domenica 17 gennaio 2021

Dei diari e loro labirintici meandri

Una recensione di Claudio Zanini apparsa sulla rivista Odissea


Due diari o forse più che s’intrecciano, parti trascritte dall’uno all’altro, contraffazioni, accuse, rettifiche, cronache di fatti e spericolate smentite. Ecco di cosa tratta il bel libro di Roberta Salardi, Trilogia della scomparsa, edizioni Effigie, suddiviso in tre sezioni. Nella prima, Il corpo della casa, l’intreccio di voci appartiene a un diario abitato da personaggi reali e no. Nel secondo romanzo, Doppio diario, un singolo quaderno si sdoppia e ne nascono due, che s’intersecano, messi a confronto da una madre e una figlia in contrasto fra loro. In queste due sezioni tre donne, le sorelle Martina e Fabiola più la figlia di quest’ultima, Virginia, s’incontrano e si scontrano, sempre con una vena d’euforica follia, nella loro spasmodica ricerca d’una identità smarrita e di un equilibrio mai conseguito. La triplice composizione, narrata con uno stile chiaro e immaginifico, è nell’insieme molto complessa e comprende anche una terza parte, con protagonisti maschili.

Il testo è sostenuto da una scrittura molto ricca e mutevole, densa d’immagini e fulminee notazioni ironiche, perfino grottesche, al fine di sdrammatizzare la drammaticità di alcuni accadimenti. Una lingua che va in profondità e, tuttavia, è in grado di virare verso l’immediatezza d’un flusso espressionista e in molte occasioni raggiunge livelli d’intensa poesia. Metafore che non alludono ma descrivono una realtà di totale immedesimazione altra e subitanea (cito alcuni dei capitoli più surreali: il capitolo Macchia con i paragrafi titolati alone; Nervi capelli; Abluzione con i paragrafi cerchio, ecc.). Scandiscono il racconto dei flashback sull’infanzia delle sorelle sotto forma di scarni dialoghi, espliciti e taglienti delle due bambine (che ricordano quelli di Trilogia della città di K, della Kristof), in cui si rivelano il sorgere dei sensi di colpa e, già latente, la loro rivalità.
Salardi, come s’è detto, si avvale d’una scrittura densa, sovente folle e stravagante (un concerto di voci che si sovrappongono, feriscono, disputano e implorano), frammentata e scomposta che, tuttavia, padroneggia con maestria, per restituire un contesto molto complicato e labirintico (entro i meandri dei diari talvolta ci si domanda: chi parla qui esattamente? nel capitolo Sgabuzzino prendono vita ricordi di persone realmente esistite? e perché la loro esistenza è continuamente contraddetta?), ricco di sfumature e illuminazioni. Tutto, tra l’altro, narrato in una lingua non faticosa ma, al contrario, di piacevolissima lettura.

Ricorrono nel testo temi come la maternità - desiderata e, quando conseguita, conflittuale - e, implicitamente, quello dell’arduo rapporto con i genitori, madri disturbate e padri inesistenti. Affiora il senso d’una corporeità dolente di corpi sofferenti e lacerati; si avverte, inoltre, nell’intera narrazione una costante attenzione verso una flora e una fauna neglette e costantemente prede e vittime di soprusi; una natura planetaria in pericolo d’estinzione. Tema questo, della sopravvivenza dell’ecosistema, molto caro all’autrice.
Martina, divorziata, è stata lasciata dal marito perché incolpata della morte della figlia adottiva a causa della sua disattenzione. Ma nel capitolo Sgabuzzino si accenna al fatto che possa essere stata semplicemente tenuta in affido e poi restituita.
Nella sua casa appena restaurata, ospita e si prende cura di Fulvio, un artista, malato forse più psichicamente che nel fisico, con cui ha una relazione precaria. Sempre sull’orlo della morte per malattia (così dice lui), la storia finisce realmente con la morte dell’uomo; un atroce suicidio in cui, morente, Fulvio imbratta di sangue e umori corporei l’appartamento di Martina. Lei ne risente e il suo immaginario perturbato favoleggia di un figlio d’ibrida natura umana e vegetale (in effetti, cova, ha una gravidanza isterica). Lei stessa si immedesima in un albero, in una pianta, in erba e fiori.
Dopo il tragico accadimento, Martina, curata e aiutata psicologicamente dal suo medico, allaccia con quest’ultimo un rapporto affettivo che, tuttavia, potrebbe non funzionare. Anche perché lui, “un insieme vuoto”, è spesso assente. Forse, in realtà si tratta dello psicologo - del reparto da dove lei entra ed esce - di cui Martina s’innamora e su cui inventa una storia, come insinua Fabiola nel secondo romanzo.
Se nella prima parte soffre l’anima, la psiche (e la casa (lo Sgabuzzino), serbatoio di ricordi, è il simbolo di questa condizione), nella seconda, Doppio diario, si precisa più una corporeità sofferente (i capitoli hanno come titoli parti del corpo). Anche Fabiola, la sorella di Martina, è divorziata con una figlia (maternità - frutto d’un rapporto occasionale - che lei desiderava comunque) e ha rapporti instabili con i vari uomini che incontra. Si trasferisce con la figlia Virginia a casa di Martina ricoverata in clinica. Nell’appartamento, Fabiola scopre il diario della sorella; le viene così l’idea di tenere un diario a sua volta, raccogliendo nelle sue mani il testimone della scrittura.
Quando sarà adolescente, Virginia, animalista militante spesso in contrasto con sua madre, rinverrà in un cassetto questo quaderno, “slabbrato e disarticolato”; lo leggerà scoprendo molte cose di cui era all’oscuro e di come la madre le abbia mentito (soprattutto sull’identità del padre). 
Virginia dallo sguardo acuto. A differenza di Fabiola, una sognatrice affetta da un perpetuo vittimismo, una “lumaca addormentata”, Virginia è “lucertola guizzante (anche un po’ coccodrillo)”, provvista di un notevole senso autocritico e in possesso d’una dolente responsabile percezione del mondo, intessuto spesso da rapporti mistificati. Cosciente della propria “asimmetria” rispetto a un reale stravolto avverte su di sé tutto il disagio d’un pianeta devastato dal cosiddetto sapiens.

Virginia - dunque, mente lucida -, commenta “sminuzzando” questo diario materno riportando dialoghi, togliendo e aggiungendo, inserendo titoli, frasi, pagine. Ne vien fuori una narrazione densa di attriti, travisamenti e reciproche menzogne risultanti dall’intrecciarsi delle severe considerazioni di Virginia sulla madre, che le pare talvolta un’irresponsabile “vecchia incartapecorita, mammificata”, e le stralunate, angosciose riflessioni di Fabiola sia riguardo la fuga da casa di Virginia adolescente, sia riguardo la misteriosa scomparsa del marito Sergio che, inaspettatamente, si apparta andando ad abitare in un’altra casa dall’indirizzo sconosciuto. Sergio verrà trovato morto, sfracellato in un dirupo per cause oscure.
Qua e là presente nelle prime due parti della narrazione, anche la madre delle due sorelle, che viene caratterizzata dal suo continuo brontolio recriminante, perfino attraverso le tubazioni della casa. Aleggia, nei vaneggianti discorsi della madre, la figura di un fratello morto da piccolo a causa della disattenzione di Martina (torna a ripetersi, come un ritornello, il tema di un rimorso per qualcosa di banale, forse l’accidentale scivolata da uno scoglio, e nello stesso tempo imprecisato. Il tema è ripetuto con varianti nel capitolo Sgabuzzino: l’allusione di una morte da adolescente per overdose o per qualcosa che rimane non detto, nascosto più che rivelato, nelle scene di gioco e inseguimento fra bande, poiché la crescita è anche violenza, rivalità con altri, prova pericolosa, dolorosa scoperta, turbamento, affetti accesi).
Le figure maschili, come si è già accennato, esprimono un’umana precarietà. Sia quelle che frequenta Martina: Fulvio, un malato immaginario, un ipocondriaco sempre sull’orlo della morte (dice lui), e il medico che l’ha in cura (l’insieme vuoto), entrambe figure inaffidabili che sfuggono il rapporto; sia quelle legate a Fabiola: prima i vari partner d’incontri occasionali, infine Sergio, impegnato in un misterioso lavoro di scrittura, che prima s’apparta, poi scompare e muore. 
Nella terza sezione, Nell’altra stanza, Virginia incontra Andrea che vive con la madre ammalata. Il giovane, convalescente dopo un incidente di macchina, intrattiene una conversazione online con un amico, peraltro suo omonimo (Andrea). In un contesto di spaesamento e solitudine i due giovani cervelli (il loro rapporto è soprattutto virtuale; si parla poco di fisicità (in particolare nei sogni del secondo Andrea), a differenza dei discorsi femminili, densi di carnalità, senso corporeo); i due giovanotti, si diceva, febbrili ma entrambi irrisolti e in bilico sul crinale dell’autodistruzione, disputano di filosofia, tra consapevole ironia e disincanto, alla ricerca d’una razionalità che non offre strumenti risolutivi né fornisce spiegazioni ultime.
Chiude il libro la descrizione, da parte del primo Andrea, di una società socialista e utopica dove la natura è rispettata, i rapporti umani - spariti disuguaglianza e sfruttamento - sono naturalmente armonici ed equilibrati. Tutto perfetto, a differenza della vita confusa e sottosopra delle due sorelle. Tuttavia, in questa ideale città ctonia, stranamente si ha l’impressione che regni un indefinibile disagio e un’infinita solitudine, destinati a logorare forse anche le società più virtuose, tese verso un continuo miglioramento. Meglio la stralunata follia, aggrovigliata ma creatrice, delle figure femminili dei diari precedenti?  


Articolo apparso su Odissea (libertariam.blogspot.com) il 17.01.2021.

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