martedì 24 dicembre 2013

La scrittura e il vuoto

C'è molto spazio vuoto nell'universo. Nell'universo è maggiore il vuoto del pieno. E' naturale che nella mia Trilogia della scomparsa* si trovino tanti spazi vuoti.
Mi piace l'attitudine della poesia a salvare poco dal molto, a capire che si può salvare poco, dovendo eliminare il rumore e tener conto del silenzio, pur ascoltandolo; tener conto cioè del fatto che ci sarà sempre qualche residuo di silenzio inesplicato.
Poderosi volumi pieni di parole destano il sospetto che tutte quelle parole contengano anche del rumore, poco rispettoso del silenzio dell'universo. Può esservi del rumore pure dentro le parole: parole che si sovrappongono ad altre parole, parole che non lasciano parlare gli altri, parole che non sanno quello che stanno dicendo (anche se, bisogna riconoscerlo, la parola scritta è per sua natura più vicina al silenzio e forzatamente più rispettosa di ciò che la circonda se confrontata con la parola parlata o gridata del vivere quotidiano).
L'aspirazione sarebbe la sintesi propria della poesia e al contempo la disponibilità all'accoglienza e al dialogo, propri della prosa. 

Benché siano tre e diano nell’insieme un’impressione di corposità, i romanzi della Trilogia sono volutamente magri, anoressici (che rifiutano di nutrirsi, di crescere) come mancanti di qualcosa. Vi si accenna a un fatto dell'infanzia dimenticato o ricordato in maniere diverse (Il corpo della casa), a un libro storico-filosofico inconcluso (Doppio diario), a una tesi non cominciata (Doppio diario), mentre si può individuare in Nell'altra stanza il fantasma al contempo evocato e respinto di un romanzo di formazione. Non c’è la pienezza della narrazione; al contrario in alcuni punti, soprattutto di Stanza, si può parlare d’ipertrofia della citazione.
Il più anoressico dei tre è sicuramente Doppio diario, per l’interferenza di una delle narratrici che attacca e critica la prima, in questo modo contraendo e castigando la narrazione già incostante. E i primi due romanzi, entrambi romanzi regrediti a diari, si presentano come narrazioni più volte interrotte, traforate in più punti.
Nell’ultimo romanzo due tronconi narrativi, più ampi di altri piccoli frammenti narrativi disseminati nel testo, due cellule immaginative di maggiore consistenza e potenzialmente germinative di trama, che corrispondono ai capitoli "Notturno" e "La città ctonia", sono immersi in un brodo colturale di associazioni, riflessioni, citazioni letterarie e filosofiche appartenenti al mondo degli studi dei due narratori protagonisti, che si chiamano curiosamente allo stesso modo, i due amici Andrea e Andrea.
La macerazione-stagnazione diaristico-meditativa toglie velocità, movimento al progredire di un racconto, che infatti sostanzialmente rimane impantanato in un’evidente difficoltà-impossibilità a svolgersi, a svilupparsi.
Tuttavia già la parola del titolo “trilogia” rimanda a qualcosa di classico, alla tradizione umanistica mai dimenticata (riferimento confermato dalle ripetute allusioni all’Edipo, presenti in tutti e tre i volumi). L’opera si fa carico dei temi classici della vulnerabilità, fragilità, limitatezza umana, per ricondurli all’interno di un discorso che ancora avrebbe l’ambizione di tenersi unito e addirittura essere comunicabile, divulgabile, com’è il racconto sull’utopia contenuto nella "Città ctonia" e spedito come messaggio finale relativo a un possibile approdo, a una possibile maturazione di Andrea (anér/andros, uomo).

* I romanzi della Trilogia della scomparsa su questo sito non sono completamente rappresentati.

Nessun commento: