venerdì 8 marzo 2013

Donne nella crisi. Materiali.

Dieci domande e dieci risposte sulla campagna di solidarietà con le donne greche


Come nasce l’idea di una campagna di solidarietà?

In occasione del Social Forum Europeo di Firenze (8-11 novembre 2012), attiviste di reti internazionali si sono incontrate in un workshop sul tema degli effetti della crisi sulle donne. Dalla discussione è nata l’esigenza di unire le forze per far fronte alla dimensione europea dei problemi. A tutte è stato chiaro che il compito non è facile, anche per un’abitudine a pensare e a organizzarsi al solo livello nazionale. Non ci è sembrato tuttavia che la difficoltà dovesse indurre alla rinuncia. Abbiamo deciso quindi di cominciare con una campagna di solidarietà con le donne che sono in Europa nelle più gravi condizioni, non solo economiche ma anche politiche.
Lanceremo la campagna tra i giorni 8 e 17 marzo a partire da sette-otto città. Sonia Mitralia, fondatrice della Marcia Mondiale delle Donne greca, attivista dei movimenti contro il razzismo e che fa attualmente parte del Comitato per l’Annullamento dei Debiti del Terzo Mondo (CADTM), si recherà in ciascuna di queste città a raccontare ciò che avviene nel suo paese. In questa occasione e nei mesi successivi verranno raccolti fondi da inviare ai medici volontari che in un quartiere della periferia di Atene, in una caserma occupata (Ellenikòn), curano persone private della possibilità di accesso al sistema sanitario. A Firenze Sonia ci ha raccontato che moltissime donne hanno perso l’assistenza medica al parto e che un cesareo costa più o meno tre salari minimi. Niente soldi, niente cesareo…Ci è sembrato davvero mostruoso…

Qual è lo stato delle cose in Grecia?

Qui da noi della Grecia si parla troppo poco… Monti è forse il politico che la nomina più spesso. O le riforme (leggi le misure di austerità) o faremo la fine della Grecia. La realtà è che quel disgraziato paese si trova nelle condizioni in cui si trova proprio perché ha applicato, in anticipo e in ben più forti dosaggi, la terapia Monti.
I piani messi in opera dal governo greco a partire dal gennaio 2010 hanno gettato il pese nella disperazione. La prima osservazione da fare è che quelle misure non raggiungono nemmeno l’obiettivo di ridurre il peso del debito, come per altro è ovvio. Dal momento che il problema non è l’ammontare del debito in cifra assoluta ma il suo rapporto con il PIL, la dinamica di depressione e di crisi prodotta dall’austerità non può che aggravare lo stato delle cose. In Grecia il rapporto debito/PIL  raggiungerà il 189 per cento entro il 2013 e il 194 entro il 2014.
Ormai però tutte le cifre e le percentuali valgono poco perché la situazione precipita e non vengono nemmeno fatte più indagini statistiche. Un esempio. Avevamo scritto in una prima versione di questo testo che la disoccupazione giovanile aveva superato il 50 per cento sulla base di dati del 2012. Apprendiamo ora dal breve reportage di un telegiornale della sera (la 7, 17-02) che ha raggiunto in questi giorni il 67 per cento.
Le scuole non hanno insegnanti né materiale scolastico, le aule sono sovraffollate per gli accorpamenti e soprattutto non sono riscaldate per il crollo dell’80 per cento degli acquisti di gasolio. Dei senza tetto non si può più fare alcuna stima, la sanità è ridotta al disastro e i più sfortunati sono costretti a frugare nella spazzatura. Questo brillante risultato è stato ottenuto attraverso un itinerario di tagli alla spesa pubblica, riduzione dei salari, soppressione di posti di lavoro e cancellazione di diritti. Nel pubblico impiego per esempio si è cominciato con il blocco delle assunzioni, si è passati poi alla cassa integrazione per decine di migliaia di dipendenti per arrivare alla soppressione di 150 mila posti di lavoro entro il 2015. C’è da notare che è cresciuta fino al paradosso la pressione fiscale sui poveri. In un paese in cui sono esentati gli armatori e la Chiesa, la maggiore proprietaria fondiaria della Grecia, la soglia imponibile è stata portata a 5000 euro all’anno e sono tassate adesso anche le indennità di disoccupazione di 359  euro. Lavoratori e lavoratrici sono stati privati di gran parte dei loro diritti; si calcola, per esempio, che entro il 2013 l’80 per cento di quelli del settore privato sarà stato costretto a firmare contratti individuali. 
La situazione è drammatica non solo dal punto di vista economico, ma anche da quello politico. La Grecia è scossa da lotte di ogni genere e si prepara uno sciopero generale per il 20 febbraio. E nello stesso tempo il governo sta mettendo a punto un nuovo programma di lacrime e sangue e nuove leggi antisciopero. Syriza nei sondaggi sfiora il 30 per cento, ma cresce anche l’organizzazione neo-nazista Alba Dorata. E quel che è peggio, aumenta anche il numero e la violenza delle incursioni squadristiche contro militanti dei movimenti e della sinistra e soprattutto contro gli immigrati.
Le donne intervistate nel corso della preparazione della campagna hanno concluso la loro testimonianza con queste frasi “La nostra priorità è restare vivi. Ecco tutto”; “Restare vivi, ma come?”.

Esiste tuttavia un problema grave di crescita abnorme del debito, che in qualche modo va affrontato. Esiste un altro modo?

Cominciamo col dire in quale modo non può e non deve essere affrontato perché questa modalità è dominante, così come l’ideologia che l’accompagna. Chi dice che deve esserci prima una fase di risanamento perché poi possa essere rilanciata la crescita, mente sapendo di mentire.  Come si è visto per la Grecia, ma come era facile capire anche prima, i tagli semplicemente aggravano il problema che è appunto quello del rapporto debito/PIL.
La questione è che oggi non è possibile sventare il rischio che tutta l’Europa precipiti in una crisi ancora più grave senza rimettere in discussione tutta la logica che ha caratterizzato l’economia negli ultimi decenni. E senza rimettere in discussione anche la filosofia che ha reso i partiti della sinistra, con poche e marginali eccezioni, estremamente docili e sottomessi ai bisogni dei mercati finanziari.
Bisogna cioè prima di ogni altra cosa pensare insieme come togliere dalle mani dei giocatori d’azzardo il destino di miliardi di persone. Da qui si comincia, non dalla riduzione  a condizioni inumane di interi paesi.

Che cosa significa questo riferimento al gioco d’azzardo?

Vuol dire che la crisi del debito ha a che fare con il funzionamento dei mercati finanziari. Non solo con quello, ma si tratta comunque di un elemento decisivo. In nome del libero mercato negli ultimi decenni è stato cancellato il sistema di regole e controlli che era stato messo in piedi dopo la crisi del 1929. In realtà le banche, per avere garanzie pubbliche e l’autorizzazione ad agire con i soldi dei clienti, devono sottostare a normative e alla vigilanza di appositi enti, in genere le banche centrali. Ci sono stati poi accordi che hanno tentato di porre limiti alla loro attività. Il problema però è che regole e limiti possono essere tranquillamente aggirati, perché la liberalizzazione ha creato un sistema finanziario parallelo in cui le regole non valgono e ogni speculazione è consentita.
Detto in maniera terribilmente schematica, ma tanto per intenderci, esiste un doppio sistema: uno con le regole e uno senza. Per il capitale finanziario questo dualismo è particolarmente conveniente. Il sistema con le regole autorizza gli interventi statali, cioè i piani di salvataggio con il danaro pubblico; quello senza regole consente di fare i comodi propri, speculare e combinarne di ogni colore. Per dare un’immagine efficace di questo mondo finanziario parallelo si è parlato di sistema bancario-ombra. Non si tratta di due mondi separati ma l’uno è funzionale all’altro. Negli ultimi anni, per esempio, hanno agito i dark pools (pozzi neri), dove i grandi investitori possono accordarsi per scambi di azioni e di obbligazioni senza controllo. I dark pools sono gestiti dalle stesse grandi banche che lavorano sul mercato, per esempio dalla svizzera UBS, dalla Goldman Sachs, dalla Morgan Stanley ecc.   Questa configurazione dei mercati finanziari incentiva operazioni ad alto rischio, appunto il gioco d’azzardo che destabilizza l’economia mondiale e la getta sempre più sull’orlo del baratro.

Si può fare un esempio?

Esiste un rapporto diretto nella finanza tra rendimento e rischio, sono due facce della stessa medaglia, come spiega Andrea Baranes. Più il titolo è sicuro, minore è il suo rendimento per la semplice ragione che se il rendimento di due titoli con diversi livelli di Si può fare qualche sicurezza fosse uguale, quelli meno sicuri resterebbero invenduti.  Per battere la concorrenza quindi i titoli a più alto rischio devono garantire un rendimento più alto. E’ questo meccanismo che costringe i paesi in condizioni economiche peggiori a pagare interessi usurai ed è questo meccanismo che produce la tendenza della speculazione ad agire in modo da mettere quei paesi in guai anche maggiori.
C’è poi anche un rapporto diretto tra finanza e instabilità. La speculazione agisce scommettendo sulle differenze di prezzo e quindi in un mercato stabile la possibilità di guadagnare su scarti consistenti e improvvisi sarebbe assai limitata.
Da tutti e due i punti di vista (rischio e instabilità) sono un esempio efficace  i derivati, cioè contratti il cui valore si basa su un bene o un titolo sottostante.  Con gli esempi forse si capirà meglio.
Un derivato può dare la possibilità di comprare tra tre mesi un certo quantitativo di petrolio al prezzo di mercato di quel momento. Si tratta insomma di una specie di polizza assicurativa, che dovrebbe proteggere l’acquirente da aumenti imprevisti. Oggi però i derivati sono usati a fini speculativi, che poco hanno a che fare con l’intenzione originaria, cioè si vendono e si comprano anche molto velocemente per speculare sulle differenze di prezzo e sono quindi diventati mezzi per scommesse sui prezzi futuri. La maggior parte dei derivati (il 96,2 per cento) sono fuori controllo.
Le scommesse hanno un impatto devastante sull’economia, anche perché gli speculatori influenzano in modo decisivo la formazione dei prezzi. E non potrebbe essere diversamente perché, restando all’esempio del petrolio, ogni giorno sono venduti 80 milioni di barili nel mercato fisico e 1 miliardo sul mercato dei derivati. Si tratta ovviamente di petrolio “fittizio”, cioè che non appartiene al mondo fisico, ma importante al fine della formazione dei prezzi.  Nel 2008 masse di capitali si sono riversate su materie prime e cibi con una conseguente impennata dei prezzi e 100 milioni di persone in più malnutrite.   Vale la pena di segnalare anche i CDS, cioè forme di contratto che dovrebbero assicurare azioni a rischio. In realtà anche questi servono ben poco ad assicurare e molto di più a scommettere e giocare. In genere vengono comperati da persone che non hanno né azioni né obbligazioni da assicurare e comprano e vendono solo a fini speculativi. Se compero CDS che mi tutelano contro il fallimento, più quel paese è considerato a rischio e più ci guadagno.
Il guaio è che tutti questi fenomeni e strumenti hanno dimensioni colossali. Sembra che a metà 2011 il valore dei derivati fuori controllo fosse di 708 trilioni di dollari, una dozzina di volte il PIL del pianeta.

Ma perché la finanza si è sviluppata in modo così abnorme?

La finanziarizzazione non è una distorsione dell’economia capitalistica, ma il punto d’arrivo delle sue intrinseche logiche. Marx ne aveva già scritto e fenomeni qualitativamente simili sono stati alla base della crisi del 1929. In breve le cose sono andate più o meno così. Dopo la fine dei “trenta gloriosi anni”, cioè dei tre decenni di forte ascesa economica successivi alla fine della seconda guerra mondiale, masse di capitali eccedentari non hanno più trovato modo di mettersi in valore nella produzione. Detto in parole povere, questo vuol dire che ai capitali non conveniva  più investire prevalentemente nell’attività produttiva perché i mercati erano saturi, le vendite diminuivano e una massa di capitali restava senza possibilità di sbocchi. In breve una crisi da ricchezza, tipica del capitalismo maturo, un eccesso di accumulazione e produzione come causa di crisi e di impoverimento.  Quando parliamo di eccesso di ricchezza, di sovrapproduzione e di sovraccumulazione bisogna però intendersi. L’eccesso è relativo ai bisogni paganti e non ai bisogni sociali. Se dico che il mercato delle auto è saturo non voglio affatto dire che ce l’ hanno tutti, ma che ce l’ha chi è in grado di pagare. Insomma l’inversione del ciclo espansivo si produce, quando la crescita degli investimenti supera le possibilità di assorbimento del sistema.
La deregolamentazione e la finanziarizzazione sono state una delle risposte: i capitali hanno potuto essere investiti in attività speculative di ogni genere e continuare ad aumentare di volume fino a diventare una massa enorme.  La finanziarizzazione però non è stata l’unica risposta al declino. Dai primi anni Ottanta con tappe e ritmi diversi nei differenti paesi, abbiamo assistito a un progressivo spostamento di ricchezza dai salari ai profitti. Nella UE i redditi da lavoro erano nel 1975 il 69,9 per cento del PIL, nel 2006 il 57,8; in Italia nel 1975 il 69,7 e nel 2005 il 53,3. Nello stesso periodo è stato drasticamente ridotto il welfare, sono stati compressi i salari e i ricchi hanno pagato meno tasse.   Tra la compressione dei salari e la finanziarizzazione  c’è un rapporto diretto, perché l’indebitamento con banche e altri enti finanziari ha compensato la mancata dinamica salariale. Si è comprato a rate, con mutui e prestiti di vario genere e questo meccanismo ha avuto anche una funzione di sostegno ai profitti.
La vicenda dei subprimes (subprime = al di sotto dei migliori) è un esempio di come il debito privato  diventi pubblico. A un certo punto il bisogni di valorizzare i capitali ha spinto le banche a prestare a clienti non in grado di restituire, trasferendo poi i danni ai clienti . I crediti sono stati trasformati in titoli e venduti sul mercato. Chi li ha acquistati spesso lo ha fatto a sua insaputa perché impacchettati e non riconoscibili. Qualcuno li ha paragonati a salcicce: dentro c’è della carne, ma non si può sapere di quale animale si tratta.  Negli anni precedenti il 2007 le banche hanno cartolarizzato (così si dice per riferirsi a questo tipo di operazione): mutui, prestiti agli studenti, diritti sui brani di musica rock ecc.  Il risultato è che l’intero mercato finanziario è stato inondato da quelli che sono stati chiamati poi “titoli tossici”. Quando scoppia la crisi, i governi corrono in aiuto dei mercati finanziari con costosissime operazioni di salvataggio a spese dei contribuenti.

Dunque sono stati i piani di salvataggio a far crescere il debito pubblico?

Anche, ma non solo. In realtà le cause della crescita sono diverse e vanno comprese nella loro interdipendenza. Ci sono fenomeni legati più direttamente alla finanziarizzazione e alla deregolamentazione.  Per esempio il fatto che i capitali siano diventati così mobili e possano entrare e uscire a loro piacimento ha costretto gli Stati ad aumentare i tassi di interesse per attrarli. Ci sono poi gli attacchi speculativi per costringere ad aumentarli ulteriormente. E i piani di salvataggio che hanno assunto dimensioni gigantesche.  Miliardi di dollari sono stati prestati alle banche in difficoltà, ma non solo. I governi e le banche centrali hanno garantito una grande massa di titoli tossici perché nessuno dava più contanti in cambio di titoli per paura dell’intossicazione. In molti casi i titoli tossici sono stati addirittura acquistati. Nel 2012 in Europa erano 2300 i miliardi spesi per salvare il sistema finanziario, cifra che non contiene i piani di rilancio legati alla crisi finanziaria.  E il paradosso è che subito dopo l’intervento dei governi, la finanza ha ricominciato a speculare contro gli Stati che si sono indebitati per salvarla.
Ma la crisi del debito ha anche altre ragioni. Per esempio il fatto che per sostenere i profitti siano state abbassate quasi dappertutto le tasse ai più ricchi; l’evasione fiscale, resa più facile dall’esistenza e dal rafforzamento dei paradisi fiscali; la corruzione, le spese militari e clientelari in genere, l’economia sommersa ecc. che non sono distorsioni casuali ma connaturate a questo tipo di configurazione dell’economia capitalistica.

Perché gli Stati fanno una politica così autolesionista?

Perché le istituzioni statali con poteri su questo terreno sono completamente asserviti alle banche e agli enti finanziari in genere. In questo, a dire il vero non c’è nulla di nuovo. Le formazioni sociali egemoniche hanno sempre avuto il potere di piegare i governi ai loro interessi, a danno di tutto il resto della collettività, anche del 99 per cento, secondo lo slogan di Occupy.
La finanza è oggi il potere più forte e quello con la maggiore capacità di condizionamento. Negli USA negli ultimi dieci anni l’industria finanziaria ha speso oltre 5 miliardi di dollari di contributi elettorali, ha rafforzato una rete di lobbisti di migliaia di persone e ha potuto godere del sostegno di una potente lobby accademica che ha sostenuto e diffuso il “pensiero unico” liberista.
Bisogna poi mettere nel conto l’atteggiamento di gran parte dell’ex-sinistra europea che si è cristallizzato attraverso una lunga pratica, cioè il realismo presunto. Si pensa che, una volta cancellata la rivoluzione dal novero delle cose possibili e auspicabili, bisogna pure accettare che questo sistema funzioni secondo le regole che gli sono proprie.
Qualche volta questo discorso ha avuto anche un senso, magari non condivisibile ma con una sua logica, adesso non ne ha nessuno. Primo Levi, nel suo libro “Sommersi e salvati”, spiega che nel Lager esisteva una sola via attraverso la quale si diventava “sommersi”, quella dell’obbedienza alle regole. Per la semplice ragione che le regole erano state pensate e costruite appunto per produrre quell’esito. Se faremo ciò che vogliono Monti e la troika (FMI,CE,BCE) finiremo come la Grecia o in una condizione simile a quella della Grecia. Un esempio del potere della finanza è la costruzione che abbiamo chiamata Unione europea, in cui importanti mediazioni politiche sono saltate e il capitale finanziario può governare direttamente. La BCE, contrariamente alla statunitense FED e alla Banca centrale inglese, non può intervenire per salvare uno Stato in crisi, cioè per statuto non può comperare i titoli di Stato dei paesi membri per contrastare gli assalti della speculazione. Presta alle banche anche a tassi inferiori all’1 per cento e le banche prestano poi agli Stati a tassi molto più alti. Siamo quindi di fronte a un ibrido tra neoliberismo imposto ai cittadini e assistenzialismo statalista per le banche private.

Che cosa possiamo fare allora?

Prima di tutto aiutare la gente a non pensare con la testa del capitale finanziario, anzi del capitale in genere. La questione non è che manchino le lotte e le resistenze, ma che l’ideologia contribuisce alla loro frammentazione. Ognuno resiste quando viene colpito direttamente oppure, come nel caso della Grecia, quando un intero paese è alla disperazione.     Bisogna spiegare tre semplici cose.
La prima è che la crisi del debito non deriva dal fatto che abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità, come ci sentiamo ripetere. Il debito pubblico della UE era 2007 inferiore al 60 per cento del PIL, nel 2010 ha superato l’80.  Non risulta che in quegli anni ci siano state ondate di aumenti salariali e nuovi servizi sociali; ci sono stati i piani di salvataggio, la crisi e il crollo delle entrate fiscali.
La seconda è che non bisogna accettare la retorica sull’esigenza di “onorare il debito”. Esiste un limite alla possibilità di violare diritti umani per esigere crediti. Non c’è più la schiavitù per debiti e non può esserci nemmeno la condanna a morte  come in Grecia, paese in cui si muore per mancanza di assistenza sanitaria.
La terza è che non bisogna avere paura del default. Questo termine significa tecnicamente non rispettare anche una sola delle clausole contrattuali che regolano il debito. Ci sono tipi diversi di default: il blocco del pagamento, l’allungamento dei termini, la restituzione del capitale senza interessi, l’azzeramento di capitali e interessi. Esistono numerosi esempi remoti e recenti di default. L’Argentina era  precipitata nella miseria finché il suo governo non si è deciso a sospendere i pagamenti e a rinegoziare il debito al 45 per cento del suo valore.  L’Ecuador del presidente Correa ha rinegoziato il debito con le banche statunitensi ottenendo un risparmio di due terzi di ciò che lo Stato ecuadoregno avrebbe dovuto pagare ai creditori. Naturalmente la contrattazione è stata possibile e vincente perché accompagnata dalla minaccia di non pagare. Correa si è servito di uno strumento chiamato “audit”, cioè della verifica della parte di debito  da considerare “illegittima”. Si devono considerare illegittimi i debiti contratti per sostenere la speculazione delle banche, per acquistare armi, per violare i diritti umani ecc. Illegittimi per esempio sono i debiti contratti dal regime dittatoriale dei colonnelli in Grecia per acquistare armi e contratti con banche tedesche e francesi.
Nella Carta dell’ONU, nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, nella Convenzione di Vienna del 1983, nella Dichiarazione sul diritto allo sviluppo ecc. esistono tutte le premesse etiche e politiche per considerare illegittimo gran parte del debito europeo.

Chi può fare tutto questo?

Per ora si può pensare alla costruzione di un movimento popolare che faccia propria la tematica del default, dell’audit e dei debiti illegittimi. Ma la risposta fondamentale alle politiche di austerità sono le lotte contro i licenziamenti, la resistenza ai tagli e alla tassazione dei redditi più bassi ecc. I movimenti popolari partono prima di tutto dalla difesa dei bisogni immediati.
Noi abbiamo scelto la tematica della sanità come punto di contatto tra la campagna per il San Raffaele e quella per le donne greche, perché la salute è la violazione di un diritto universale che in Grecia produce gli effetti più terribili e perché in Italia il sistema sanitario è il prossimo bersaglio dell’austerità.
Anche su questo terreno bisogna prima di tutto respingere alcuni luoghi comuni semplicemente falsi, come per esempio quello secondo il quale in Italia si spende troppo per il servizio sanitario. In realtà la percentuale di PIL destinata nel nostro paese alla salute è un po’ inferiore (9,3) a quella della media dei paesi dell’OCSE (9,5). Una serie di misure recenti prevedono poi il taglio di 30 miliardi in 5 anni, dal 2011 al 2015 e siamo solo all’inizio: l’assistenza come diritto universale non è compatibile con la realizzazione dei desideri dei mercati finanziari. E se dobbiamo credere a Monti, l’intenzione è il saccheggio a breve termine.
La direzione in cui portano le politiche di austerità è evidente da ciò che è accaduto in Spagna, dove il sistema sanitario è stato fatto fuori rapidamente e sono rientrate in vigore le mutue dell’epoca franchista, legate al contratto di lavoro e che coprono differentemente e parzialmente.


Testi di riferimento:  
Andrea Baranes, Finanza per indignati, Ponte alle grazie, 2012
Marco Bertorello, Danilo Corradi, Capitalismo tossico, Edizioni Alegre, 2011
Damien Millet, Eric Toussaint, Debitocrazia, Edizioni Alegre, 2011
Riccardo Bellofiore, La crisi capitalistica, la barbarie che avanza, Quaderni Viola



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