Dopo "Camera fissa" di MARCO ERCOLANI e "Saggi inventati" di ENRICO DE VIVO, il terzo di cui vorrei parlare è un libro di racconti di ROBERTA SALARDI: “Mannequins. Dieci fiabe sulla donna-oggetto e altri racconti”, Ed ZONA Contemporanea, Arezzo, 2013, pp. 131, E. 13,00. Avevo letto e apprezzato il precedente libro della scrittrice, “Regressioni” (Effigie, 2010), e devo dire che questo mi sembra anche migliore. Ci sono alcune cose che non mi convincono, a cominciare dal titolo a mio parere troppo esplicito, che indice sospetti di storie a tesi e di denuncia sociologica, da una parte e ambiguo dall'altra (se si pensa alla copertina con una modella che sta sfilando e al fatto che modelle non ce ne sono quasi, se si esclude quelle inconsuete del notevole racconto di apertura dove giovani donne imbalsamate vengono usate come manichini nei negozi, donne di compagnia di miti psicopatici e oggetti di collezione di un critico d'arte che le ha acquistate da un fornitore parente stretto di compari che procuravano i cadaveri in Il dottore e i diavoli di Dylan Thomas), ma non mi adeguerò al giochetto dei recensori che “sì, insomma, il libro è bello, ma discontinuo...” e altre scemenze: è ovvio che in un libro di racconti alcuni piacciano di più e altri di meno. La lettura dei racconti dipende da molti fattori, anche quelli materiali, di orario e umore, e più facili i giudizi, essendo la forma e la lettura brevi, e quindi variabili con quelle condizioni.
Dunque Mannequins è un bel libro senza ma. Chiuso.
Dirò allora le cose che mi piacciono. In alcune il gioco rischia di essere troppo scoperto, ma in genere l'autonomia della narrazione tiene benissimo e la trappola simbolica resta solo come efficace e non esplicito né univoco sottofondo, al pari del rischio del “voler dire”, della subordinazione magari involontaria al messaggio e al riferimento diretto alla “società” e altre simili ubbie. L'ironia è quella delle situazioni, che poi le proiettano su molti personaggi (specie quelli maschili o, se femminili, di donne legate a immagini, aspettative e ruoli dettati dall'ottica maschilista, magari volontariamente assunti per trarne vantaggio), evitando quella diretta, che diventerebbe schematica: anzi, a volte su di essi lo sguardo non manca di tenerezza. Giova all'ironia il fatto che molte storie siano narrate in prima persona dagli stessi protagonisti, che non vi vedono nulla di straordinario e anzi le riferiscono con il tono discreto e quasi sussurrato di persone timide e miti, o in quello oggettivo degli standard cronachistici, che sono autoparodici già nella realtà, come in “Zapping fatato”. Il distacco, l'astensione dal giudizio o da qualsiasi intervento di una voce autoriale, si traduce automaticamente in perfidia; lo squallore di certe situazioni, come la condivisione di valori e cliché da cui pensavamo di andare esenti, diventano i nostri, per quanto paradossali siano; la riduzione dell'empatia, che qui è metodo, si trasmette anche al lettore, che accetta lui pure come “normali”, o guarda come al resoconto di un'osservazione scientifica, anche le figure e le storie che sconfinano nel patologico o nel fantastico: come il nostro ordito quotidiano, quali difatti sono. Inquietanti ma tranquillamente plausibili, al massimo sfumate di tenue meraviglia.
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