Diverse volte ho espresso le mie riserve nei confronti della terza persona singolare. Scrivere un romanzo in terza persona è una scelta ottocentesca. Significa collocarsi all'interno dell'orizzonte gnoseologico del positivismo, in cui si credeva che un dio al di sopra del mondo reggesse le sorti umane, che il narratore, fatto a sua immagine e somiglianza, conducesse le pecorelle suoi personaggi sulla retta via o a perdersi, secondo la sua volontà; in ogni caso guardasse tutto dall'alto comprendendo (talvolta giudicando, talvolta rimanendo indifferente) ogni cosa. Per questo parlo scherzosamente di un narrare che è simile a un giocare con le figurine. La convinzione positivistica era che un distacco il più possibile scientifico permettesse di conoscere la cosiddetta realtà. Il Novecento ha poi dimostrato che succede tutto il contrario: noi siamo immersi nelle cose, non possiamo ritenercene al di fuori, e le possibilità di conoscenza sono compromesse perfino in relazione a noi stessi.
In numerosi testi narrativi contemporanei persiste la terza persona, come se quella consistente problematica novecentesca neppure fosse esistita. In tali casi prevale una visione del mondo con le cose al loro posto e un punto di vista esterno che osserva e capisce, come se vivere nel mondo equivalesse a osservare un diorama.
Ottima, al contrario, la scelta di Saviano in Gomorra che sceglie di esserci in prima persona anche se tratta un'inchiesta giornalistica, anche se scrive sostanzialmente un saggio. E dice che non avrebbe potuto fare diversamente. Questa è la nostra contemporaneità.
A mio avviso può risultare accettabile la forma mista, che non vuole del tutto rinunciare a uno sguardo dal di fuori, sarcastico o analitico, a un'interpretazione razionale di parti degli avvenimenti o della storia, che desidera concedere qualcosa dopotutto di ben meritato alla razionalità umana (un esempio eccellente dell'uso insieme della prima e terza persona mi pare rappresentato dalle Mosche del capitale di Paolo Volponi; ma ho letto di recente romanzi ben fatti che se ne servono con efficacia, come La vita in tempo di pace di Francesco Pecoraro).
Forse un eccesso della prima persona è anch'esso un falso. Quando domina incontrastata nell'intero romanzo, o in un'ampia sua parte, e fa continue considerazioni personali; quando comincia a spiegare troppo, esibendo una sua onniscienza sottratta alla terza persona ottocentesca, diffondendo in tutte le pagine un sordo cogitare razionalistico... Insomma si può nutrire qualche dubbio su questa tendenza alla saggistica propria di alcuni romanzi contemporanei, che pur si segue con interesse e attenzione. Viviamo in un periodo di fede nella scienza e nella tecnica, quindi una preponderanza del saggio, dell'informazione, dell'inchiesta giornalistica si può capire.
Ma senza ombra di dubbio la terza persona assoluta, a distanza di più di un secolo, si presta all'utilizzo naif o cinico (di chi vuol semplificare troppo le cose). E' vantaggiosa unicamente per la consumazione. Nei prodotti di consumo offre l'apparenza di un mondo facile, facilitato.
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