mercoledì 27 agosto 2014

Lotta di classe sul palcoscenico

Conversazione con Lidia Cirillo sui teatri occupati 

R   Lidia, mi rivolgo a te non solo perché hai scritto questo libro sui teatri occupati (Lotta di classe sul palcoscenico, Alegre, Roma 2014), ma anche perché hai conosciuto e vissuto molte storie appartenenti al popolo della sinistra… In questo libro infatti parti da lontano, fai una doverosa premessa storica nel capitolo intitolato "C'era una volta il Novecento" con una digressione sul movimento operaio: "Si è chiamato movimento operaio l'insieme sinergico che in Europa e nel mondo aveva costretto il capitalismo a cambiare per non morire e quell'insieme aveva solo in parte a che fare con una classe. Certo la classe operaia, soprattutto quella dei grandi complessi industriali, era stata il nucleo intorno al quale si era aggregato tutto il resto. Ma il prodotto finale era stata una costruzione storica, socio-politica e culturale molto più ampia e complessa, dai contorni incerti, fortemente differenziata e conflittuale al proprio interno ma appunto sinergica. Essa era composta da una classe di notevole forza strutturale e capace di farsi centro del conflitto sociale; da strutture burocratiche e clientelari, che concedevano agi e poteri ai settori della piccola borghesia più ambiziosi e dinamici; da entità statali con il loro potere economico e militare, da movimenti di liberazione di Paesi colonizzati, interessati a mettersi sotto l'ala protettrice dell'URSS e che talvolta si avventuravano nella creazione di socialismi nazionali più o meno credibili; da intellettuali creativi attratti dai miti progressivi costruiti sulle vicende rivoluzionarie del secolo; da socialdemocrazie che mantenevano aperti gli spazi in cui i rivoluzionari potevano continuare ad agire e da rivoluzionari che punzecchiavano ai fianchi le socialdemocrazie e gli apparati politici, costringendoli a scatti per recuperare i rapporti con la propria base sociale; da mobilitazioni occasionali e da spessi sedimenti organizzativi, da basi elettorali, da compagni di strada e da alleati… Ora gran parte delle componenti di questo insieme o non esiste più o ha mantenuto nomi a cui non corrispondono le stesse realtà del passato oppure ha subìto dinamiche di disaggregazione, che hanno isolato ciascuno dei pezzi residui dell'insieme demolito negli ultimi trenta ingloriosi anni." (p 20-21).
Parti dunque dalla presa d'atto di una profonda disgregazione del tessuto sociale che in passato aveva consentito l'ottenimento d'importanti risultati, conquiste sempre più soggette a erosione in tutti i campi, dal lavoro alla qualità della vita, dai diritti ai beni collettivi. Tuttavia osservi che "un'inedita capacità di autorganizzazione è l'altra faccia della frammentazione e delle sconnessioni del corpo sociale. Si tratta di una capacità non universale e che riguarda alcuni settori e non altri, ma innegabile e conseguenza logica dell'impoverimento dell'ex-piccola borghesia intellettualizzata, delle maggiori quantità di conoscenze di cui si serve il profitto e dell'ampliarsi delle possibilità di comunicazione." (p 23). Con la crisi è il caso di dire che siano iniziati più decisi momenti di risveglio?


Gli effetti della disgregazione del movimento operaio si comprendono, se diventa chiaro il significato dell’espressione, che non può essere intesa attraverso l’analogia con altre simili. Per esempio “movimento degli studenti” significa movimento di giovani che frequentano le scuole superiori o università; “movimento delle donne” significa movimento di persone di sesso femminile. Il movimento operaio del Novecento è stato invece altro e tu hai citato il passo in cui ho cercato di spiegare la natura di quella entità complessa e composita. Di quella entità non si può dare un giudizio univoco perché ha indicato il contenitore di eventi straordinari di liberazione (la rivoluzione russa, per esempio) e di pure e semplici aberrazioni come la partecipazione delle socialdemocrazie alle guerre imperialiste o lo stalinismo nelle sue molteplici versioni. Certo è che questo insieme era riuscito per un certo periodo a fare da argine alle contraddizioni e alle dinamiche distruttive del capitalismo. In questa realtà avevo scelto una posizione specifica: quella di un marxismo legato alla rivoluzione d’Ottobre e fortemente critico nei confronti della sua degenerazione burocratica. E’ una posizione che ancora oggi rivendico, ma che ha perso senso politico con il venir meno dell’insieme di cui era parte. Credo che oggi bisogna prima di tutto sforzarsi di comprendere il presente a partire a partire dalle modalità in cui si manifestano le molteplici e frammentarie resistenze al dominio dei possessori di capitali. In fondo anche Marx comincia di lì, dalle lotte appunto. Quando decide di sposarne la causa, la classe operaia industriale sostiene ormai da decenni una lotta durissima ed è a partire da quella lotta che egli cerca di comprendere la logica dei conflitti di classe del suo tempo. Io però non parlerei di risveglio. Il conflitto di classe in Europa non ha mai smesso di esistere, solo che la mutazione o dissoluzione delle istituzioni delle classi subalterne l’ha reso scarsamente visibile. Se si facesse un censimento, ci si renderebbe conto che migliaia di resistenze, sconnesse e quindi incapaci di fare massa, hanno attraversato l’Italia e la parte dell’Europa con una storia più simile alla nostra.

R  Una delle occupazioni più significative, quella che ha ottenuto maggiore visibilità, l'occupazione del teatro Valle di Roma, avviene all'indomani della vittoria del referendum sull'acqua pubblica, dunque contro le privatizzazioni, e fa leva, per giustificare se stessa e per imporsi, sul tema dei beni comuni. Una delle parole chiave, capace di coinvolgere molte persone, diventa BENE COMUNE. La novità degli ultimi anni è che anche la cultura rientra tra i beni comuni, proprio come l'acqua…
Ci sono state le privatizzazioni e, nello specifico, i tagli alla scuola, alla cultura, al patrimonio artistico durati molti anni (per tacere dei crolli di edifici importanti per la società civile, come le scuole, o del degrado di significativi monumenti che il mondo intero ci invidia, come Pompei). Tu interpreti la famosa frase di Tremonti anche come un attacco ben determinato al pensiero critico: "Con la cultura non si mangia può anche significare che lui e quelli come lui non mangiano, non godono degli agi e dei poteri a cui aspirano, se la capacità di critica si rafforza e si diffonde." (p 27) E i giovani intervistati rincarano: "Si è affermata e radicata in questo periodo un'attitudine diffusa di disprezzo verso tutto ciò che è intellettuale, tutto ciò che è creazione e conoscenza. Viviamo un tempo lungo di egemonia controculturale, di diffidenza verso le attività di studio, di produzione di pensiero critico, di ricerca artistica, di innovazione linguistica, come se fossero improduttive perché non monetizzabili, non traducibili in termini di mercato."  (p 92)  Molti hanno percepito la sensazione che sia stato arrecato un grave danno a un patrimonio artistico-culturale prezioso e l'indignazione è cresciuta, creando un ampio consenso intorno ai giovani che decidevano di occupare uno spazio di valore artistico per salvarlo dalla dismissione e dal degrado. La cultura e l'arte, in un territorio ricco come quello italiano, sono entrate direttamente nel campo dei beni da salvaguardare anche agli occhi dei cittadini e dei non addetti ai lavori. Personalmente ho anche notato una forte componente femminile fra i partecipanti. Almeno per quanto riguarda le giovani generazioni, ciò può dipendere dalla svalorizzazione degli studi umanistici, cui le ragazze si dedicano in maggior numero rispetto ai coetanei maschi, o forse perché continuano a venire escluse dai ruoli di maggior rilievo in tutti i campi… Insomma per un'estromissione sociale più marcata e un senso di frustrazione diffuso… Ci sono altre risposte secondo te?

Il capitale si è sempre mosso su un doppio binario. Quando prevalgono i moventi economici può valorizzare la cultura perché sa che può esserne a sua volta valorizzato. Naturalmente il termine cultura dice poco, perché i suoi rami e le sue funzioni sono molteplici e distanti. Ma qui comunque non è il caso di fare distinzioni e lo userò in senso generale e generico. Con la cultura si mangia, eccome! Non è un caso che a Tremonti l’abbia ricordato il Sole 24 Ore con argomenti dal suo punto di vista fondati. Ma i possessori di capitali non hanno solo esigenze economiche immediate, hanno anche esigenze di controllo politico e di dominio. E possono quindi mettersi nelle mani di politici a cui l’esperienza ha fatto maturare una forte diffidenza nei confronti degli intellettuali, soprattutto di quelli provenienti da studi umanistici o di scienze umane, da cui talvolta emergono i rompiscatole che vogliono cambiare il mondo e agiscono sotto la spinta di bisogni qualitativi. Si tratta di una diffidenza che già Marx aveva notata e che non è quindi recente. Tremonti per altro ha semplicemente unito la sua voce a quella dei ministri democristiani ostili al “culturame” e al cinema italiano del secondo dopoguerra. Bisogna però evitare una distinzione troppo netta tra moventi economici e di controllo politico. La cultura può essere certo un mezzo di valorizzazione del capitale ma non sempre e comunque. I suoi gruppi più capaci di agire sul versante della politica ambiscono da sempre a un controllo più diretto sulla formazione e sulle scelte di investimento per evitare spese non funzionali al profitto e disporre della forza lavoro qualificata necessaria. Le proposte? A dire la verità sono scettica nei confronti di proposte per l’istruzione e di investimenti nella cultura che prescindano dal problema di un cambiamento complessivo. La formazione è troppo legata al modo di produzione dominante, al cosiddetto modello di sviluppo eccetera, perché un progetto slegato da quel modo possa realizzarsi. E’ possibile naturalmente proporre una serie di rivendicazioni con la speranza di costruire senso e di strappare qualche risultato concreto. Per esempio investimenti massicci nel settore dell’istruzione, una formazione uguale per tutti fino al completamento della scuola media superiore, la gratuità, il presalario, la riduzione drastica del numero di alunni per aula…. Insomma rivendicazioni simili a quelle portate avanti per anni dalla parte più attiva degli insegnanti. Con qualche risultato finché l’insieme del lavoro subalterno ha mantenuto le forze per battersi e con una complessiva regressione, quando questa forza è venuta meno e il capitalismo si è riorganizzato a livello globale.

R  L'attenzione nel libro si focalizza sui soggetti, per meglio dire sulla composizione sociale di questo movimento. Chi sono i protagonisti? "Operatori dei servizi e della logistica, addetti stampa e alle pubbliche relazioni, editor correttori di bozze, attori, danzatori, coreografi, registi, redattori, traduttori, scenografi, sceneggiatori, montatori, tecnici, web designer, programmatori, ma anche consulenti finanziari, promoter o manager di gruppi musicali, addetti alla produzione cinematografica, televisiva, autori di testi radiotelevisivi, conduttori, musicisti, turnisti, pubblicitari, disegnatori, fumettisti grafici… ma anche planner della movimentazione container, controllori, ingegneri dei trasporti, camerieri, hostess, animatori e ancora ricercatori precari, lavoratori autonomi fantasma con partite Iva. Un Quinto stato senza rappresentazioni univoche e profondamente eterogeneo e dalla matrice rizomatica. Cos'hanno in comune queste figure lavorative? Hanno in comune la coincidenza tra vita lavorativa e vita sociale, l'assenza di garanzie contrattuali, vivono la precarietà oltre ogni limite di tollerabilità in qualsiasi settore operino, indipendentemente se sono attivi nel settore dei servizi o dell'industria culturale." (p 60) In un altro punto si legge: "Quello che accomunava era piuttosto la frustrazione legata al contrasto tra le proprie aspirazioni (…) e la realtà." (p 47) Nella vicenda dei teatri occupati vediamo coinvolti intellettuali ma non solo: operatori a vari livelli del mondo dello spettacolo e della comunicazione, anche tecnici e lavoratori manuali, abituati a programmare e a fare cose pratiche. A mio modo di vedere, proprio la composizione variegata ha impresso dinamismo al movimento. Come tu sottolinei fin dall'inizio riferendoti all'ampio movimento operaio del secolo scorso, affinché qualcosa si muova occorre un'aggregazione complessa di partecipanti, di competenze, di apporti…

L  Sarebbe meglio però parlare di “teatri e luoghi di cultura” sia perché i teatri occupati sviluppano anche altre attività, sia perché alcune occupazioni hanno anche un’attività teatrale ma non sono teatri. Dunque che cosa ha impresso un particolare dinamismo alla vicenda di cui parla Lotta di classe sul palcoscenico? Credo che sia stata prima di tutto l’urgenza dei bisogni insoddisfatti. I tagli alla spesa hanno reso ancora più difficile e precaria l’esistenza degli “artisti intermittenti” come vengono chiamati in Francia, paese in cui c’è un movimento che ha fatto irruzione sulla scena politica più volte nel corso di quasi un secolo. Non tutti sono precari naturalmente, né ogni precarietà è uguale alle altre. Esiste l’intermittenza necessaria, per libera scelta perché si può scegliere di non accettare un lavoro che si ritiene squalificante o con cui non c’è sintonia. Esiste l’intermittenza dell’attore o del regista arrivato, che si concede una pausa di riflessione in attesa che l’ispirazione ritorni… Per moltissimi però l’intermittenza si confonde con la precarietà, è vita precaria o condanna al ghetto del bi-professionalismo. E’ stata importante anche la forma di lotta dell’occupazione. Se occupi non puoi rimanere fermo, devi prima di tutto farti accettare dal quartiere in cui c’è il luogo occupato, parlare con la gente, spiegare… devi poi rendere abitabili ambienti spesso fatiscenti o che comunque non sono fatti per essere abitati… devi trattare con le istituzioni per evitare lo sgombero forzato… insomma devi agire, devi muoverti. Nel caso dei luoghi intervistati, sono rimasta particolarmente colpita dalla fantasia e dalla capacità di iniziativa delle occupazioni.

R  Nel quadro desolante della perdita di diritti che fa da sfondo alla tua inchiesta sulle occupazioni c'è anche un accenno alla crisi dei partiti, cui fanno riferimento alcuni degli intervistati per es. a p 101: "Abbiamo avvertito tutti la forte crisi delle forme tradizionali in modo particolare dei partiti a cui abbiamo contrapposto la partecipazione diretta, pur senza nessuna preclusione (…) le nostre esperienze nascono da un'altra idea della politica, dal rifiuto della rappresentanza, dall'impegno diretto e in prima persona." Tu che hai conosciuto da vicino la forma partito e diversi movimenti (No global, femminismo, Indignati) pensi che la democrazia diretta, senza mediazione di rappresentanza, sia davvero realizzabile? Anche su ampia scala e in una lunga prospettiva?
Democrazia diretta non significa cancellazione delle mediazioni di rappresentanza, è partecipazione continua e attiva di tutte e di tutti. Perfino Bakunin accettò l’idea di forme di delega al tempo della Comune e i Soviet del 1905 e del 1917 si reggevano comunque su una struttura di delegati. Il problema vero è che queste strutture di burocratizzano o si dissolvono, quando il movimento che le sostiene rifluisce e le persone tornano a una vita quotidiana fatta di lavoro per il salario, impegni familiari e imprevisti di esistenze difficili. Ernest Mandel, economista e militante politico, negli anni Settanta parlò di “esercizio al potere”, come uno dei compiti delle società post-rivoluzionarie. Ma allenare le masse a esercitare il potere con una presenza continua e attiva nelle decisioni politiche richiede alcune condizioni non facili da realizzare: un orario di lavoro ridotto, una formazione culturale adeguata e anche una guida illuminata che eviti la riduzione della partecipazione diretta a lotta tra corporazioni. Il problema più grave in prospettiva sembra proprio questo. La “guida illuminata” a cui all’inizio verrebbe necessariamente delegata una porzione eccedente di potere, dovrebbe poi lavorare per consegnarlo ad altri con una progressiva riduzione del proprio ruolo. In realtà è giusto aver posto il problema dell’esercizio al potere, ma questo almeno in parte va risolto prima di rotture e cambiamenti epocali e ne rappresenta oggi la condizione sine qua non, in un contesto di crisi profonda del rapporto tra masse e istituzioni politiche. Questo non vuol dire che la soluzione sia a portata di mano, anzi… L’autorganizzazione è oggi solo un’ipotesi di lavoro legata alle difficoltà del presente; se poi essa produrrà nuove forme e nuove istituzioni della politica è una questione del tutto aperta. Certo la democrazia diretta è un valore da riproporre in ogni momento, facendo il necessario perché accada il possibile.

R  L'obiettivo di fondo è individuato in questo: ampliare la sfera del pubblico, rivitalizzare il pubblico, allargare il concetto di legalità il più possibile fino a includere nuove istanze di giustizia, come auspicato pure da diversi articoli della nostra Costituzione. "La logica comune è sempre quella di stressare l'apparato giuridico rispetto alla realtà: il Valle ha provato a farlo dal versante del diritto privato, ribaltando l'istituto della fondazione. Noi (Macao) e i napoletani (ex Asilo Filangieri) abbiamo cercato di farlo dal lato del diritto pubblico. Qui c'è una differenza rispetto alle occupazioni degli anni Ottanta e Novanta, che rappresentavano un fatto simbolico fuori dalla legalità e perciò antagoniste all'ordine costituito. Le nostre occupazioni sono un dato di realtà che non si può affrontare in altro modo che illegalmente. Questo discorso era cominciato già con l'occupazione di Torre Galfa, un'operazione palesemente illegale ma che si era conquistata una fortissima legittimità ricevendo consensi di massa, perfino da parte delle autorità comunali. Mostravamo in quel caso la contraddizione tra ciò che era legale ma non legittimo e ciò che era legittimo ma non legale, cioè restituire il grattacielo alla città." (p 43-44) L'orizzonte sembra riformistico, quindi largamente accettabile e condivisibile.
Soprattutto alla luce degli scandali relativi alle grandi opere (Expo e Mose) acquista risalto il discorso degli occupanti: "Chi è il soggetto deputato a governare i beni comuni? (…) Visto che il pubblico è sempre più debole, qual è il soggetto capace di porre limiti alle ingerenze sia pubbliche che private? Noi sosteniamo che sono coloro che usano questi beni a essere direttamente legittimati a gestirli, attraverso decisioni prese in maniera democratica e orizzontale. Proponiamo un modello di uso civico, coerente con una lettura costituzionalmente avanzata dell'art 43 della Costituzione, capace di trasformare il pubblico riarticolandone la sovranità e trasferendola a nuove istituzioni popolari radicalmente democratiche, erodendo così il verso autoritario della discrezionalità politica ed amministrativa." (p 73) "In sostanza si impone all'istituzione di cedere sovranità e parte di quel potere con il quale la partitocrazia ha costruito clientele e potentati, anestetizzando di fatto il senso più profondo della democrazia. Si chiede all'istituzione di essere realmente al servizio della città; in questo senso la lotta è orientata a una rivitalizzazione del pubblico." (p 77) Anche tu pensi che la parola d'ordine BENE COMUNE possa raggiungere molti soggetti?

Personalmente non condivido una serie di giudizi e proposte, nate intorno alla formula “bene comune”. Tuttavia non la rifiuto perché leggo in essa il ritorno a un desiderio di comunità e comunismo, venuto meno con il crollo delle società che si erano costituite in loro nome. Società che erano anche prima del crollo esempi davvero infelici. Ma l’aspirazione a forme di comunione delle ricchezze è una costante della vicenda umana, al di là di questa o di quella esperienza storica. Ed è quindi comprensibile che la polarizzazione tra ricchi che diventano sempre più ricchi e poveri che diventano sempre più poveri la risvegli. Conta anche l’ondata di privatizzazioni, destinata a continuare a rafforzarsi, ma nell’opinione pubblica oggi assai meno popolari che in passato, dopo la verifica dei risultati. In questo senso l’esigenza di preservare dalle leggi di mercato beni che si considerano non privatizzabili dal punto di vista dell’etica e delle conseguenze pratiche, può riguardare tutte e tutti o quasi.

R  L'altra parola chiave, una rivendicazione importante avanzata dagli occupanti è quella del REDDITO UNIVERSALE GARANTITO. Tu pensi che si possa realisticamente aspirarvi in questa congiuntura economica sfavorevole?

Si chiama in Europa salario sociale, indennità di disoccupazione, reddito di base, reddito di cittadinanza o di esistenza ecc. cambia secondo le scuole di pensiero e la sua versione a mio avviso più giusta è quella che lo rivendica incondizionato, senza l’obbligo a frequentare corsi di formazione e ad accettare posti di lavoro non graditi. E questo per l’ovvia ragione che il salario sociale non deve servire da pretesto per creare segmenti di mercato del lavoro sottopagati e dequalificati. Non si tratta di una pretesa rivoluzionaria, in alcuni paesi europei anche sotto governi conservatori sono esistiti sistemi di protezione dalla perdita del posto di lavoro molto avanzati. Oggi assistiamo al paradosso di due fenomeni paralleli: l’incremento della disoccupazione e la riduzione delle reti di una protezione sempre più condizionata, a cui è più difficile avere accesso e di entità sempre minore. E’ prima di tutto una questione di rapporti di forza. Quanto al realismo di questa rivendicazione, non ho mai considerato il realismo un argomento, come ho già detto a proposito della democrazia diretta. Nulla è possibile finché non accade. E nulla accade finché non c’è un numero adeguato di persone che lo desidera e agisce per ottenerlo. Bisogna quindi che dell’obiettivo si comprenda la fondatezza e l’importanza, cosa possibile solo se viene agitato e spiegato ogni volta che sia necessario. L’importante è che non diventi una panacea per tutti i mali, non venga accompagnato dalla filosofia del rifiuto del lavoro e si intrecci con la lotta contro i licenziamenti, le esternalizzazioni e l’aumento degli orari e dell’intensità del lavoro.

R  Tu che vivi a Milano ma conosci bene anche Napoli, per esserci nata e per la continua frequentazione, hai l'impressione che le città abbiano risposto bene a queste singolari occupazioni? A ma pare che a Milano col tempo ci sia stato un progressivo abbandono dell'interesse per Macao, dopo l'entusiasmo iniziale dovuto alla sensazionale presa di un palazzo di trentuno piani, Torre Galfa. La città non ha forse mostrato un certo snobismo nei confronti dello spostamento degli occupanti in un luogo comunque affascinante (l'ex borsa del macello in stile liberty di viale Molise) ma meno centrale e prestigioso?

I movimenti con obiettivi specifici e parziali necessariamente rifluiscono perché hanno ottenuto ciò chiedevano o, al contrario, perché disperano di poterlo ottenere. Ma anche ritornano perché i bisogni non soddisfatti e le condizioni di disagio comunque restano. Anche le esperienze che si dissolvono lasciano comunque un patrimonio di idee e di pratiche, destinate a tornare a galla alla prima occasione. I teatri e i luoghi di cultura occupati mi sembrano però ancora abbastanza vivi e attivi, anche se su di loro incombe sempre la minaccia dello sgombero, come in questi giorni sul teatro Valle di Roma. Torre Galfa non può essere una pietra di paragone. L’occupazione di un grattacielo di trenta piani è stato un episodio di felice sfrontatezza, che non ha avuto e forse non potrebbe avere uguali. E’ vero che dopo dieci giorni è arrivato lo sgombero, ma niente potrà cancellare il tentativo fatto e soprattutto la verifica delle migliaia di sconosciute e sconosciuti accorsi a dare una mano perché consideravano la torre un “bene comune”.

R  Rivolte versus rivoluzione… Siamo secondo te entrati in una fase storica contrassegnata da tentativi effimeri di cambiamento, da fuochi di paglia? E anche le comunità nate e animatesi intorno ai teatri occupati potrebbero cristallizzarsi in brevi esperimenti, isole felici o sorta di falansteri uscite dall'immaginazione di qualche irriducibile socialista utopista?

Non metterei in opposizione rivolte e rivoluzioni. Le rivolte sono episodi di breve durata, senza progetto e destinate a rifluire. Le rivoluzioni sono ovviamente altra cosa. Il problema è che le rivolte nella storia sono state tante; le rivoluzioni si contano invece sulle dita di meno di due mani, se si comincia a contare da quella inglese del XVII secolo. Le rivolte possono essere forme di esercitazione alla rivoluzione o, al contrario, i loro esiti infausti possono esercitare forme di dissuasione. Mi sembra che anche le ultime vicende dimostrino che la vera discriminate è l’esistenza di una direzione e di un progetto, il che non significa necessariamente di un partito, almeno nelle forme in cui lo abbiamo conosciuto nel XX secolo. Le occupazioni sono però ancora un’altra cosa. Sono un movimento soprattutto (ma non solo) di artisti che ha reagito ai tagli delle spese per la cultura, un movimento intelligente e creativo. Come ho scritto nell’introduzione, sugli esiti non si può scommettere: sulle occupazioni incombono la minaccia degli sgomberi, l’esigenza di ottenere qualche risultato concreto per evitare la dispersione e il rischio di cristallizzazione ideologica. Mi pare però che le occupazioni abbiano resistito egregiamente, anche se il Valle ora è a rischio e ha bisogno della nostra solidarietà.





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