martedì 17 marzo 2020

Relazioni coi fantasmi

Brano tratto da un mio romanzo inedito

Senza parere, avevo confessato una grande, disdicevole verità. Per certi versi trattavo Aguidi come una bella preda e la sfruttavo anche più di quanto avessero fatto probabilmente le sorelle. Le avevo trovato un'occupazione meno pesante e meglio remunerata di quella nella stireria dove la conobbi (e dove qualche volta andava ancora per arrotondare lo stipendio), ma nello stesso tempo mi facevo mantenere da lei. Io non avevo più voglia di lavorare. Avevo annullato quasi tutte le visite coi miei soliti pazienti, che trascinavano la terapia da anni senza risultato. Non avevo più la forza di portarne il peso e li avevo dirottati presso colleghi più in gamba di me. Anche le mie finanze ne avevano risentito. Ora era Aguidi che si occupava quasi di tutto, in casa e fuori.
Trascorrevo le ore della mattina in un lungo, confuso dormiveglia in cui si alternavano le immagini della mia amante viva e di quella morta. Mi ritrovai a stringere fra le braccia lenzuola sfatte che credevo fanciulle addormentate o a piangere sui cuscini come un bambino in castigo. Non ero più un uomo e, pur vergognandomi in qualche parte recondita di me stesso della mia situazione, non riuscivo a modificarla. Anzi, lasciavo che quella che era diventata per forza di cose la mia convivente, lavorasse anche per me, che avevo molto ridotto il numero dei miei pazienti.
A questo ero arrivato quasi senza rimorsi.
Ma una mattina di quelle in cui più a lungo mi ero trattenuto sotto le coperte, al punto da decidere di non alzarmi fino a che non fosse scesa la sera, le ombre furono tagliate dalla chiara apparizione del più insolito dei miei fantasmi.
Supplice, pensai di cingerle le ginocchia come fosse un personaggio dell'Odissea (in questo probabilmente suggestionato dai miei studi classici), uno di quei personaggi che hanno il potere di gettare Ulisse nelle peggiori tempeste. Le mie dee, tuttavia, non mi parlavano facilmente, non nutrivano più una predilezione o una particolare antipatia per me. Benché fossi ai suoi piedi, lei superò agilmente l'ostacolo del mio corpo, mi carezzò la fronte e si allontanò.
Dovevo prendere quel lieve tocco come un segno d'incoraggiamento, invece non riuscii comunque a sollevarmi dal letto.
Poteva trattarsi, riflettendoci bene, di un ammonimento. Mi misi a fantasticare sulle apparizioni di mia moglie. Delle mie evanescenti visitatrici era quella che somigliava di più a una dea del mare. Senza averne l'aria, era quella delle tre che presumibilmente mi avrebbe fatto fare naufragio. Dovevo aspettarmi che mi scatenasse contro, da un giorno all'altro, la furia degli elementi. Il mio ozio e il mio parassitismo certamente non mi mettevano in buona luce ai suoi occhi.
A notte inoltrata fui angosciato dall'altra mia persecutrice, Araune. Lei, la mettevo semplicemente in relazione con una dea della notte, non c'erano possibilità di attenuarne in alcun modo la carica negativa. Addirittura, in preda all'odio, mi ritrovavo a fantasticare che le avesse uccise entrambe in quell'incidente, Agave e Lilia, pur di non lasciarne nessuna per me. Asciutta, di poche parole, vestita spartanamente: era così che mi figuravo la lunare Ecate. Non posso descrivere come mi sentii quando una sera molto tardi, sul principio dello scurire, i due fantasmi unirono la loro influenza nefasta comparendo insieme.
La bionda, mia moglie, si accasciò sospirando sulla sedia davanti al letto; l'altra le si fermò alle spalle come una guardiana o come un fedele scudiero (a quanto pareva, Araune nell'aldilà scortava sovente le sorelle; faceva lei, per contrappasso, l'accompagnatrice…). La posa solenne mi suggerì l'impressione che fossero in procinto di farmi una qualche drammatica rivelazione e cercai di rifugiarmi nel sonno per non udirle. Ma Araune era nervosa e prese ad andare su e giù per la stanza mentre mia moglie parlava. Faceva cadere oggetti o scricchiolare il pavimento apposta per tenermi sveglio, così mi raggiunsero queste alate parole:
"Jean, c'è qualcosa che non ho mai voluto dirti in tutto questo tempo perché non volevo causarti un'inutile sofferenza. Ma è giunto il momento in cui forse essere più consapevole potrà renderti migliore, non so... vedo che nulla riesce a darti una motivazione per cambiare..." La brezza che entrava dalla finestra forse era fatta di sospiri. "La mattina dell'incidente avevo avuto il referto di un esame di laboratorio. Avevo appena saputo di essere incinta. Te l'avrei detto la sera stessa, non appena ci fossimo visti."
Ma il suono così chiaro durò pochi istanti. L’avevo udito veramente? Le sensazioni dentro di me si confusero, i loro volti s'incupirono, mentre la mia stanza era invasa dalle tenebre.

Brano tratto dal romanzo "Le tre sorelle fantasma"

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