venerdì 18 febbraio 2022

Riflessioni su Manganelli del 2013 rivedute e corrette

Ho un po' modificato la parte di questo post dedicato all'atmosfera asfittica, da morte intrauterina, di alcuni brani manganelliani.

La forte intensità del racconto intradiegetico "Storia del non nato", reperibile nella parte finale dell'Hilarotragoedia manganelliana, frammento straordinariamente tragico in quel contesto (che riporta frasi di "asciutta disperazione" come questa: "Non più donna era costei, ma esempio estremo, unità di misura del male, della sofferenza…", p 118 nell'edizione adelphiana del 1987) si può intendere come spia del fatto che l'autore sta parlando di se stesso: è lui, Giorgio Manganelli, che lamenta il suo non essere nato all'esperienza (in questo caso esperienza affettiva di figlio poi fidanzato, marito…) fino a desiderare la morte pur non essendo mai nato, morte al quadrato, morte elevata a potenza (evidentemente qui lo scrittore si riferisce a una condizione psichica non a una realtà autobiografica; fu infatti partigiano, ebbe storie d'amore tormentate). Ma perché parlare di non-nascita se ebbe una vita, a periodi, intensamente vissuta? Quell'atmosfera asfittica da morte intrauterina deve corrispondere probabilmente a un desiderio punitivo. Un grembo materno che soffoca, che rende impossibile la nascita e che evoca quindi un desiderio inconscio, castigato, di regredire a una pre-vita? Oppure semplicemente senso di colpa per aver vissuto? Oppure senso di colpa per non aver vissuto abbastanza? Resta nell'indefinito letterario la motivazione ultima delle ambientazioni inquietanti di quegli pseudoromanzi.
La messa in forma narrativa di un'angosciosa solitudine esistenziale ("Non ho nome, né luogo, né sangue, non mi è dato né nascere né morire…") pare di tutt'altro segno per gli autori italiani più recenti, testimoni di una storia contemporanea eccezionalmente risparmiata nell'Europa occidentale dalle guerre, dai massacri di massa, dalle grandi carestie e altri flagelli, un fatto ascritto in particolare all'ultima generazione scrutata dall'occhio critico e autocritico di Antonio Scurati (La letteratura dell'inesperienza, Bompiani, Milano 2006) e Daniele Giglioli (Senza trauma, Quodlibet, Macerata 2011). Gli autori considerati nei suddetti studi soffrono per non aver vissuto abbastanza.
Gilda Policastro in Polemiche letterarie. Dai Novissimi ai lit-blog (Carocci, Roma 2012) ha un'intuizione che condivido in pieno circa la vera natura di quell'inesperienza profonda di cui parlano Scurati e Giglioli nei loro saggi recenti: la natura sociale, di classe della condizione privilegiata dell'intellettuale, tuttavia sensibilmente consapevole di carenze profonde sue e della società. La ricercatrice segnala la presenza di un "muro che separa di netto il recinto anestetizzato e davvero senza traumi di coloro che conservano il privilegio di una posizione intellettuale (cioè separata dalle cose) e di quanti dalle cose medesime siano invece così assorbiti e totalizzati da non potersi consentire né di scrivere né di leggere libri." (p 162). Nella frase citata l'autrice si riferisce al caso letterario di Gomorra (Roberto Saviano, Mondadori, Milano 2006), osservato più con attenzione sociologica che estetica, in quanto riuscì eccezionalmente a rompere quel muro divisorio, fatto davvero raro, fra l'altro mai ripetutosi neppure con gli altri libri dello stesso autore.
Voglio intendere che al centro della questione stia il profondo divario sociale nel nostro Paese. Da qui l'importanza che possono aver avuto macroeventi come la guerra o la Resistenza (cfr il Calvino del Sentiero dei nidi di ragno citato da Scurati nel suo saggio), non tanto come produttori di traumi quanto come cause di rimescolamento sociale e di vita partecipata.

Ma dopo la pandemia di Covid-19 e con un equilibrio internazionale ormai instabile credo cambieranno le cose. 

Nota A proposito di trauma, mi pare interessante questa frase di E. M. Cioran: "Senza dubbio, le sole esperienze davvero autentiche sono quelle che nascono dalla malattia." (Al culmine della disperazione, 1934, Adelphi Milano 1998, p 37). Sì, più malattia/complesso che trauma: la teoria della causa interna mi convince più della causa esterna.

 

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