venerdì 13 novembre 2015

Dialogo su Giocare a mangiarsi con l'autore Mariano Bargellini

R.S. Quali suggestioni letterarie hanno avviato il motore della fabula di questo romanzo sugli insetti digitali di un videogioco, traboccati dagli schermi, inspiegabilmente, nella realtà? Come non pensare (ma forse è fin troppo facile e semplicistico e vago: dunque fuorviante) a La metamorfosi di Kafka…

M.B. Di fatto, La metamorfosi di Kafka, per quello che io ne so, è il primo ed è rimasto, fino ad oggi, l’unico esempio di metamorfosi in insetto della letteratura. Ivi inclusa la fiaba di magia. La storia di Gregor Samsa, ciò detto, non ha in verità proprio niente in comune con questa di Giocare a mangiarsi. Qui la classica (ma del tutto nuova) perdita del sembiante umano ha delle modalità delle cause una cornice ed un senso (o meglio dei sensi) alquanto diversi. In primo luogo: la iattura, temporanea o definitiva, qui riguarda non già una persona, il protagonista del racconto, ma tutti. Secondariamente, causa del fenomeno da incubo è un videogioco. E ancora, che tale fenomeno, cioè la metamorfosi del giocatore nel proprio avatar entomologico: alter ego il più alieno dall’umanità e maschera da idolo di un computer game nefasto; sia una minaccia incombente ogni giorno sopra di te, e poi, a un tratto, ti piombi addosso davvero, iattura paventata inspiegabile e inaudita, è denegato dai più. Addirittura dalla maggioranza. Forse da tutti, escluso il fabulatore. E per concludere: Giocare a mangiarsi, quanto al suo carattere, si presenta come una storia comica e quanto al genere come un romanzo fantascientifico satirico. Tranne il finale, repentino e catastrofico. La metamorfosi di Kafka è una catastrofe, vuoi figurale vuoi esistenziale, dalla prima all’ultima riga.

R.S. Tu però sei solito affermare che la lezione di Kafka è stata fondamentale per te. Se ce lo spiegassi, e lo mettessi in chiaro, ora, una volta per tutte…?

M.B. La lezione di Kafka, per il fabulatore di Giocare a mangiarsi, io la compendio in questi tre insegnamenti. 1) Il personaggio anonimo e senza volto emerge da un passato nebbioso. In pratica non ha passato. Come Josef K. nel Processo e K. nel Castello. Sembra che sia circoscritto, e là confinato, in un presente assoluto benché effimero, mutevole, fuggente, rovinoso, e al tempo stesso immobile. Il suo fato (e quello degli altri personaggi con lui), pur nella varietà degli accidenti comici, dei colpi di scena reali e virtuali, e nonostante le rivelazioni ambigue, enigmatiche, e i cambi di prospettiva deliranti risultato dei dibattiti paradossali; il suo fato appare già segnato, già pronunciato. E in attesa di compiersi. 2) La fabula (paradossale, meravigliosa, e nondimeno dentro la realtà e la contemporaneità) diventa subito psichica: le immagini subiscono una sorta di rifrazione e distorsione, deragliano dal mondo delle cose. E s’inabissano nella psiche. Immagini mentali. 3) La narrazione trasposta: cioè i fatti, i dati, divergono dal piano letterale verso piani ulteriori. Quasi per un gioco di specchi. Quasi in fuga verso l’infinito. Paradigma di queste tre caratteristiche, il sogno. Il fabulatore di Giocare a mangiarsi, io sostengo (non si tratta di un paradosso), è, ciò nonostante, il meno kafkiano tra gli scrittori italiani d’oggi. Tra i postmoderni, intendo, che lo frequentano, Kafka, e lo citano sotto enigma. Non è kafkiano, lui. È uno, piuttosto, che (l’abbiamo dimostrato) risente della lezione di Kafka. Più che non càpiti a nessuno di loro. Lui, infatti, non è postmoderno. Lui è, al contrario, un pervicace un incorreggibile fabulatore di ricerca. Uno di area sperimentale. È neonovecentista. A Kafka, l’inimitabile, noi fabulatori sperimentali e di ricerca guardiamo come a una guida. O a un apripista.

R.S. Poco fa hai catalogato Giocare a mangiarsi nel genere fantascienza. Satirica, hai specificato. Antonio Caronìa, esperto di fantascienza e traduttore di Philip Dick, letto il manoscritto, si espresse in modo più sfumato. O no?

M.B. Ma sì, è così. Nella lettera scheda che mi mandò, e che avrebbe dovuto servire da schema e da base per la prefazione di Giocare a mangiarsi, Caronìa si domandava se questo romanzo fosse da assegnare alla fantascienza. E si rispondeva: “non in toto”. William Gibson, negli anni Ottanta, fu accusato dalle riviste specializzate americane di non aver pratica del virtuale. Cioè del mondo che entrava nelle sue storie. Notizia che appresi da Antonio Caronìa. Stessa accusa avrebbe potuto rivolgersi a me. Con una differenza, che le storie di W. Gibson sono comunque interne al genere, pur nella loro eterodossia. Laddove questa di Bargellini, egli mi scrisse, ne sconfina. Ma, con un colpo di coda, alla fine del paragrafo Caronìa faceva rientrare dalla finestra quello che aveva appena congedato sulla porta. W. Gibson, tal e quale come avrei potuto fare io, aveva obiettato ai suoi censori che la realtà virtuale gli interessava solo come metafora. E il mio lettore espertissimo aggiungeva: Giocare a mangiarsi appartiene a certa fantascienza letteraria (ed episodica) del Novecento italiano. Si pensi a Cancroregina di Landolfi. Antonio Caronìa prese sotto il suo interessamento il mio manoscritto. Ma andò a cozzare contro la timidità e l’ottusità del ceto impiegatizio editoriale italiano. Ciò avveniva dieci anni fa. Dopo qualche anno il mio Pigmalione dovette arrendersi. Adesso, inopinatamente, Giocare a mangiarsi viene pubblicato. Da Giovanni Giovannetti (Effigie edizioni) e inaugura questa sua scommessa: la collana il Regisole, spazio aperto alla narrativa di ricerca. Anzi riservato alla narrativa di ricerca. La svolta, grazie a una tua iniziativa ardita e secondo me ispirata. Ma aspettiamo a rallegrarci che la letteratura alla fine abbia vinto. Io già prevedo la disattenzione dolosa dell’ambiente. Tutti, o quasi tutti, d’accordo a oscurarla, a condannarla al silenzio un’opera così fuori dai canoni, loro e del mercato, scomoda singolare smagliante. Osteggiata, è prevedibile, dal luna-park della vanità (e degli equivoci) e dai suoi teatri d’automi.

R.S. Lasciamo perdere, almeno per il momento, i tuoi eroici furori (e inani) contro l’establishment. Vorrei che ci illuminassi invece su qualcosa, a mio avviso, di molto più importante, caratterizzante ed unico nel tuo testo: l’ossimoro di fondo, quella figura retorica dell’antitesi, a cui Giocare a mangiarsi sembra ubbidire. L’ossimoro è questo: da un lato il massimo della contemporaneità oggi filtrata dalla nostra cultura in un romanzo (di certo italiano, ma forse non solo italiano), cioè la realtà virtuale e i videogiochi, nel nostro caso un computer game ossessivo e ferale; dall’altro, per antitesi, il massimo della letterarietà nella elocuzione, e quegli arcaismi e latinismi, da antiquario della lingua…

M.B. La contraddizione di fondo tra lo stile e l’argomento di Giocare a mangiarsi, che tu hai rilevato, in partenza è stata affatto casuale. È il mio stile, quello. Basta andare a leggere un paragrafo di uno qualsiasi dei miei tre libri precedenti, Mus utopicus, Del simulacro perso nei sogni, La Setta degli Uccelli. Quando ho cominciato a scrivere Giocare a mangiarsi, l’idea fantascientifica (“non in toto”), l’idea, la metafora l’allegoria, col marchio della contemporaneità, dalla quale io ero stato attraversato, dové adattarsi essa al mio stile. Non, viceversa, lo stile arcaicizzante adattarsi, lui, alla contemporaneità angustiosa feroce e meccanica della fabula. Dopo di che, con il procedere della scrittura, suppongo d’essermi accorto e d’essermi compiaciuto dell’effetto nuovo. E dei vantaggi di quest’ossimoro infinito. Lo choc dovuto a una simile stonatura, ovvero il disaccordo tra lingua e argomento, suscitava in me un senso di lontananza filosofica dalla storia e dai suoi accidenti meravigliosi. Una filosofica e poetica lontananza.

R.S Ma lo spaesamento del lettore? Non pensi al lettore, quando scrivi?

M.B. No. Se ci pensassi, al lettore, smetterei di scrivere.

R.S. Non si può dire che tu vezzeggi il lettore. O che gli strizzi l’occhio. Ogniqualvolta lo apostrofi, sembri quell’oste romano che insultava i suoi clienti, con loro spasso. Si veda Il miracolo della mosca (capitolo terzo) o Giocare a mangiarsi (capitolo primo, quello che dà il titolo al romanzo). Per esempio, dove dici (ecco qua): “Ehi te, lettore babbuasso o babbaccione, e te, lettrice babbalocca o tarlocca, ecc.”

M.B. La voce narrante, la voce che declama e s’interroga, che dialoga con le persone della fabula, e che apostrofa i lettori, quasi un cerretano, un istrione, clamante in un teatro vuoto, suo palcoscenico la pagina, uno che dialoga con le ombre: sicché il soliloquio di un pazzo; volevamo dire, questa è la voce di un paradossologo, il lettore callido lo ha capito. La tradizione ci viene dall’antichità; quindi gli oratori bizzarri, in specie gl’intessitori di elogi paradossali, migrarono in certe accademie, in temperie barocca, e là declamarono. Ricordiamo l’Accademia degli occulti, a Brescia. Nel nostro secolo, poi, non spunta fuori Manganelli? Salvo le impertinenze giocose da lui rivolte al pubblico dei suoi lettori, nel teatro vuoto del suo studiolo (inusitate da Manganelli), il fabulatore di Giocare a mangiarsi dev’essere un tipo del genere. Orazione funebre della mosca (capitolo settimo), con i suoi echi parodici delle orazioni funebri di Bossuet, e del quaresimale del gesuita padre Paolo Ségneri; l’orazione funebre per una mosca vien pronunciata in chiesa da un paradossologo montato in pergamo, si dice, su invito della curia.

R.S. E siamo alla fortezza di parole. L’ho definito così il tuo testo, nella quarta di copertina, tanto ci appare saldo nella sua fattura verbale artificiosa. Compatto, compiuto, inespugnabile. Non sarà il caso di parlarne, finalmente, della lingua di Giocare a mangiarsi?

M.B. Una immagine ben trovata. E uno slogan promozionale: ”fortezza di parole”. Giocare a mangiarsi dà l’impressione, effettivamente, di arroccarsi contro l’assedio della lingua d’uso, dei media, munito di sue mura e torrioni a somiglianza di un castello medievale. Fuor dall’immagine: è la ricerca antiquaria, è il recupero ed il rilancio delle parole desuete, cadute in oblio con impoverimento dell’italiano e della sua capacità espressiva, andate a ripescare dall’autore di Giocare a mangiarsi; sempre che l’orecchio di un filologo (anche, un po’, d’un latinista, va da sé) l’avverta ch’è sostenibile il repêchage; è il differenziale linguistico, dicevo, ossia lo scarto dalla lingua d’uso, il gran segreto, secondo me, della fortezza di parole. L’intarsio, da mosaicista, di vocaboli d’ogni registro, e d’ogni secolo, si avvale di una sintassi altrettanto varia. Deleuze, nel suo commento alla sentenza di Proust: Les beaux livres sont écrits dans une sorte de langue étrangère, indica nella sintassi propria di quel certo prosatore la causa dell’effetto, perché, ad esempio, il francese di Proust, all’orecchio dei francesi, dia un suono mai udito prima. Meditate, gente. Dico a voi, abolitori della sintassi. Il volgo dei vostri followers, all’evento, vi applaude. Vi fa festa: oh! gl’inventori dello stream of consciousness, oh! l’avanguardia rétro. Ma la ricerca, lo sperimentalismo, esigono acume, amici.

R.S. Sei solito definirti fabulatore coi dadi. Spiegaci in che cosa consiste il tuo giocare ai dadi, quando scrivi. Da questo fatto ancora da spiegare, ossia che Giocare a mangiarsi è una fabula aleatoria; ecco, forse da ciò, dipende il suo procedere a quadri? Sembra che, per un fenomeno carsico, la fabula non scorra in superficie, visibile, bensì, incavernatasi, fluisca invisibile nelle profondità, ma sia segnato il suo percorso e come celebrato, per una festa, da una messa in scena di eventi, da un proliferare di quadri, slegati ma a ben guardare connessi, e che alludono a quella storia, da entomologo e moralista, di uomini e di insetti: fabula sotterranea, sommersa…

M.B. Ortega y Gasset, in un suo excursus sopra l’arte del romanzo, ha detto una cosa memorabile: Cervantes, egli nota, mette in scena don Quijote e Sancho Panza. Non gl’interessa raccontare la loro storia. Con suo stupore, leggiamo nello stesso paragrafo, Ortega y Gasset, conversando con dei giovani romanzieri spagnoli, ch’egli non nomina, si rese conto d’una superstizione, o dicasi fissazione, secondo lui la più nociva e acritica, per un romanziere del Novecento, da cui costoro erano attardati: cercare una storia. Senza di che non parte un romanzo, si pensa. Come convincerli, quei giovani romanzieri, a ritirarsi in una grotta (s’intenda nella immaginativa), poiché saranno visitati, là dentro, da tutte le visioni e tentazioni ch’esalano e soffiano dall’inconscio, dall’universo mondo, invero: ed esse prenderanno corpo, corpo sottile immaginativo, in quella loro grotta d’eremiti. Io vi consiglio di rileggere Flaubert (ora si è intromesso il fabulatore coi dadi): La tentation de saint-Antoine. Erano gli anni Venti del secolo scorso, allorché Ortega scrisse il suo breve saggio sul romanzo. Oggi s’è oscurata tanta lucidità. Si continuano a raccontare storie, piatte e soffocanti e carcerarie, secondo il mercato comanda. Pas besoin d’une histoire, une histoire n’est pas de rigueur, dice un personaggio di Beckett. Sarebbe da approfondire ‘sta cosa: la pervicacia a raccontare una storia, qualunque storia, dei romanzieri da televisione, e l’ombra, sul romanzo, della sottocultura. Anzi, le luci: sfolgoranti siderali sulle discariche d’eccellenza. Studi televisivi, appunto, vetrine di librerie, scaffali di supermarkets.

R.S. Torniamo, se non ti spiace, a Giocare a mangiarsi.

M.B. Il suo autore (così detto), e qui concludo, giusta l’insegnamento d’un tal maestro, piuttosto che raccontarci una storia, una idea mette in scena. Ortega y Gasset, è certo, avrebbe approvato. Ed ingannandosi, ahimè, trarrèbbe degli auspici, dalla lettura del libro, fausti, circa la svolta del romanzo, vicina. Lui, il fabulatore coi dadi, si era cominciato a dire, non c’intrattiene con una storia, una idea mette in scena. Nel senso greco, visivo, non già astratto, concettuale, del termine: una idea sfaccettata, come gli occhi, come i bui ocelli degl’insetti. L’idea-metafora, l’idea-allegoria di un computer game dove si gioca a divorarsi, anonimi, ciascuno occultato ai suoi competitores da una maschera entomologica. Distinta in diversi quadri, non raccontata, propriamente, ma assemblata alquanto a caso, la fabula. Fabulatore coi dadi. Giochi ai dadi?, tu mi domandi. Seduto a tavolino, al computer? La storia, e perfino le frasi, procedono a colpi di dadi? Giocare a mangiarsi, dato che è un romanzo frattale, è franto, ex necessitate. Ed aleatorio. Le fiamme di un incendio, le nubi, una tempesta, il profilo di un fiordo o di una costa quale che sia, e i fiocchi di neve o di polline, sono esempi di figure frattali addotti dal loro investigatore, da Benoît Mandelbrot: a essi non è indebito paragonarlo, vuoi per la loro forma, non euclidea, vuoi per lo stesso formarsi loro, caotico in certa misura, e casuale, oltre qualunque standard; è lecito paragonarlo un simile romanzo, Giocare a mangiarsi. Gli elementi caotici, anzi il caos immesso nel suo prodotto verbale immaginale da un fabulatore siffatto; il caos della sua fabula, e da cui sono terremotati i suoi periodi, fa che si debba assegnarlo al neobarocco (nel senso di Omar Calabrese) l’autore in parola. Ma questo caos, non mica simulato, vero e sotterraneo, è governato da chi ne sembra in balìa: l’arte retorica, gli artifici tecnici, lo domano e piegano ai suoi scopi. In verità, al finalismo ignoto della idea formante del testo.

R.S. E delle “forme informi” del matematico René Thom? Parliamone, giacché le metamorfosi in insetto, definitive o momentanee, singole o collettive, biologiche o virtuali, accadono in Giocare a mangiarsi. In una metamorfosi, l’indugio labile e catastrofico in una forma che sfuma e già l’imporsi d’un’altra, fa, per un attimo, che coesistano le due forme, e siano, in un certo modo, informi. La breve metamorfosi di Olimpia in non ricordo più che coleottero, durante una cena al ristorante Timé, ha forse, come suo modello e legge, la teoria delle forme informi?

M.B. Acconcia conclusione dell’intervista. Però, adesso, io taccio: prima che certi miei avversatori, gente che nicchia e dormicchia, svegliati dalle nostre voci non vengano a curiosare nella mia nicchia.



Nessun commento: