lunedì 10 novembre 2014

Romanzi come luoghi

Mi piacciono i romanzi simili a luoghi più che a tempi. Non come dono di tempo, di storie (Ricoeur), ma come dono di luoghi dove aggirarsi, dove ricevere stimoli, dove abitare. Mi piace l'idea di scrivere un romanzo come abitare un luogo. Nel momento in cui si scrive o si legge, non si agisce. Il fatto di non agire introduce al pensiero. Romanzo come abitare un luogo in cui si pensa o in cui ci si lascia andare come in un labirinto. La forma morbida, flessibile, che a tratti può farsi dispersiva, svagata, onirica, fluida per inseguire un pensiero o un reale che sfugge. Il contrario di storie che tornano come conti che tornano. Attenzione fluttuante.
Alla condizione più generale della scrittura e del pensiero come azione bloccata o rimandata, progettata, comunque non posta in essere, si aggiunge che la nostra è un'epoca di sconfitta dell'azione. Sconfitta per alcuni grandi fallimenti di progetti concepiti nei secoli precedenti e nel Novecento audacemente sperimentati e naufragati. Dopo il crollo del socialismo reale (o del capitalismo di stato), vediamo ora come la democrazia appaia ridotta ai minimi termini e quasi messa definitivamente nell'angolo. Postmoderno, società dei servizi, società dello spettacolo, società dei consumi, capitalismo non più industriale ma finanziario, ecco il contesto in cui all'homo faber si è in larga parte sostituito un essere umano passivo, consumatore e per giunta ultimamente indebitato, in debito, sottoposto a pressioni di entità enormemente potenti e poco definite. E' un uomo fermo, che non può che riprendere a pensare  o a girare intorno al pensiero cercando di afferrarlo, per essere in grado un giorno forse di riprendere ad agire.
Ecco alcuni motivi per cui la rigorosa narratività, con le sue esigenze di tempi incalzanti, di ritmo serrato, sebbene sia molto richiesta oggi dal mercato editoriale, non rappresenta a mio avviso l'esigenza più importante della prosa contemporanea. I romanzi d'azione, come i film d'azione, possono fornire soltanto un surrogato di qualcosa che manca profondamente nella nostra vita, con effetto placebo. Invece sarebbe da indagare perché non si agisce o perché si agisce così poco o perché si agisce con esito fallimentare.
Romanzi orizzontali, romanzi che offrono stanze come luoghi di riposo, di pausa, di dormiveglia,  di sprofondamento dentro se stessi, anziché d'azione, giochi di specchi fra i personaggi...


Una mia trilogia inedita.
Trilogia della scomparsa

I romanzo della trilogia
TITOLO       Il corpo della casa

Il corpo della casa è strutturato come una piantina d’appartamento, presentando i capitoli come metafore delle varie stanze: un corridoio stretto, una stanza da letto, un salotto e così via. In ognuno di essi la protagonista Martina vive una situazione differente; per esempio, in “Letargo”(la stanza da letto) è riportato il dialogo  con un artista suo ospite. Nell’ultimo capitolo, “Sgabuzzino/Risposta della casa”, è la casa stessa che parla (ça parle, direbbe Lacan): emerge l’inconscio nella voce delle pareti, dei tubi… che “rinfaccia” alla narratrice-protagonista la sua storia, dopo averla triturata, frammentata, stravolta nel delirio e reinterpretata in forme confuse e molteplici.
A dispetto dei riferimenti spaziali della struttura, non manca un’evoluzione (o involuzione) della storia, una trama con i suoi climax e i suoi colpi di scena, che tuttavia ribadiscono una tendenza alla coazione a ripetere della protagonista. Tutto comincia con un’esperienza di separazione e un grave lutto; la trentacinquenne Martina deve trovare la forza di tirare avanti. Pare farcela, tuttavia col puntello di divagazioni schizofreniche. Improbabili impressioni e vaghe allucinazioni (nel suo caso “terapeutiche”) in qualche modo la sostengono finché un nuovo incontro/confronto con un uomo non la mette alla prova in maniera dura come in passato. La breve convivenza con l’artista malato Fulvio la inchioda a un senso d’impotenza e di aridità che la spinge sempre più in un’area sensoriale-cognitiva “diversa”. Ecco che prende corpo la sua piccola mitologia domestica fatta di un figlio metà animale metà vegetale, di voci materne che provengono dalle tubature ecc. Finché nell’ultimo capitolo la narrazione esplode, così come la logica razionale che finora in qualche modo ha tenuto insieme il filo del racconto, in una serie di discorsi dei personaggi immaginari che abitano la sua mente. Nel labirinto della “Risposta della casa” si riesce a individuare il filo d’Arianna di una voce materna che continua a rimproverarla per tutte le scelte della sua vita e il ricordo, rimosso, di un trauma primordiale legato alla morte di un fratello.

II romanzo della trilogia
TITOLO     Doppio diario

In Doppio diario le voci narranti sono due, quella di una madre, cui si contrappone la voce della figlia in alcune fasi salienti della loro vita, le sole di cui resta traccia nei rispettivi diari. Ci ritroviamo così a leggere un testo frammentato e smozzicato, masticato da due personaggi, più volte interrotto e in alcuni punti cancellato e riscritto da una delle due narratrici, la figlia polemica nei confronti della madre.
Rispetto al primo romanzo-diario della Trilogia, il secondo parrebbe proporsi come sua continuazione e imitazione, ma gli interventi critici della lettrice figlia lo trasformano e lo rendono qualcosa di diverso. Il secondo romanzo è intrapreso infatti dalla sorella della narratrice del primo diario-romanzo, che intende riprendere dal punto dove quello s’interrompeva e continuarlo con la propria storia, ma viene scoperto in un cassetto dalla figlia adolescente, che vi trova lo svelamento di segreti di cui era ignara e lascia a margine i suoi commenti. Anche per gli anni successivi permane l’accostamento delle due scritture, ovvero del diario materno e di alcune note sparse filiali. Doppio diario dunque perché si presenta come copia del primo ma anche perché duplice in se stesso. Il tema dominante del lutto, della difficoltà di relazione, dell’ansia e dell’ambivalenza, incentrato in questo volume intorno all’assenza del padre e alla scomparsa del compagno della madre, in Doppio diario si carica di maggiore aggressività per la contrapposizione di due voci antagoniste.
Tutti e tre i romanzi della Trilogia sono romanzi regrediti a diari e traforati da molti spazi bianchi, segno visibile del vuoto che rode, corrode, come un roditore instancabile il testo, aggredendo i discorsi di tutte le voci narranti. La frequente sospensione dei tre puntini potrebbe essere assimilata all’immagine di esili ponti sul vuoto. Gli spazi bianchi sono forse anche simbolo della pulsione di morte, logoramento continuo, autodistruttività che costeggia e fa da sfondo al flusso verbale.
Merletto con molti buchi.

III romanzo della trilogia
TITOLO        Nell’altra stanza
   
Un giovane laureato in filosofia, costretto da un incidente a una temporanea immobilità accanto alla stanza della madre malata, inizia a tenere un diario che riporta anche brevi stralci di conversazioni tenute on-line con gli amici Andrea, suo omonimo ex compagno di sbronze e di studi, e Virginia, una internauta mai incontrata di persona (la voce della figlia nel romanzo precedente). L’amico gli invia fra le altre cose il racconto di una propria singolare “esperienza estrema”: un mese trascorso in volontario isolamento al buio.
Alla morte della madre, che vuole seppellire personalmente in un bosco dopo una fuga delirante col cadavere nella notte, il protagonista si allontana definitivamente da casa portando con sé (come per una ritualità molto arcaica) una reliquia, un dito del corpo di lei, nel tentativo di reinventarsi un rito funebre.
Trova lavoro come pony express a Francoforte, luogo sacro per le sue memorie culturali, ora divenuto capitale della finanza. Ormai senza ambizioni ma per un insopprimibile desiderio di conoscenza, s’iscrive a tempo perso a un corso universitario, fra incubi notturni, abbozzi di riflessioni non concluse, dialoghi con personaggi immaginari, come il Kirillov di Dostoevskij o Duda, una ragazza straniera che non esiste.
Prima di tornare a frequentare gli amici, scriverà un abbozzo di utopia, dove la Città ideale talvolta pare interrogarlo come una Sfinge.
Due tronconi narrativi, più ampi di altri frammenti narrativi disseminati nel testo, due cellule immaginative di maggiore consistenza e potenzialmente germinative di trama, che corrispondono ai capitoli Notturno e La città ctonia, sono immersi in un brodo colturale di associazioni, riflessioni, citazioni letterarie e filosofiche appartenenti al mondo degli studi dei due narratori intradiegetici, che si chiamano curiosamente allo stesso modo, i due amici Andrea e Andrea.
La macerazione-stagnazione diaristico-meditativa toglie velocità, movimento al progredire di un racconto, che infatti in alcune sue parti rimane impantanato in un’evidente difficoltà- impossibilità a svolgersi, a svilupparsi. Ma la sfida dei protagonisti a se stessi è proprio quella di riuscire a muoversi e addirittura di fare passi avanti.

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