Sorgevano
dubbi che fosse ormai completamente oscurata e superata da cinema e serie
televisive, soffocata da tonnellate di libri di consumo e di scarsa qualità,
nascosta e talvolta introvabile negli stessi luoghi dove la si cercava, tradita
da mecenati e investitori ad altro interessati, ignorata da sempre maggiori
quantità di persone, strette dal bisogno e occupate unicamente da problemi di
lavoro e sopravvivenza … ma nonostante le condizioni avverse resiste, anche se
molti non lo sanno, non vengono informati. La letteratura è viva e lotta
insieme a noi! Lo testimonia per esempio Antoine Volodine, autore francese di
origine russa, col libro Des anges
mineurs, Angeli minori, per cui è
risuonata da più parti la parola ‘capolavoro’ (“Angeli minori ha tutte le caratteristiche del capolavoro: potenza,
forza evocativa e visionarietà”, The Literary Review), tradotto in italiano da
una piccola casa editrice, L’orma editore (Roma 2016).
Che
cosa mi fa esclamare con entusiasmo che si tratti di un’opera letteraria degna
d’ammirazione?
Innanzitutto
la forma.
L’autore
non si è limitato a inserirsi in canali narrativi convenzionali e lineari. Ha
inventato il genere narrat:
“istantanee romanzesche che fissano una situazione, delle emozioni, un
conflitto vibrante fra memoria e realtà, fra immaginazione e ricordo” (pag 6).
Più nello specifico i narrat che compongono il testo, queste apparizioni degli
angeli minori, che all’interno della letteratura italiana potremmo associare in
qualche modo a Se una notte d’inverno un
viaggiatore di Calvino o a Centuria
di Manganelli, sono “immagini organizzate su cui si fermano, nella loro
erranza, i miei mendicanti e i miei animali preferiti, nonché qualche vecchia
immortale”. E con questo arriviamo a un altro generatore di potenza del libro:
il mito inventato. L’invenzione intorno a cui ruotano le immagini, le
sensazioni e narrazioni dei personaggi minori eppur protagonisti è la seguente:
in un paesaggio desolato da fine del mondo, mentre l’umanità e molti animali
sono in corso d’estinzione, per motivi imprecisati ma continuamente allusi come
una guerra feroce mai finita fra capitalisti e comunisti, esalazioni o piogge
di materiali tossici diffusi ovunque, un gruppo di donne pluricentenarie,
divenute involontariamente e inspiegabilmente immortali, decide di unire le
proprie forze magiche, sciamaniche o divine per dare la vita a un bambolotto di
stracci “incubato” in un letto nel segreto di una casa di riposo
semiabbandonata.
Il futuro semidio, indottrinato fin nella culla, dovrà riportare nel mondo in pieno disfacimento un sistema sociale improntato alla solidarietà e alla fratellanza in grado di far rifiorire una vita vivibile sulla terra. Poiché vi è qualcosa d’imprevedibile nelle conseguenze delle nostre azioni, l’eroe farà tutto il contrario di quello che le sue madri-nonne desideravano, supponendo che sia la libera iniziativa, l’impresa capitalistica la forza capace d’imprimere dinamismo a tutto che è. Passati alcuni decenni, continuando a peggiorare le condizioni di vita sulla terra, le vecchie decidono di arrestare e condannare a morte la loro creatura. L’esecuzione però viene continuamente rinviata dal pentimento del colpevole e dai narrat che egli, novello Sherazade, comincia a raccontare. Il tempo trascorre in mezzo al bestiame e alle tende di queste dee nomadi tornate allo stadio in cui l’umanità era formata da gruppi sparsi nelle steppe e nelle pianure, mentre l’eroe narratore viene risparmiato e una anziana delle più convinte decide di partire per andare a uccidere gli ultimi capitalisti e portare a termine il suo piano salvifico. Sembra riuscire nel suo intento e dalla figlia di colui che è creduto l’ultimo capitalista verrà concepita una bambina, anch’essa messa insieme dalla sola madre in qualche modo con l’aiuto di un veterinario.
Il futuro semidio, indottrinato fin nella culla, dovrà riportare nel mondo in pieno disfacimento un sistema sociale improntato alla solidarietà e alla fratellanza in grado di far rifiorire una vita vivibile sulla terra. Poiché vi è qualcosa d’imprevedibile nelle conseguenze delle nostre azioni, l’eroe farà tutto il contrario di quello che le sue madri-nonne desideravano, supponendo che sia la libera iniziativa, l’impresa capitalistica la forza capace d’imprimere dinamismo a tutto che è. Passati alcuni decenni, continuando a peggiorare le condizioni di vita sulla terra, le vecchie decidono di arrestare e condannare a morte la loro creatura. L’esecuzione però viene continuamente rinviata dal pentimento del colpevole e dai narrat che egli, novello Sherazade, comincia a raccontare. Il tempo trascorre in mezzo al bestiame e alle tende di queste dee nomadi tornate allo stadio in cui l’umanità era formata da gruppi sparsi nelle steppe e nelle pianure, mentre l’eroe narratore viene risparmiato e una anziana delle più convinte decide di partire per andare a uccidere gli ultimi capitalisti e portare a termine il suo piano salvifico. Sembra riuscire nel suo intento e dalla figlia di colui che è creduto l’ultimo capitalista verrà concepita una bambina, anch’essa messa insieme dalla sola madre in qualche modo con l’aiuto di un veterinario.
Nell’ultima
pagina dell’opera si accenna a un concepimento fra uomo e donna, tuttavia in molti
punti chiave del romanzo emerge l’idea che le maggiori (se non le uniche)
portatrici della vita e del bene siano le donne, pur sempre nell’estrema
precarietà del tutto.
Vi
sono personaggi fra gli angeli minori che anelano a donne eternamente sfuggenti
o scomparse, cercate, ritrovate, sognate, perdute di nuovo. Viceversa vi sono
donne fra gli angeli minori che non smettono di ricordare e sognare uomini
amati, un tempo scrittori, combattenti, perseguitati per la causa
dell’eguaglianza. Fra gli innamorati si possono instaurare momenti di grande
comprensione e fusione (“per il tempo di un’oscillazione eravamo posati sul
confine delle parole, stando in silenzio e vibrando insieme, pronti al
reciproco incontro mentale”, pag 86), ma anche d’improvvisa estraneità (“nella
luce del sole nascente mi appariva di colpo animata da pensieri e da ricordi
inaccessibili, estranei. E tutto era di nuovo come all’inizio, difficile da
credere.” pag 88).
Sopravvissuti,
sebbene a pochi passi dal nulla, compaiono diversi animali, considerati alla
stregua degli uomini, di pari dignità, dotati di nome e cognome. L’unico amico,
l’unico affetto che l’eroe Will Scheidmann ricorda della sua avventura fra gli
uomini è un cane ed egli stesso in un narrat sostiene di essere morto nelle sembianze
di un lupo. Qui si apre un altro ampio e profondo tema del libro: quello
dell’identità. Abbiamo detto che l’eroe stesso in un narrat dice di essere
morto in forma di lupo mentre all’apparenza, con gli occhi degli altri
personaggi, egli è sempre più simile a una pianta, ricoperto come si ritrova di
escrescenze cutanee simili ad alghe. In un altro narrat una narratrice di romance afferma di sognare di essere lei
stessa Scheidmann, anzi di esserlo a un certo punto diventata. Altri personaggi
entrano ed escono da sogni e da incubi che per loro sono più reali del reale.
Accanto
ad essi, la regressione delle società umane a forme di vita povera e primitiva
mostra scene orribili, come la brutalità delle continue uccisioni reciproche e
un cannibalismo diffuso, soprattutto nelle città abbandonate, dove
l’attraversamento di strade e quartieri assume perfino i caratteri di
un’esplorazione in mari sconosciuti e mortali (con qualche ironia, poiché
alcune azzardate esplorazioni, che costano vite e terribili atti cruenti,
approdano in zone improbabili in cui la vita è rimasta come prima, come se non
si profilasse all’orizzonte nessuna estinzione o guerra o carestia e non ne
fosse giunta nemmeno notizia; così come in alcuni punti si parla di strade
percorse da auto e da bus come prima: quasi che l’autore abbia voluto mostrare
un rovescio della medaglia, la nostra società com’è ora, ignara di trovarsi
sull’orlo di un baratro).
La
comunità tribale delle anziane dee-pastore di pecore e cammelli in ogni caso
rappresenta uno dei paradisi terrestri possibili. Qui regna la lentezza. Gli stessi narrat sono
statici, dipingono situazioni più che storie e la fabula retrostante si
intravede e compone molto gradualmente.
“Scheidmann,”
domanda a un certo punto una delle giustiziere al figlio-nipote, “perché ci
abbindoli con questi strani narrat? Che cosa sono? Perché strani, poi? Perché
sono strani?”, alludendo forse all’incompiutezza e all’enigmaticità di alcuni
di essi. Questi vorrebbe “urlare attraverso la notte calda che la stranezza è
la forma che prende il bello quando il bello è disperato” (pag 93), ma
preferisce tacere.
In
un altro momento ne parla invece come di “luoghi in cui coloro che amo possono
riposarsi un istante prima di riprendere il cammino verso il nulla” (pag 6).
Pubblicato su Nazione indiana il 18.11.2016
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