può essere certo un mezzo di valorizzazione del capitale
ma non sempre e comunque. I suoi gruppi più capaci di agire sul versante della
politica ambiscono da sempre a un controllo più diretto sulla formazione e
sulle scelte di investimento per evitare spese non funzionali al profitto e
disporre della forza lavoro qualificata necessaria. Le proposte? A dire la
verità sono scettica nei confronti di proposte per l’istruzione e di
investimenti nella cultura che prescindano dal problema di un cambiamento
complessivo. La formazione è troppo legata al modo di produzione dominante, al
cosiddetto modello di sviluppo eccetera, perché un progetto slegato da quel
modo possa realizzarsi. E’ possibile naturalmente proporre una serie di
rivendicazioni con la speranza di costruire senso e di strappare qualche
risultato concreto. Per esempio investimenti massicci nel settore
dell’istruzione, una formazione uguale per tutti fino al completamento della
scuola media superiore, la gratuità, il presalario, la riduzione drastica del
numero di alunni per aula…. Insomma rivendicazioni simili a quelle portate
avanti per anni dalla parte più attiva degli insegnanti. Con qualche risultato
finché l’insieme del lavoro subalterno ha mantenuto le forze per battersi e con
una complessiva regressione, quando questa forza è venuta meno e il capitalismo
si è riorganizzato a livello globale.
R L'attenzione nel libro si focalizza sui
soggetti, per meglio dire sulla composizione sociale di questo movimento. Chi
sono i protagonisti? "Operatori dei servizi e della logistica, addetti
stampa e alle pubbliche relazioni, editor correttori di bozze, attori,
danzatori, coreografi, registi, redattori, traduttori, scenografi, sceneggiatori,
montatori, tecnici, web designer, programmatori, ma anche consulenti
finanziari, promoter o manager di gruppi musicali, addetti alla produzione
cinematografica, televisiva, autori di testi radiotelevisivi, conduttori,
musicisti, turnisti, pubblicitari, disegnatori, fumettisti grafici… ma anche
planner della movimentazione container, controllori, ingegneri dei trasporti,
camerieri, hostess, animatori e ancora ricercatori precari, lavoratori autonomi
fantasma con partite Iva. Un Quinto stato senza rappresentazioni univoche e
profondamente eterogeneo e dalla matrice rizomatica. Cos'hanno in comune queste
figure lavorative? Hanno in comune la coincidenza tra vita lavorativa e vita
sociale, l'assenza di garanzie contrattuali, vivono la precarietà oltre ogni
limite di tollerabilità in qualsiasi settore operino, indipendentemente se sono
attivi nel settore dei servizi o dell'industria culturale." (p 60) In un
altro punto si legge: "Quello che accomunava era piuttosto la frustrazione
legata al contrasto tra le proprie aspirazioni (…) e la realtà." (p 47)
Nella vicenda dei teatri occupati vediamo coinvolti intellettuali ma non solo:
operatori a vari livelli del mondo dello spettacolo e della comunicazione,
anche tecnici e lavoratori manuali, abituati a programmare e a fare cose
pratiche. A mio modo di vedere, proprio la composizione variegata ha impresso
dinamismo al movimento. Come tu sottolinei fin dall'inizio riferendoti
all'ampio movimento operaio del secolo scorso, affinché qualcosa si muova
occorre un'aggregazione complessa di partecipanti, di competenze, di apporti…
L Sarebbe meglio però parlare di “teatri e
luoghi di cultura” sia perché i teatri occupati sviluppano anche altre
attività, sia perché alcune occupazioni hanno anche un’attività teatrale ma non
sono teatri. Dunque che cosa ha impresso un particolare dinamismo alla vicenda
di cui parla Lotta di classe sul
palcoscenico? Credo che sia stata prima di tutto l’urgenza dei bisogni
insoddisfatti. I tagli alla spesa hanno reso ancora più difficile e precaria l’esistenza
degli “artisti intermittenti” come vengono chiamati in Francia, paese in cui
c’è un movimento che ha fatto irruzione sulla scena politica più volte nel
corso di quasi un secolo. Non tutti sono precari naturalmente, né ogni
precarietà è uguale alle altre. Esiste l’intermittenza necessaria, per libera
scelta perché si può scegliere di non accettare un lavoro che si ritiene
squalificante o con cui non c’è sintonia. Esiste l’intermittenza dell’attore o
del regista arrivato, che si concede una pausa di riflessione in attesa che
l’ispirazione ritorni… Per moltissimi però l’intermittenza si confonde con la
precarietà, è vita precaria o condanna al ghetto del bi-professionalismo. E’
stata importante anche la forma di lotta dell’occupazione. Se occupi non puoi
rimanere fermo, devi prima di tutto farti accettare dal quartiere in cui c’è il
luogo occupato, parlare con la gente, spiegare… devi poi rendere abitabili
ambienti spesso fatiscenti o che comunque non sono fatti per essere abitati… devi
trattare con le istituzioni per evitare lo sgombero forzato… insomma devi
agire, devi muoverti. Nel caso dei luoghi intervistati, sono rimasta
particolarmente colpita dalla fantasia e dalla capacità di iniziativa delle
occupazioni.
R Nel quadro desolante della perdita di diritti
che fa da sfondo alla tua inchiesta sulle occupazioni c'è anche un accenno alla
crisi dei partiti, cui fanno riferimento alcuni degli intervistati per es. a p
101: "Abbiamo avvertito tutti la forte crisi delle forme tradizionali in
modo particolare dei partiti a cui abbiamo contrapposto la partecipazione
diretta, pur senza nessuna preclusione (…) le nostre esperienze nascono da
un'altra idea della politica, dal rifiuto della rappresentanza, dall'impegno
diretto e in prima persona." Tu che hai conosciuto da vicino la forma
partito e diversi movimenti (No global, femminismo, Indignati) pensi che la
democrazia diretta, senza mediazione di rappresentanza, sia davvero
realizzabile? Anche su ampia scala e in una lunga prospettiva?
L Democrazia
diretta non significa cancellazione delle mediazioni di rappresentanza, è
partecipazione continua e attiva di tutte e di tutti. Perfino Bakunin accettò
l’idea di forme di delega al tempo della Comune e i Soviet del 1905 e del 1917
si reggevano comunque su una struttura di delegati. Il problema vero è che
queste strutture di burocratizzano o si dissolvono, quando il movimento che le
sostiene rifluisce e le persone tornano a una vita quotidiana fatta di lavoro
per il salario, impegni familiari e imprevisti di esistenze difficili. Ernest
Mandel, economista e militante politico, negli anni Settanta parlò di
“esercizio al potere”, come uno dei compiti delle società post-rivoluzionarie.
Ma allenare le masse a esercitare il potere con una presenza continua e attiva
nelle decisioni politiche richiede alcune condizioni non facili da realizzare:
un orario di lavoro ridotto, una formazione culturale adeguata e anche una
guida illuminata che eviti la riduzione della partecipazione diretta a lotta
tra corporazioni. Il problema più grave in prospettiva sembra proprio questo.
La “guida illuminata” a cui all’inizio verrebbe necessariamente delegata una
porzione eccedente di potere, dovrebbe poi lavorare per consegnarlo ad altri
con una progressiva riduzione del proprio ruolo. In realtà è giusto aver posto
il problema dell’esercizio al potere, ma questo almeno in parte va risolto
prima di rotture e cambiamenti epocali e ne rappresenta oggi la condizione sine
qua non, in un contesto di crisi profonda del rapporto tra masse e
istituzioni politiche. Questo non vuol dire che la soluzione sia a portata di
mano, anzi… L’autorganizzazione è oggi solo un’ipotesi di lavoro legata alle
difficoltà del presente; se poi essa produrrà nuove forme e nuove istituzioni
della politica è una questione del tutto aperta. Certo la democrazia diretta è
un valore da riproporre in ogni momento, facendo il necessario perché accada il
possibile.
R L'obiettivo di fondo è individuato in questo:
ampliare la sfera del pubblico, rivitalizzare il pubblico, allargare il
concetto di legalità il più possibile fino a includere nuove istanze di
giustizia, come auspicato pure da diversi articoli della nostra Costituzione.
"La logica comune è sempre quella di stressare l'apparato giuridico
rispetto alla realtà: il Valle ha provato a farlo dal versante del diritto
privato, ribaltando l'istituto della fondazione. Noi (Macao) e i napoletani (ex
Asilo Filangieri) abbiamo cercato di farlo dal lato del diritto pubblico. Qui
c'è una differenza rispetto alle occupazioni degli anni Ottanta e Novanta, che
rappresentavano un fatto simbolico fuori dalla legalità e perciò antagoniste
all'ordine costituito. Le nostre occupazioni sono un dato di realtà che non si
può affrontare in altro modo che illegalmente. Questo discorso era cominciato già
con l'occupazione di Torre Galfa, un'operazione palesemente illegale ma che si
era conquistata una fortissima legittimità ricevendo consensi di massa, perfino
da parte delle autorità comunali. Mostravamo in quel caso la contraddizione tra
ciò che era legale ma non legittimo e ciò che era legittimo ma non legale, cioè
restituire il grattacielo alla città." (p 43-44) L'orizzonte sembra
riformistico, quindi largamente accettabile e condivisibile.
Soprattutto alla
luce degli scandali relativi alle grandi opere (Expo e Mose) acquista risalto
il discorso degli occupanti: "Chi è il soggetto deputato a governare i
beni comuni? (…) Visto che il pubblico è sempre più debole, qual è il soggetto
capace di porre limiti alle ingerenze sia pubbliche che private? Noi sosteniamo
che sono coloro che usano questi beni a essere direttamente legittimati a
gestirli, attraverso decisioni prese in maniera democratica e orizzontale.
Proponiamo un modello di uso civico,
coerente con una lettura costituzionalmente avanzata dell'art 43 della
Costituzione, capace di trasformare il pubblico riarticolandone la sovranità e
trasferendola a nuove istituzioni popolari radicalmente democratiche, erodendo
così il verso autoritario della discrezionalità politica ed
amministrativa." (p 73) "In sostanza si impone all'istituzione di
cedere sovranità e parte di quel potere con il quale la partitocrazia ha
costruito clientele e potentati, anestetizzando di fatto il senso più profondo
della democrazia. Si chiede all'istituzione di essere realmente al servizio
della città; in questo senso la lotta è orientata a una rivitalizzazione del
pubblico." (p 77) Anche tu pensi che la parola d'ordine BENE COMUNE possa
raggiungere molti soggetti?
L Personalmente
non condivido una serie di giudizi e proposte, nate intorno alla formula “bene
comune”. Tuttavia non la rifiuto perché leggo in essa il ritorno a un desiderio
di comunità e comunismo, venuto meno con il crollo delle società che si erano
costituite in loro nome. Società che erano anche prima del crollo esempi
davvero infelici. Ma l’aspirazione a forme di comunione delle ricchezze è una
costante della vicenda umana, al di là di questa o di quella esperienza
storica. Ed è quindi comprensibile che la polarizzazione tra ricchi che
diventano sempre più ricchi e poveri che diventano sempre più poveri la
risvegli. Conta anche l’ondata di privatizzazioni, destinata a continuare a
rafforzarsi, ma nell’opinione pubblica oggi assai meno popolari che in passato,
dopo la verifica dei risultati. In questo senso l’esigenza di preservare dalle
leggi di mercato beni che si considerano non privatizzabili dal punto di vista
dell’etica e delle conseguenze pratiche, può riguardare tutte e tutti o quasi.
R L'altra parola chiave, una rivendicazione
importante avanzata dagli occupanti è quella del REDDITO UNIVERSALE GARANTITO.
Tu pensi che si possa realisticamente aspirarvi in questa congiuntura economica
sfavorevole?
L Si
chiama in Europa salario sociale, indennità di disoccupazione, reddito di base,
reddito di cittadinanza o di esistenza ecc. cambia secondo le scuole di
pensiero e la sua versione a mio avviso più giusta è quella che lo rivendica
incondizionato, senza l’obbligo a frequentare corsi di formazione e ad
accettare posti di lavoro non graditi. E questo per l’ovvia ragione che il
salario sociale non deve servire da pretesto per creare segmenti di mercato del
lavoro sottopagati e dequalificati. Non si tratta di una pretesa
rivoluzionaria, in alcuni paesi europei anche sotto governi conservatori sono
esistiti sistemi di protezione dalla perdita del posto di lavoro molto
avanzati. Oggi assistiamo al paradosso di due fenomeni paralleli: l’incremento
della disoccupazione e la riduzione delle reti di una protezione sempre più
condizionata, a cui è più difficile avere accesso e di entità sempre minore. E’
prima di tutto una questione di rapporti di forza. Quanto al realismo di questa
rivendicazione, non ho mai considerato il realismo un argomento, come ho già
detto a proposito della democrazia diretta. Nulla è possibile finché non
accade. E nulla accade finché non c’è un numero adeguato di persone che lo
desidera e agisce per ottenerlo. Bisogna quindi che dell’obiettivo si comprenda
la fondatezza e l’importanza, cosa possibile solo se viene agitato e spiegato
ogni volta che sia necessario. L’importante è che non diventi una panacea per
tutti i mali, non venga accompagnato dalla filosofia del rifiuto del lavoro e
si intrecci con la lotta contro i licenziamenti, le esternalizzazioni e
l’aumento degli orari e dell’intensità del lavoro.
R
Tu che vivi a Milano ma conosci bene anche
Napoli, per esserci nata e per la continua frequentazione, hai l'impressione
che le città abbiano risposto bene a queste singolari occupazioni? A ma pare
che a Milano col tempo ci sia stato un progressivo abbandono dell'interesse per
Macao, dopo l'entusiasmo iniziale dovuto alla sensazionale presa di un palazzo di trentuno piani, Torre Galfa. La città non ha
forse mostrato un certo snobismo nei confronti dello spostamento degli
occupanti in un luogo comunque affascinante (l'ex borsa del macello in stile
liberty di viale Molise) ma meno centrale e prestigioso?
L I
movimenti con obiettivi specifici e parziali necessariamente rifluiscono perché
hanno ottenuto ciò chiedevano o, al contrario, perché disperano di poterlo
ottenere. Ma anche ritornano perché i bisogni non soddisfatti e le condizioni
di disagio comunque restano. Anche le esperienze che si dissolvono lasciano
comunque un patrimonio di idee e di pratiche, destinate a tornare a galla alla
prima occasione. I teatri e i luoghi di cultura occupati mi sembrano però
ancora abbastanza vivi e attivi, anche se su di loro incombe sempre la minaccia
dello sgombero, come in questi giorni sul teatro Valle di Roma. Torre Galfa non
può essere una pietra di paragone. L’occupazione di un grattacielo di trenta
piani è stato un episodio di felice sfrontatezza, che non ha avuto e forse non
potrebbe avere uguali. E’ vero che dopo dieci giorni è arrivato lo sgombero, ma
niente potrà cancellare il tentativo fatto e soprattutto la verifica delle
migliaia di sconosciute e sconosciuti accorsi a dare una mano perché
consideravano la torre un “bene comune”.
R Rivolte versus rivoluzione… Siamo secondo te
entrati in una fase storica contrassegnata da tentativi effimeri di cambiamento,
da fuochi di paglia? E anche le comunità nate e animatesi intorno ai teatri
occupati potrebbero cristallizzarsi in brevi esperimenti, isole felici o sorta
di falansteri uscite
dall'immaginazione di qualche irriducibile socialista utopista?
L Non
metterei in opposizione rivolte e rivoluzioni. Le rivolte sono episodi di breve
durata, senza progetto e destinate a rifluire. Le rivoluzioni sono ovviamente
altra cosa. Il problema è che le rivolte nella storia sono state tante; le
rivoluzioni si contano invece sulle dita di meno di due mani, se si comincia a
contare da quella inglese del XVII secolo. Le rivolte possono essere forme di
esercitazione alla rivoluzione o, al contrario, i loro esiti infausti possono
esercitare forme di dissuasione. Mi sembra che anche le ultime vicende
dimostrino che la vera discriminate è l’esistenza di una direzione e di un
progetto, il che non significa necessariamente di un partito, almeno nelle
forme in cui lo abbiamo conosciuto nel XX secolo. Le occupazioni sono però
ancora un’altra cosa. Sono un movimento soprattutto (ma non solo) di artisti
che ha reagito ai tagli delle spese per la cultura, un movimento intelligente e
creativo. Come ho scritto nell’introduzione, sugli esiti non si può
scommettere: sulle occupazioni incombono la minaccia degli sgomberi, l’esigenza
di ottenere qualche risultato concreto per evitare la dispersione e il rischio
di cristallizzazione ideologica. Mi pare però che le occupazioni abbiano
resistito egregiamente, anche se il Valle ora è a rischio e ha bisogno della
nostra solidarietà.
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