Come nasce l’idea di una campagna di solidarietà?
In occasione del Social Forum
Europeo di Firenze (8-11 novembre 2012), attiviste di reti internazionali si
sono incontrate in un workshop sul tema degli effetti della crisi sulle donne.
Dalla discussione è nata l’esigenza di unire le forze per far fronte alla
dimensione europea dei problemi. A tutte è stato chiaro che il compito non è
facile, anche per un’abitudine a pensare e a organizzarsi al solo livello
nazionale. Non ci è sembrato tuttavia che la difficoltà dovesse indurre alla
rinuncia. Abbiamo deciso quindi di cominciare con una campagna di solidarietà
con le donne che sono in Europa nelle più gravi condizioni, non solo economiche
ma anche politiche.
Lanceremo la campagna tra i
giorni 8 e 17 marzo a partire da sette-otto città. Sonia Mitralia, fondatrice
della Marcia Mondiale delle Donne greca, attivista dei movimenti contro il
razzismo e che fa attualmente parte del Comitato per l’Annullamento dei Debiti
del Terzo Mondo (CADTM), si recherà in ciascuna di queste città a raccontare
ciò che avviene nel suo paese. In questa occasione e nei mesi successivi
verranno raccolti fondi da inviare ai medici volontari che in un quartiere
della periferia di Atene, in una caserma occupata (Ellenikòn), curano persone
private della possibilità di accesso al sistema sanitario. A Firenze Sonia ci
ha raccontato che moltissime donne hanno perso l’assistenza medica al parto e
che un cesareo costa più o meno tre salari minimi. Niente soldi, niente
cesareo…Ci è sembrato davvero mostruoso…
Qual
è lo stato delle cose in Grecia?
Qui da noi della Grecia si
parla troppo poco… Monti è forse il politico che la nomina più spesso. O le
riforme (leggi le misure di austerità) o faremo la fine della Grecia. La realtà
è che quel disgraziato paese si trova nelle condizioni in cui si trova proprio
perché ha applicato, in anticipo e in ben più forti dosaggi, la terapia Monti.
I piani messi in opera dal
governo greco a partire dal gennaio 2010 hanno gettato il pese nella
disperazione. La prima osservazione da fare è che quelle misure non raggiungono
nemmeno l’obiettivo di ridurre il peso del debito, come per altro è ovvio. Dal
momento che il problema non è l’ammontare del debito in cifra assoluta ma il
suo rapporto con il PIL, la dinamica di depressione e di crisi prodotta
dall’austerità non può che aggravare lo stato delle cose. In Grecia il rapporto
debito/PIL raggiungerà il 189 per cento
entro il 2013 e il 194 entro il 2014.
Ormai però tutte le cifre e le
percentuali valgono poco perché la situazione precipita e non vengono nemmeno
fatte più indagini statistiche. Un esempio. Avevamo scritto in una prima
versione di questo testo che la disoccupazione giovanile aveva superato il 50
per cento sulla base di dati del 2012. Apprendiamo ora dal breve reportage di un
telegiornale della sera (la 7, 17-02) che ha raggiunto in questi giorni il 67
per cento.
Le scuole non hanno insegnanti
né materiale scolastico, le aule sono sovraffollate per gli accorpamenti e
soprattutto non sono riscaldate per il crollo dell’80 per cento degli acquisti
di gasolio. Dei senza tetto non si può più fare alcuna stima, la sanità è
ridotta al disastro e i più sfortunati sono costretti a frugare nella
spazzatura. Questo brillante risultato è stato ottenuto attraverso un
itinerario di tagli alla spesa pubblica, riduzione dei salari, soppressione di
posti di lavoro e cancellazione di diritti. Nel pubblico impiego per esempio si
è cominciato con il blocco delle assunzioni, si è passati poi alla cassa
integrazione per decine di migliaia di dipendenti per arrivare alla
soppressione di 150 mila posti di lavoro entro il 2015. C’è da notare che è
cresciuta fino al paradosso la pressione fiscale sui poveri. In un paese in cui
sono esentati gli armatori e la Chiesa, la maggiore proprietaria fondiaria della
Grecia, la soglia imponibile è stata portata a 5000 euro all’anno e sono
tassate adesso anche le indennità di disoccupazione di 359 euro. Lavoratori e lavoratrici sono stati
privati di gran parte dei loro diritti; si calcola, per esempio, che entro il 2013
l’80 per cento di quelli del settore privato sarà stato costretto a firmare
contratti individuali.
La situazione è drammatica non
solo dal punto di vista economico, ma anche da quello politico. La Grecia è
scossa da lotte di ogni genere e si prepara uno sciopero generale per il 20
febbraio. E nello stesso tempo il governo sta mettendo a punto un nuovo
programma di lacrime e sangue e nuove leggi antisciopero. Syriza nei sondaggi
sfiora il 30 per cento, ma cresce anche l’organizzazione neo-nazista Alba Dorata.
E quel che è peggio, aumenta anche il numero e la violenza delle incursioni
squadristiche contro militanti dei movimenti e della sinistra e soprattutto
contro gli immigrati.
Le donne intervistate nel corso
della preparazione della campagna hanno concluso la loro testimonianza con
queste frasi “La nostra priorità è restare vivi. Ecco tutto”; “Restare vivi, ma
come?”.
Esiste
tuttavia un problema grave di crescita abnorme del debito, che in qualche modo
va affrontato. Esiste un altro modo?
Cominciamo col dire in quale
modo non può e non deve essere affrontato perché questa modalità è dominante,
così come l’ideologia che l’accompagna. Chi dice che deve esserci prima una
fase di risanamento perché poi possa essere rilanciata la crescita, mente sapendo
di mentire. Come si è visto per la
Grecia, ma come era facile capire anche prima, i tagli semplicemente aggravano
il problema che è appunto quello del rapporto debito/PIL.
La questione è che oggi non è
possibile sventare il rischio che tutta l’Europa precipiti in una crisi ancora
più grave senza rimettere in discussione tutta la logica che ha caratterizzato
l’economia negli ultimi decenni. E senza rimettere in discussione anche la
filosofia che ha reso i partiti della sinistra, con poche e marginali eccezioni,
estremamente docili e sottomessi ai bisogni dei mercati finanziari.
Bisogna cioè prima di ogni
altra cosa pensare insieme come togliere dalle mani dei giocatori d’azzardo il
destino di miliardi di persone. Da qui si comincia, non dalla riduzione a condizioni inumane di interi paesi.
Che
cosa significa questo riferimento al gioco d’azzardo?
Vuol dire che la crisi del
debito ha a che fare con il funzionamento dei mercati finanziari. Non solo con
quello, ma si tratta comunque di un elemento decisivo. In nome del libero
mercato negli ultimi decenni è stato cancellato il sistema di regole e
controlli che era stato messo in piedi dopo la crisi del 1929. In realtà le
banche, per avere garanzie pubbliche e l’autorizzazione ad agire con i soldi
dei clienti, devono sottostare a normative e alla vigilanza di appositi enti,
in genere le banche centrali. Ci sono stati poi accordi che hanno tentato di
porre limiti alla loro attività. Il problema però è che regole e limiti possono
essere tranquillamente aggirati, perché la liberalizzazione ha creato un
sistema finanziario parallelo in cui le regole non valgono e ogni speculazione
è consentita.
Detto in maniera terribilmente
schematica, ma tanto per intenderci, esiste un doppio sistema: uno con le
regole e uno senza. Per il capitale finanziario questo dualismo è
particolarmente conveniente. Il sistema con le regole autorizza gli interventi
statali, cioè i piani di salvataggio con il danaro pubblico; quello senza
regole consente di fare i comodi propri, speculare e combinarne di ogni colore.
Per dare un’immagine efficace di questo mondo finanziario parallelo si è
parlato di sistema bancario-ombra. Non si tratta di due mondi separati ma l’uno
è funzionale all’altro. Negli ultimi anni, per esempio, hanno agito i dark pools
(pozzi neri), dove i grandi investitori possono accordarsi per scambi di azioni
e di obbligazioni senza controllo. I dark pools sono gestiti dalle stesse
grandi banche che lavorano sul mercato, per esempio dalla svizzera UBS, dalla
Goldman Sachs, dalla Morgan Stanley ecc.
Questa configurazione dei mercati finanziari incentiva operazioni ad
alto rischio, appunto il gioco d’azzardo che destabilizza l’economia mondiale e
la getta sempre più sull’orlo del baratro.
Si
può fare un esempio?
Esiste un rapporto diretto
nella finanza tra rendimento e rischio, sono due facce della stessa medaglia,
come spiega Andrea Baranes. Più il titolo è sicuro, minore è il suo rendimento
per la semplice ragione che se il rendimento di due titoli con diversi livelli
di Si può fare qualche sicurezza fosse uguale, quelli meno sicuri resterebbero
invenduti. Per battere la concorrenza
quindi i titoli a più alto rischio devono garantire un rendimento più alto. E’
questo meccanismo che costringe i paesi in condizioni economiche peggiori a
pagare interessi usurai ed è questo meccanismo che produce la tendenza della
speculazione ad agire in modo da mettere quei paesi in guai anche maggiori.
C’è poi anche un rapporto
diretto tra finanza e instabilità. La speculazione agisce scommettendo sulle
differenze di prezzo e quindi in un mercato stabile la possibilità di
guadagnare su scarti consistenti e improvvisi sarebbe assai limitata.
Da tutti e due i punti di vista
(rischio e instabilità) sono un esempio efficace i derivati, cioè contratti il cui valore si
basa su un bene o un titolo sottostante.
Con gli esempi forse si capirà meglio.
Un derivato può dare la
possibilità di comprare tra tre mesi un certo quantitativo di petrolio al
prezzo di mercato di quel momento. Si tratta insomma di una specie di polizza
assicurativa, che dovrebbe proteggere l’acquirente da aumenti imprevisti. Oggi
però i derivati sono usati a fini speculativi, che poco hanno a che fare con
l’intenzione originaria, cioè si vendono e si comprano anche molto velocemente
per speculare sulle differenze di prezzo e sono quindi diventati mezzi per
scommesse sui prezzi futuri. La maggior parte dei derivati (il 96,2 per cento)
sono fuori controllo.
Le scommesse hanno un impatto
devastante sull’economia, anche perché gli speculatori influenzano in modo
decisivo la formazione dei prezzi. E non potrebbe essere diversamente perché,
restando all’esempio del petrolio, ogni giorno sono venduti 80 milioni di
barili nel mercato fisico e 1 miliardo sul mercato dei derivati. Si tratta
ovviamente di petrolio “fittizio”, cioè che non appartiene al mondo fisico, ma
importante al fine della formazione dei prezzi.
Nel 2008 masse di capitali si sono riversate su materie prime e cibi con
una conseguente impennata dei prezzi e 100 milioni di persone in più malnutrite. Vale la pena di segnalare anche i CDS, cioè
forme di contratto che dovrebbero assicurare azioni a rischio. In realtà anche
questi servono ben poco ad assicurare e molto di più a scommettere e giocare.
In genere vengono comperati da persone che non hanno né azioni né obbligazioni
da assicurare e comprano e vendono solo a fini speculativi. Se compero CDS che
mi tutelano contro il fallimento, più quel paese è considerato a rischio e più
ci guadagno.
Il guaio è che tutti questi
fenomeni e strumenti hanno dimensioni colossali. Sembra che a metà 2011 il
valore dei derivati fuori controllo fosse di 708 trilioni di dollari, una
dozzina di volte il PIL del pianeta.
Ma
perché la finanza si è sviluppata in modo così abnorme?
La finanziarizzazione non è una
distorsione dell’economia capitalistica, ma il punto d’arrivo delle sue
intrinseche logiche. Marx ne aveva già scritto e fenomeni qualitativamente
simili sono stati alla base della crisi del 1929. In breve le cose sono andate
più o meno così. Dopo la fine dei “trenta gloriosi anni”, cioè dei tre decenni
di forte ascesa economica successivi alla fine della seconda guerra mondiale,
masse di capitali eccedentari non hanno più trovato modo di mettersi in valore
nella produzione. Detto in parole povere, questo vuol dire che ai capitali non
conveniva più investire prevalentemente
nell’attività produttiva perché i mercati erano saturi, le vendite diminuivano
e una massa di capitali restava senza possibilità di sbocchi. In breve una
crisi da ricchezza, tipica del capitalismo maturo, un eccesso di accumulazione
e produzione come causa di crisi e di impoverimento. Quando parliamo di eccesso di ricchezza, di
sovrapproduzione e di sovraccumulazione bisogna però intendersi. L’eccesso è
relativo ai bisogni paganti e non ai bisogni sociali. Se dico che il mercato
delle auto è saturo non voglio affatto dire che ce l’ hanno tutti, ma che ce
l’ha chi è in grado di pagare. Insomma l’inversione del ciclo espansivo si
produce, quando la crescita degli investimenti supera le possibilità di
assorbimento del sistema.
La deregolamentazione e la
finanziarizzazione sono state una delle risposte: i capitali hanno potuto
essere investiti in attività speculative di ogni genere e continuare ad
aumentare di volume fino a diventare una massa enorme. La finanziarizzazione però non è stata
l’unica risposta al declino. Dai primi anni Ottanta con tappe e ritmi diversi
nei differenti paesi, abbiamo assistito a un progressivo spostamento di
ricchezza dai salari ai profitti. Nella UE i redditi da lavoro erano nel 1975
il 69,9 per cento del PIL, nel 2006 il 57,8; in Italia nel 1975 il 69,7 e nel
2005 il 53,3. Nello stesso periodo è stato drasticamente ridotto il welfare,
sono stati compressi i salari e i ricchi hanno pagato meno tasse. Tra la compressione dei salari e la
finanziarizzazione c’è un rapporto
diretto, perché l’indebitamento con banche e altri enti finanziari ha
compensato la mancata dinamica salariale. Si è comprato a rate, con mutui e
prestiti di vario genere e questo meccanismo ha avuto anche una funzione di
sostegno ai profitti.
La vicenda dei subprimes
(subprime = al di sotto dei migliori) è un esempio di come il debito
privato diventi pubblico. A un certo
punto il bisogni di valorizzare i capitali ha spinto le banche a prestare a clienti
non in grado di restituire, trasferendo poi i danni ai clienti . I crediti sono
stati trasformati in titoli e venduti sul mercato. Chi li ha acquistati spesso
lo ha fatto a sua insaputa perché impacchettati e non riconoscibili. Qualcuno
li ha paragonati a salcicce: dentro c’è della carne, ma non si può sapere di
quale animale si tratta. Negli anni
precedenti il 2007 le banche hanno cartolarizzato (così si dice per riferirsi a
questo tipo di operazione): mutui, prestiti agli studenti, diritti sui brani di
musica rock ecc. Il risultato è che
l’intero mercato finanziario è stato inondato da quelli che sono stati chiamati
poi “titoli tossici”. Quando scoppia la crisi, i governi corrono in aiuto dei
mercati finanziari con costosissime operazioni di salvataggio a spese dei
contribuenti.
Dunque
sono stati i piani di salvataggio a far crescere il debito pubblico?
Anche, ma non solo. In realtà
le cause della crescita sono diverse e vanno comprese nella loro
interdipendenza. Ci sono fenomeni legati più direttamente alla
finanziarizzazione e alla deregolamentazione.
Per esempio il fatto che i capitali siano diventati così mobili e
possano entrare e uscire a loro piacimento ha costretto gli Stati ad aumentare
i tassi di interesse per attrarli. Ci sono poi gli attacchi speculativi per
costringere ad aumentarli ulteriormente. E i piani di salvataggio che hanno
assunto dimensioni gigantesche. Miliardi
di dollari sono stati prestati alle banche in difficoltà, ma non solo. I
governi e le banche centrali hanno garantito una grande massa di titoli tossici
perché nessuno dava più contanti in cambio di titoli per paura
dell’intossicazione. In molti casi i titoli tossici sono stati addirittura
acquistati. Nel 2012 in Europa erano 2300 i miliardi spesi per salvare il sistema
finanziario, cifra che non contiene i piani di rilancio legati alla crisi
finanziaria. E il paradosso è che subito
dopo l’intervento dei governi, la finanza ha ricominciato a speculare contro
gli Stati che si sono indebitati per salvarla.
Ma la crisi del debito ha anche
altre ragioni. Per esempio il fatto che per sostenere i profitti siano state
abbassate quasi dappertutto le tasse ai più ricchi; l’evasione fiscale, resa
più facile dall’esistenza e dal rafforzamento dei paradisi fiscali; la corruzione,
le spese militari e clientelari in genere, l’economia sommersa ecc. che non
sono distorsioni casuali ma connaturate a questo tipo di configurazione
dell’economia capitalistica.
Perché
gli Stati fanno una politica così autolesionista?
Perché le istituzioni statali
con poteri su questo terreno sono completamente asserviti alle banche e agli
enti finanziari in genere. In questo, a dire il vero non c’è nulla di nuovo. Le
formazioni sociali egemoniche hanno sempre avuto il potere di piegare i governi
ai loro interessi, a danno di tutto il resto della collettività, anche del 99
per cento, secondo lo slogan di Occupy.
La finanza è oggi il potere più
forte e quello con la maggiore capacità di condizionamento. Negli USA negli
ultimi dieci anni l’industria finanziaria ha speso oltre 5 miliardi di dollari
di contributi elettorali, ha rafforzato una rete di lobbisti di migliaia di
persone e ha potuto godere del sostegno di una potente lobby accademica che ha
sostenuto e diffuso il “pensiero unico” liberista.
Bisogna poi mettere nel conto
l’atteggiamento di gran parte dell’ex-sinistra europea che si è cristallizzato
attraverso una lunga pratica, cioè il realismo presunto. Si pensa che, una
volta cancellata la rivoluzione dal novero delle cose possibili e auspicabili,
bisogna pure accettare che questo sistema funzioni secondo le regole che gli
sono proprie.
Qualche volta questo discorso
ha avuto anche un senso, magari non condivisibile ma con una sua logica, adesso
non ne ha nessuno. Primo Levi, nel suo libro “Sommersi e salvati”, spiega che
nel Lager esisteva una sola via attraverso la quale si diventava “sommersi”,
quella dell’obbedienza alle regole. Per la semplice ragione che le regole erano
state pensate e costruite appunto per produrre quell’esito. Se faremo ciò che
vogliono Monti e la troika (FMI,CE,BCE) finiremo come la Grecia o in una
condizione simile a quella della Grecia. Un esempio del potere della finanza è
la costruzione che abbiamo chiamata Unione europea, in cui importanti
mediazioni politiche sono saltate e il capitale finanziario può governare
direttamente. La BCE, contrariamente alla statunitense FED e alla Banca
centrale inglese, non può intervenire per salvare uno Stato in crisi, cioè per
statuto non può comperare i titoli di Stato dei paesi membri per contrastare
gli assalti della speculazione. Presta alle banche anche a tassi inferiori
all’1 per cento e le banche prestano poi agli Stati a tassi molto più alti.
Siamo quindi di fronte a un ibrido tra neoliberismo imposto ai cittadini e
assistenzialismo statalista per le banche private.
Che
cosa possiamo fare allora?
Prima di tutto aiutare la gente
a non pensare con la testa del capitale finanziario, anzi del capitale in
genere. La questione non è che manchino le lotte e le resistenze, ma che
l’ideologia contribuisce alla loro frammentazione. Ognuno resiste quando viene
colpito direttamente oppure, come nel caso della Grecia, quando un intero paese
è alla disperazione. Bisogna spiegare
tre semplici cose.
La prima è che la crisi del
debito non deriva dal fatto che abbiamo vissuto al di sopra delle nostre
possibilità, come ci sentiamo ripetere. Il debito pubblico della UE era 2007
inferiore al 60 per cento del PIL, nel 2010 ha superato l’80. Non risulta che in quegli anni ci siano state
ondate di aumenti salariali e nuovi servizi sociali; ci sono stati i piani di
salvataggio, la crisi e il crollo delle entrate fiscali.
La seconda è che non bisogna
accettare la retorica sull’esigenza di “onorare il debito”. Esiste un limite
alla possibilità di violare diritti umani per esigere crediti. Non c’è più la
schiavitù per debiti e non può esserci nemmeno la condanna a morte come in Grecia, paese in cui si muore per
mancanza di assistenza sanitaria.
La terza è che non bisogna
avere paura del default. Questo termine significa tecnicamente non rispettare
anche una sola delle clausole contrattuali che regolano il debito. Ci sono tipi
diversi di default: il blocco del pagamento, l’allungamento dei termini, la
restituzione del capitale senza interessi, l’azzeramento di capitali e
interessi. Esistono numerosi esempi remoti e recenti di default. L’Argentina
era precipitata nella miseria finché il
suo governo non si è deciso a sospendere i pagamenti e a rinegoziare il debito
al 45 per cento del suo valore.
L’Ecuador del presidente Correa ha rinegoziato il debito con le banche
statunitensi ottenendo un risparmio di due terzi di ciò che lo Stato
ecuadoregno avrebbe dovuto pagare ai creditori. Naturalmente la contrattazione
è stata possibile e vincente perché accompagnata dalla minaccia di non pagare.
Correa si è servito di uno strumento chiamato “audit”, cioè della verifica
della parte di debito da considerare
“illegittima”. Si devono considerare illegittimi i debiti contratti per
sostenere la speculazione delle banche, per acquistare armi, per violare i
diritti umani ecc. Illegittimi per esempio sono i debiti contratti dal regime
dittatoriale dei colonnelli in Grecia per acquistare armi e contratti con
banche tedesche e francesi.
Nella Carta dell’ONU, nella
Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, nella Convenzione di Vienna del
1983, nella Dichiarazione sul diritto allo sviluppo ecc. esistono tutte le
premesse etiche e politiche per considerare illegittimo gran parte del debito
europeo.
Chi
può fare tutto questo?
Per ora si può pensare alla
costruzione di un movimento popolare che faccia propria la tematica del
default, dell’audit e dei debiti illegittimi. Ma la risposta fondamentale alle
politiche di austerità sono le lotte contro i licenziamenti, la resistenza ai
tagli e alla tassazione dei redditi più bassi ecc. I movimenti popolari partono
prima di tutto dalla difesa dei bisogni immediati.
Noi abbiamo scelto la tematica
della sanità come punto di contatto tra la campagna per il San Raffaele e
quella per le donne greche, perché la salute è la violazione di un diritto
universale che in Grecia produce gli effetti più terribili e perché in Italia
il sistema sanitario è il prossimo bersaglio dell’austerità.
Anche su questo terreno bisogna
prima di tutto respingere alcuni luoghi comuni semplicemente falsi, come per
esempio quello secondo il quale in Italia si spende troppo per il servizio
sanitario. In realtà la percentuale di PIL destinata nel nostro paese alla
salute è un po’ inferiore (9,3) a quella della media dei paesi dell’OCSE (9,5).
Una serie di misure recenti prevedono poi il taglio di 30 miliardi in 5 anni,
dal 2011 al 2015 e siamo solo all’inizio: l’assistenza come diritto universale
non è compatibile con la realizzazione dei desideri dei mercati finanziari. E
se dobbiamo credere a Monti, l’intenzione è il saccheggio a breve termine.
La direzione in cui portano le
politiche di austerità è evidente da ciò che è accaduto in Spagna, dove il
sistema sanitario è stato fatto fuori rapidamente e sono rientrate in vigore le
mutue dell’epoca franchista, legate al contratto di lavoro e che coprono
differentemente e parzialmente.
Testi
di riferimento:
Andrea
Baranes, Finanza per indignati, Ponte
alle grazie, 2012
Marco
Bertorello, Danilo Corradi, Capitalismo tossico,
Edizioni Alegre, 2011
Damien
Millet, Eric Toussaint, Debitocrazia, Edizioni
Alegre, 2011
Riccardo
Bellofiore, La crisi capitalistica, la
barbarie che avanza, Quaderni Viola
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