lunedì 17 aprile 2017

Intervista a Christian Tito

Christian, tu hai dimostrato di essere una persona versatile e creativa in vari ambiti, dalla scrittura alla cinematografia alla musica. Com’è stata la tua formazione?

La mia formazione è stata esclusivamente legata alla soddisfazione della curiosità e dell'innata passione, da fruitore, per l'altrui arte. Non ho fatto nessun percorso accademico; posso dire che le mie espressioni artistiche sono state alimentate da continue e inesauribili fonti dirette assorbite e poi filtrate attraverso la strutturazione della mia identità e sensibilità.

E’ interessante notare che nonostante i molteplici interessi in campo letterario e artistico, tu svolga un lavoro di routine in una farmacia. Com’è avvenuta questa scelta lavorativa?

E’stata una scelta conseguente al mio percorso di studi scientifici di cui non sono pentito. Ho studiato Chimica e Tecnologie Farmaceutiche all’Università di Bologna, un percorso affascinante che può aprire e sollecitare molto la mente. Nello stesso tempo vivere Bologna negli anni novanta da studente amante anche dell’arte è stato un privilegio notevole, non solo per le occasioni che offriva di assistere a eventi, concerti, mostre ecc..., ma anche perché era ed è una città che emana un’energia creativa difficilmente riscontrabile in altri luoghi e favorisce incontri e scambi molto stimolanti. Una volta terminati gli studi ho scelto di lavorare in farmacia poiché, tra le varie possibilità che la mia laurea offriva, mi piaceva l’idea di restare a contatto con la gente, di lavorare col pubblico, fattori per i quali mi sentivo predisposto e che possono offrire occasioni di crescita umana. Non è pensabile in questo Paese e in questi anni di crisi economica, ma forse non è pensabile in assoluto poter sostenere se stessi e i propri figli (ne ho due) con le forme d'arti con cui mi esprimo io soprattutto perché, non per scelta, ma per vocazione, sono sempre espressioni poco commerciali o commerciabili. Come autore bisogna tenere conto con realismo che la poesia generalmente di soldi te ne fa perdere e mai guadagnare (ad eccezione di massimo una dozzina di nomi in Italia); la musica che suonavo (ho suonato in una rock band quando ero studente all'università), nella migliore delle ipotesi, assicurava divertimento, qualche birra gratis e tentativi più o meno falliti di risolvere le nostre nevrosi di ragazzi un po' problematici; venendo al cinema, se consideri che registi che per me sono fondamentali riferimenti quali Herzog, Kaurismaki, Kieslowski o, molto più di nicchia, come Vittorio De Seta, e che io ho solo girato cortometraggi con mezzi poveri da presentare al massimo in festival del settore, capisci bene perché finisco col fare tutt'altro lavoro. Però l’attività che svolgo, quella che mi consente di pagare le bollette, il mutuo ecc..., non è così di routine, dipende molto dal modo in cui la si interpreta e, se ho dato l'impressione che lo fosse, me ne dispiaccio, perché i problemi che ho avuto non sono stati con questo lavoro, ma proprio di rapporto col lavoro in generale e non certo per pigrizia. Nel tempo, attraverso un percorso di analisi, sono riuscito a modificare questo grumo che mi ha dato grande sofferenza e a trovare piacere nella mia attività trovandovi anche molte fonti d'ispirazione per l'arte.

Non pensi che in molti casi, nei lavori che svolgiamo, ci sia un margine davvero ridotto di dialogo fra le persone, anche nel rapporto col pubblico, per cui le parole sono prioritariamente orientate dal tipo di lavoro che si fa, in molti casi orientate alla vendita di prodotti e comunque limitate dai tempi ristretti di scambio con ciascun cliente? E' vero che fra i pregi del lavoro è indiscutibile quello della socializzazione. Ma in molti casi si tratta di socializzazione distorta e ridotta nelle sue potenzialità dal lavoro stesso...

Sì, hai ragione, dipende molto però dal lavoro che si svolge e da quanto il contesto in cui lo si svolge faccia pressioni orientate esclusivamente ai risultati commerciali e soprattutto dal modo in cui li si voglia perseguire. Purtroppo anche la sanità non è esente da queste dinamiche; a volte stridono nettamente con l'etica dei suoi operatori che dovrebbero lavorare sempre secondo scienza e coscienza per alleviare le sofferenze delle persone. Ci sono alcuni contesti dove questo filtro etico non è possibile. Direi che capita maggiormente nelle multinazionali dove dietro delle mission bellamente impacchettate ci sono solo gli interessi di fantomatici azionisti cui interessa esclusivamente aumentare il capitale. Sono luoghi dove, se non ci si allinea, si viene isolati o addirittura più o meno velatamente mobbizzati. Poi dipende anche dal grado personale di sensibilità a certi meccanismi, dalla propria integrità; ci sono individui che, differentemente da noi che stiamo qui a parlarne con una certa dose di amarezza, si trovano perfettamente a proprio agio in questi ambienti. Non sono pochi purtroppo. Pochi e non coesi siamo noi che ci indigniamo, ma non sappiamo come organizzare una vera opposizione. Bisogna fare i conti anche con questo. Purtroppo se non c'è margine per cambiare le cose, meglio cambiare aria, anche se, in questi ultimi anni, semplicemente sopravvivere non è affatto scontato e semplice se si è dotati di una coscienza severa. E aria respirabile ce n'è poca.

Nel volume Lettere dal mondo offeso (L’arcolaio, Forlì 2014), in cui è contenuta una folta corrispondenza con Luigi Di Ruscio, mi pare che si possa intravedere una certa identificazione da parte tua con il vecchio poeta. A che cosa è dovuta, secondo te, quella grande simpatia-identificazione?

Luigi Di Ruscio, oltre ad essere un poeta per me tra i più sorprendenti, potenti e ispirati che il secolo scorso ci ha donato, ha rappresentato l'incarnazione perfetta di un modo di concepire la poesia e l'arte come strumenti di conoscenza dell'Uomo e di lotta verso le ingiustizie del mondo in cui viviamo. Lo ha fatto stando sempre non dalla parte degli ultimi, ma proprio tra gli ultimi. Quello che, però, ha fatto scattare da parte mia verso di lui ammirazione incondizionata e identificazione a livello ideale è stato quel suo modo unico di usare la poesia come una delle forme più esatte per comunicare, a partire dalla propria esperienza, le cose che si ritiene degne di testimonianza nella convinzione che questa possa portare a un accrescimento gnoseologico e spirituale per l’umanità. Tra le varie forme di follia possibili a questo mondo, questa è quella che sento a me più affine.

Nel tuo cortometraggio sull’Ilva di Taranto (I lavoratori vanno ascoltati, 2012) ho l’impressione che venga messo in relazione il fenomeno della morte sul lavoro con l’emarginazione di poeti e intellettuali dalla nostra società a capitalismo avanzato. Può esservi anche questa interpretazione?

Aldous Huxley scriveva attorno agli anni cinquanta: “Ci sarà in una delle prossime generazioni un metodo farmacologico per far amare alle persone la loro condizione di servi e quindi produrre dittature, come dire, senza lacrime; una sorta di campo di concentramento indolore per intere società in cui le persone saranno private di fatto delle loro libertà, ma ne saranno piuttosto felici.”. Credo che sia una predizione piuttosto azzeccata tranne in due passaggi però cruciali: per prima cosa questa “dittatura senza lacrime” si serve, oggi, di un metodo tecnologico e non farmacologico per “distrarre” i suoi schiavi dalla loro condizione e, secondo, questi credono di essere felici, ma molto raramente lo sono realmente. Questa infelicità non riconosciuta trova attraverso il corpo molti modi per manifestarsi; me ne accorgo ogni giorno facendo il lavoro di farmacista. Quelli che invece portano a un livello cosciente la violenza subita (la violenza di essere trattati da consumatori, da oggetti e non da persone e, come tali, bombardati di continuo da offerte di pacchetti di felicità e apparente libertà di facile appropriazione con al massimo qualche centinaia di euro) o trovano un modo per difendersi, mantenendo almeno un senso personale di ciò che conta davvero, o, nei casi migliori, si attrezzano per costruire una vita non prevista dal sistema stesso. Questa è una delle possibilità più faticose e irte di ostacoli e cadute, ma credo sia l’unica per restare con la sensazione di qualcosa di autentico e proprio tra le mani. Il ruolo degli intellettuali e degli artisti in tutto ciò? Credo che “la nostra società a capitalismo avanzato” , come tu la definisci, che (per me) esercita la violenza di cui sopra, ingloba in sé o, peggio, produce artisti che, se non la sostengono, le fanno comodo, così può dare l'impressione di essere democratica e di tollerare anche chi apparentemente la mette in discussione. Ecco allora la grandezza di artisti come Di Ruscio la cui produzione è stata veramente relegata a una sorta di clandestinità con cui “sputtanava”, attraverso il lavoro artistico, tutta l’ipocrisia di questo sistema vivendo in prima persona le sue contraddizioni più evidenti. Nel cortometraggio I lavoratori vanno ascoltati quello che ho fatto a livello conscio è stata la scelta di usare le parole di un mentore-padre quale era divenuto Di Ruscio (a cui mi legavo moltissimo durante il periodo delle riprese tra 2009 e 2010) per aiutarmi ad elaborare la perdita di mio padre naturale Antonio Tito, uno dei tantissimi tarantini morti di tumore per avere anche (probabilmente soprattutto) lavorato per un’intera vita nell’Ilva di Taranto. L'arte per me, ha sempre avuto anche una profonda funzione terapeutica e questo lavoro è stato uno di quelli in cui più di tutti ho sentito fortemente la trasformazione, potremmo dire la sublimazione del dolore in un’opera artistica dove, nonostante il senso di morte e desolazione inevitabilmente presenti, perché esperiti, si ha comunque un finale con un’apertura speranzosa. Però hai ragione, devo aver riversato molte cose anche a livello inconscio e questa relazione che osservi potrebbe essere una di quelle. Resta infatti certo che la speranza a cui alludo è essenzialmente legata al fatto che un artista neanche censito quale io ero, raccoglieva e tentava a sua volta di amplificare e segnare una continuità col senso del lavoro di un artista emarginato come Di Ruscio. Quindi una speranza tutta personale, passata dall’opera di un uomo ad un altro, ma forse capace di cambiare la vita di entrambi.

Sempre in quel cortometraggio reciti un frammento di una tua poesia-riflessione maturata durante un convegno farmaceutico: “… non importa se voi non leggete le poesie, perché sarà la poesia a leggervi tutti.” (Istantanea da Tutti questi ossicini nel piatto, pag 93). Qui la poesia è intesa (così vale in molti testi di Luigi Di Ruscio) come una forma di giustizia sociale, come sommo bene…

Questi versi sono l’esempio concreto dell’identificazione di cui parlavamo prima; della vicinanza di intenti e dell’uso del mezzo (che poi non è altro) poesia, con cui si può esprimere una visione, uno sguardo proprio sulle cose. Di Ruscio mi scrisse che questi versi avrebbe voluto scriverli lui. Addirittura sono stati citati proprio come suoi in più di una occasione perché condensano bene il senso della sua, chiamiamola, fede. Se ci pensiamo, in fondo, per quanto frustrante (per il proprio narcisismo) e doloroso (il dolore di sentire un profondo bisogno di comunicare cose che si ritengono di capitale importanza, ma che oggettivamente quasi nessuno accoglie), è molto più importante che i poeti leggano e traducano in poesia la complessità della realtà con la matrice unica della loro singolarità, rispetto all’importanza che questi dati vengano poi recepiti, compresi e, magari, ascoltati dalla maggioranza delle persone nell’immediato. Se il lavoro è stato compiuto con ostinazione, tenacia e rigore avendo come fine il solo amore del lavoro, sono certo che il tempo, poi, farà la sua parte per consegnare alla gente i suoi tesori. Non lo dico per snobismo, la poesia veramente non vorrebbe essere per poche anime elette, ma di fatto lo è. Può essere un’occasione per chi, per varie ragioni, la incontra; un’occasione sostanzialmente gratuita la cui natura intima si preoccupa poco del mercato, anzi non se ne preoccupa affatto. Inoltre la frustrazione del narcisismo e il dolore di dover sopportare un apparente fallimento, oltre a costituire occasioni di maturazione personale, sono anche garanzia di una fede incrollabile e spesso di autenticità di ispirazione. Che uomini saremmo oggi noi tutti (la maggioranza dei quali senza neanche saperlo) senza le opere che ci hanno lasciato i grandi poeti di ogni epoca? Quanti di loro sono stati compresi e celebrati in vita? Ma vorrei fare una precisazione: questi, più che avere tentato di avvicinarci al sommo bene, ci hanno avvicinato alla somma verità, colma di luci e ombre, dell’essere umano. Ecco, questo a me interessa veramente; verità che potrà sempre solo essere vagheggiata, sfiorata, ma pochi strumenti che abbiamo a disposizione possono farlo come la poesia. Poi, la giustizia sociale è impossibile, il sommo bene a livello collettivo è impossibile perché la specie a cui apparteniamo è imperfetta e spesso estremamente ingiusta; tuttavia di questa specie è anche l'utopia, la tensione ideale, la possibilità di percepire la differenza tra il bene ed il male e di essere responsabili delle proprie azioni. Questo non è poco; Hitler e Gandhi, che hanno avuto enormi influenze sulle collettività, sono stati entrambi uomini, ma hanno fatto un uso molto diverso delle loro esistenze scegliendo liberamente come condurle. Esisteva in Luigi Di Ruscio ed esiste in me, mentirei a negarlo, un afflato molto forte in senso umanitario quindi, poiché questa caratteristica è molto radicata nella nostra natura, la nostra poesia (molto diversa per aspetti linguistici e stilistici) non può che esserne espressione. Leggendo ormai da tanti anni tanta scrittura in versi mi accorgo che questa è sempre traccia significativa del modo di vedere il mondo dell’autore, della sua profondità e complessità, delle sue contraddizioni, ma soprattutto del suo modo di stare al mondo, che è , di fatto, la cosa più importante perché incide direttamente nel suo intorno con le sue scelte e i suoi gesti.

In almeno due momenti di una tua intervista che ha per tema l’epistolario diruscesco sottolinei la valenza positiva della poesia e della scrittura in generale: “Di Ruscio dimostra con la sua scrittura che essa può essere strumento di resistenza umana in un pianeta prevalentemente disumano, che può avere una funzione formativa e strutturante pari a poche altre cose e che, se costruita su queste solide basi, finisce con l’avere un inestimabile valore di testimonianza e di speranza per quanti si avvicinano ad essa. Ditemi se oggi non è di questo che abbiamo bisogno…”; “… un’altra cosa che io ho amato moltissimo nella sua opera è che, senza rinunciare a denunciare e a indignarsi degli aspetti più brutali e inquietanti della nostra società, riusciva sempre a scrivere di qualsiasi cosa con un fondo d’ironia e dei tratti a volte esilaranti. Per Luigi la scrittura era una gioia terapeutica, una necessità che gli consentiva di sognare, di reinventare il mondo e meglio sopportare la sua dura vita di operaio.” (www.versanteripido.it fanzine online per la diffusione della poesia).

Credo che stiamo vivendo un momento di transizione epocale dove la crisi economica sia solo la punta di un iceberg. Per sperare in un’uscita virtuosa e convertire il pericolo in opportunità, si spera collettiva, ma almeno personale, è necessario avere consapevolezza e struttura. Poche cose, come la vera letteratura e la vera arte, ma soprattutto l’impegno attivo, lo studio appassionato, una curiosità sempre viva e una manutenzione continua possono fornire questi mezzi. Werner Herzog, per tornare a uno dei miei registi e intellettuali preferiti, in un’intervista rilasciata recentemente afferma ad esempio a proposito della rete: “Internet non ha struttura. Ma la struttura deve essere in te. Per capire le cose devi capirne la grammatica. Solo così riuscirai a muoverti in questa massa amorfa di informazioni. Per farlo devi avere una struttura culturale, ideologica, informativa ed è quello che manca soprattutto ai più giovani perché non leggono abbastanza. Questo vale anche per i film. La cosa che deve essere postulata è leggi, leggi, leggi. Se non leggi non puoi essere un uomo di cinema. Puoi essere un mediocre cineasta, ma non un grande uomo di cinema. Devi leggere. Questa mancanza di grammatica culturale è una delle ragioni per cui la gente oggi vive con un continuo senso di perdita. In Internet perdono se stessi e perdono le cose.”. Io direi che Herzog coglie pienamente il rischio paradossale che un’invenzione grandiosa e di cui non abbiamo ancora introiettato la reale portata evolutiva come la rete, possa annichilire definitivamente le nostre (spesso vuote) vite se prima non abbiamo imparato a costruirci come uomini con uno sguardo critico e dei valori in cui credere. E’ vero che i giovani sono i più esposti perché ormai hanno accesso con gli smartphone a partire dalla preadolescenza a un mondo praticamente infinito e non filtrato di informazioni, immagini, video. In quella età evolutiva la loro identità è in continua costruzione-trasformazione e non sono certamente in grado, spesso, di discernere di cosa sia meglio nutrirla. Noi adulti siamo attrezzati per aiutarli?

E’ molto ben rappresentato, al contrario, il senso di morte, di occasioni perdute, di talento sprecato che si respira nella nostra società e contenuto in questa poesia della tua raccolta: "Ho degli occhi strani in questo periodo, simili a quelli di/ conigli appesi ai ganci di una macelleria di paese./ Senza più viscere né pelle racchiudono tutta la forza della/ vita che li ha attraversati in quegli occhi gelidi e severi per chi/ li guarda. Non capisce l’animale eppure sa. " (Tutti questi ossicini nel piatto, Zona, Arezzo 2010, pag 38).

Se c'è una cosa che sento chiaramente in mezzo a una miriade di dubbi è che ogni persona ha delle risorse, dei talenti e il non individuarli, coltivarli e renderli fruttuosi è probabilmente lo spreco più irrimediabile di una vita. Qualcosa di cui forse è meglio neanche rendersi conto per la portata rovinosa che può avere tale consapevolezza soprattutto se improvvisa e irreparabile come accade nell'Ivan Ilic di Tolstoj nel momento del trapasso. Vivere il proprio tempo, essere qui e ora, è un prodigio verso cui dovremmo tenere sempre con coraggio gli occhi ben aperti. Perché con coraggio? Perché non vedremo solo cose belle, ma avremo visto la vita. Non esiste altro senso nell’esistenza di ciascuno se non quello che ognuno decide di darle. Rispetto all’animale noi capiamo, ma spesso non sappiamo. Sembra un paradosso, ma credo che non lo sia.

Tuttavia, anche dal lavoro più insignificante e abitudinario ci possono venire osservazioni interessanti sulla vita e sui costumi del nostro tempo. A proposito dell’uso/abuso degli psicofarmaci oggi tanto in voga scrivi: mio padre è morto a sessantuno anni “grazie all’insonnia” mi ha detto ridendo anche in punto di morte “li ho fottuti tutti: ho campato cent’anni!” e poi è morto vivo cosa piuttosto rara e rideva anche da morto spegnere con potenti sonniferi ogni stralcio di vitalità soffocare sul nascere ogni domanda scomoda del corvaccio di dentro spenti in pace orrenda accomodàti in orribile cimitero vivente (ibidem, pag 83).

Il problema non è il lavoro insignificante e abitudinario, ma il rischio (elevatissimo al giorno d’oggi per molti motivi) che si spenga la testa e l’anima del lavoratore. Il rischio, se non arginato e contrastato con una ferrea volontà quotidiana è grande per chiunque, anche per chi apparentemente svolge i lavori più gratificanti. Ho avuto la fortuna di conoscere nella mia vita ultraottantenni e novantenni capaci di contagiare con la loro vitalità a cominciare da mio nonno materno che a ottanta anni è andato a vivere da solo in campagna per coltivare la terra, allevare gli animali e scolpire la pietra fregandosene del risultato estetico e di chi gli dicesse che era follia. Mio nonno, lo ricordo bene, a ottant’anni diceva: “questo è il paradiso”. Poteva anche non dirlo, glielo si leggeva nella felicità dei gesti quotidiani. Molti non hanno avuto per niente vite semplici e non sempre hanno fatto i lavori più appetibili, ma sono riusciti a realizzare autentiche opere d’arte delle loro esistenze. Mio padre non ha avuto la fortuna di arrivare a ottanta anni, ma è stato un uomo certamente “morto vivo” a sessantuno. E’ già un grande risultato vista la quantità di vivi morti che ci circonda e a volte scoraggia. Quanto all’uso degli psicofarmaci, posso dire che sono una delle classi di medicinali più utilizzate e, spesso, abusate. In molti casi bisogna rallegrarsi dei progressi della ricerca farmacologica perché i medicinali, se usati con consapevolezza e solo in risposta a una reale necessità, possono aiutare davvero, ma, di questo sono sicuro, e non perché sono un farmacista: possiamo scordarci che la felicità sia racchiusa in delle pillole.




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